venerdì 16 novembre 2007

Jerome K. Jerome - Tre uomini in barca

Un libro nato come una guida turistica e letteraria, che non è altro che la strampalata storia di tre amici (l’autore, Harris e Gorge) che decidono, non senza difficoltà di accordo, di intraprendere, insieme al fido cane Montmorency, un viaggio in barca lungo le rive del Tamigi (dei quattro, il cane è il più avveduto: infatti, quando viene messa ai voti la decisione di partire per la gita in barca, è l’unico che vota contro). Alla gita sul Tamigi si arriverà molto tardi: il resto è preparazione attraverso l’ozio. Ne nasce un libro esilarante, in cui la trama è solo il pretesto per una serie di irresistibili saggi di puro humour britannico, con piccole sventure e comiche avventure, curiosi aneddoti di costume e digressioni su quei luoghi. Dal folgorante inizio in cui l’autore, dopo la lettura di un testo di medicina, scopre di essere il ricettacolo di tutte le malattie possibili e immaginabili, tranne il “ginocchio della lavandaia”. O le peripezie dello zio Podger che, con l’aiuto dell’intera famiglia, ivi inclusa la domestica a ore, decide di appendere un quadro in salotto (mitica la scena della ricerca della sua giacca, su cui è seduto). L’avventura dell’amico con le forme di formaggio, o quella dello zio che viaggia per nave fino a Liverpool non potendo approfittare, per colpa del mal di mare, delle due sterline al giorno pagate in anticipo per i pranzi. I celebri aforismi (“Mi piace il lavoro, mi affascina. Potrei stare per ore seduto ad osservarlo”), le considerazioni sull’attendibilità delle previsioni del tempo (“la peggiore delle frodi”!), i consigli su come preparare il the e sbucciare le patate, i giusti metodi per imparare a navigare e raccontare frottole credibili quando si pesca (l’episodio dell’enorme esemplare di trota appeso alla parete di una locanda con un numero infinito di persone che ne attestano la paternità!). Il racconto degli incontri furtivi fra Enrico VIII e Anna Bolena, così invasivi da costringere i sudditi alla pirateria, o le notazioni sulle visite ai pub Harris di cui, come per quelle della regina Elisabetta I, sarebbe più utile lasciare targhe per ricordare quelli a cui non ha fatto visita. La camicia di Gorge finita nel Tamigi, o Harris che, dopo aver fatto perdere una folla di gente nel labirinto di Hampton Court, dichiara di non riuscire a sottrarsi all’impressione di essere divenuto, entro una certa misura, impopolare. Straordinario il capitolo che mette alla berlina la deprecabile ossessione inglese per le tombe e i cimiteri, con un guardiano scocciatore che vuole convincere il protagonista a visitare la celeberrima tomba della signora Thomas, vera e propria attrazione turistica del luogo, illustrando per tipo in climax ascendente tutte le gioie del luogo (fino ai teschi!), mentre il protagonista, pur disprezzando il culto delle tombe, gli contrappone la grandiosità del mausoleo funebre della propria famiglia. Un libro a torto accusato di essere inutile e che incredibilmente, ancora oggi, non viene capito. La realtà è che noi italiani sottovalutiamo la letteratura inglese (o, semplicemente, non la capiamo) e, di conseguenza, ci priviamo del gusto di scoprire autori come Jerome K. Jerome.

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