sabato 28 febbraio 2009

Frank Herbert - Messia di Dune

La storia comincia dodici anni dopo la vittoria dei Fremen guidati da Paul Muad’Dib, erede degli Atreides, divenuto ora imperatore. Il pianeta Arrakis, meglio noto come Dune, si trova a essere il centro dell’universo per la sua produzione di spezia, e per questo è ancora una volta al centro di una serie di intrighi che comprendono la sorellanza Bene Gesserit, la Gilda Spaziale, i Tleilaxu (maestri delle scienze biologiche e manipolatori genetici), un gruppo di Fremen ribelli e la stessa moglie di Paul Atreites, Irulan, che finora ha somministrato droghe di nascosto a Chani, la concubina di Paul, per evitare la nascita di eredi per la dinastia Atreides, in questo sostenuta dalla sorellanza Bene Gesserit, che non può permettere che la linea genetica del Kwizatz Haderach (l’Essere Supremo) si imbastardisca con sangue Fremen (il popolo del deserto che abita Arrakis). L’obiettivo è una congiura nella congiura: donare all’imperatore un ghola, cioè un clone, di Duncan Idaho (amico di Paul e braccio destro degli Atreides ucciso nel primo libro), per costringerlo a ucciderlo ma per testare allo stesso tempo la capacità dei ghola di ricordare il passato prima della riprogrammazione genetica; quindi, tentare di corrompere l’imperatore dopo la morte della sua amata Chani costringendolo a scendere a patti per riaverla in vita come ghola. Ovviamente, tutto per il controllo della spezia. Esecutore di questo piano machiavellico è Scytale, un Volto Danzante (creature programmate geneticamente dagli Tleilaxu che hanno l’abilità di assumere le fattezze altrui). Muabd’Dib perde in un attentato l’uso degli occhi, ma non della vista, continuando a vedere grazie alle sue visioni; Chani, invece, ricorre alla spezia per contrastare le sostanze anticoncezionali ed alla fine partorisce due gemelli, anche se a prezzo della vita. Paul, lacerato dal dolore e dalla disperazione, scopre che i gemelli sono pre-nati e prescienti, tanto che il figlio Leto gli appare, come altre volte durante i sogni, nella forma di un giovane che lo invita ad usare i suoi occhi di neonato per uccidere il Danzatore del Volto prima che questi possa fare del male a lui o alla sorella. Quindi, completamente cieco, Muad’Dib si incammina da solo nel deserto per andare a morire, secondo la legge Fremen secondo cui i ciechi vanno abbandonati al Verme delle Sabbie, mentre i gemelli vengono affidati ad Alia, la sorella di Paul e nuova reggente dell’Impero, che trova conforto e amore tra le braccia di Duncan Idaho. Rispetto al prototipo, questo secondo capitolo della saga di Dune abbandona i toni epico/fantascientifici e si avvicina più alla tragedia greca e al racconto filosofico: alcuni aspetti (come l’ecologismo) sono stati messi da parte, mentre altri vengono maggiormente sviluppati, come la tematica della religione e della pericolosità che essa può assumere quando diventa potere politico e militare (il jihad), tanto che lo stesso culto di Muad’Dib è diventato uno sterile susseguirsi di rituali vuoti ad uso e consumo di un potente apparato burocratico. Paul è ormai un anti-eroe tormentato di fronte a un destino a cui non può sfuggire (destino che lui stesso involontariamente si è costruito, cercando una predizione assoluta del futuro); egli ha sempre cercato di evitare di essere trasformato in un dio e che il jihad si propagasse, nonostante in suo nome siano stati sterminati sessuntun miliardi di persone, sterilizzati novanta pianeti e depress completamente altri cinquecento, oltre ad aver spazzato via quaranta religioni. Ma grande è il dibattito tra morale e legge, sugli esiti a cui ciascuna di queste cose (se preferita all’altra) può portare. Ancora più complesso il personaggio di Alia, sempre più combattuta tra la sua giovinezza che la chiama all’amore e la sua missione di sensitiva e Reverenda Madre Bene Gesserit (avendo mescolato alla nascita la sua psiche con quella della madre, essa non di rado si ritrova a pensare al fratello come a un figlio e al padre come a un amante). Nuova importanza acquista il personaggio di Irulan, praticamente inutile nel primo libro se non come narratrice con le introduzioni ai vari capitoli e nel suo ruolo di principessa da sposare per sistemare la situazione politica: qui prende parte al complotto per destituire gli Atreides, ma la durezza con cui gli stessi Atreides la ripagano sottolinea efficacemente quanto sia difficile conciliare sentimenti e potere.

martedì 24 febbraio 2009

Michael Moorcock - La saga di Elric di Melniboné. Secondo volume

Secondo volume dedicato al campione più amato di Moorcock, l’albino maledetto Elric di Molniboné, campione del Caos e condannato a un destino di reietto con la sua Spada Nera Tempestosa. Il primo romanzo, Il fato del lupo oscuro, comincia con una parentesi, il racconto delle gesta di Aubec di Malador, eroe dei Regni Giovani, che conquista il castello di Kaneloon, posto ai confini del mondo tra la Legge il Caos, e incontra la Dama Tenebrosa Myshella, paladina della Legge, che gli spiega come sfidare il Caos per liberare e annettere nuove terre. Quindi, il protagonista torna Elric, che progetta la riconquista del suo trono a Melniboné (naturalmente suo cugino Yyrkoon, da lui lasciato sul trono in sua vece, l’ha nuovamente tradito). Con una flotta di alleati provenienti dai Regni Giovani, attacca Imrryr, la Città Sognante, e cerca di liberare l’amata cugina Cymoril: purtroppo per lui, però, il destino gli gioca nuovamente un brutto colpo perché, nello scontro decisivo con Yyrkoon, Elric uccide per sbaglio anche Cymoril. Fuggendo dalla città, i Signori dei Draghi melniboneani liberano le loro spaventose creature alate e distruggono la sua flotta, e Elric riesce a sfuggire solo grazie alle sue arti negromantiche. Distrutto dall’accaduto, l’albino cerca di liberarsi della sua terribile arma, la spada senziente Tempestosa, gettandola in mare, ma purtroppo non può esimersi dal riprenderla subito capendo di non poter vivere se non legato ad essa: egli infatti è debolissimo e solo Tenebrosa può dargli vita assorbendo le anime altrui nel nome di Arioch, signore del Caos (un rapporto di dipendenza molto simile a quello con le droghe), e per punto proclama all’accettazione al suo terribile destino: «Noi due siamo simili: prodotti da un’epoca che ci ha abbandonati. Diamo a quest’epoca una ragione per odiarci!». L’unico suo obiettivo diviene ora quello di scoprire se esiste un dio supremo sopra le leggi dell’Entropia (il mondo di Moorcock è dominato dallo scontro eterno tra le forze del Caos e le forze della Legge) e per questo accetta di unirsi alla bella Shaarilla nella ricerca del Libro degli Dei Morti: affronta un gigante della nebbia e una legione di cani infernali, conosce il cinico (ma affezionato) avventuriero Maldiluna e trova il libro, che però gli si riduce in polvere tra le mani. A questo punto si può capire tutto il dramma e lo spessore di questo antieroe tormentato: Elric si trova a dover soggiacere a un destino inesorabile al quale lui (una specie di filosofo scettico) stesso si rifiuta di credere. Dopo aver abbandonato Shaarilla (Elric è costretto ad abbandonare le donne che ama, per non causare la loro morte), ma in compagnia del fido Maldiluna, si scontra per la prima volta con gli uomini dell’isola di Pang Tang e aiuta la regina Yishana a riconquistare una cittadella caduta preda di Balo, il Giullare del Caos, fino all’intervento personale dello stesso Arioch (che gli rivela come gli dei vivano per alimentare la lotta cosmica, non per vincere). Quindi, scopre il tradimento dello stregone Theleb K’aarna e comincia a inseguirlo, tanto che nel secondo romanzo, La torre che svaniva, affronta uno stormo di chimere multiformi e si imbatte nella Myshella che abbiamo incontrato all’inizio del volume e che ora gli chiede di aiutarla a recuperare un artefatto magico dal tesoro di un castello e combattere Umbda, principe del Caos, il quale si è alleato con lo stesso Theleb K’aarna e cerca di conquistare il castello di Kaneloon. Nonostante si trovi in difficoltà e scoprendo come anche Tempestosa possa saziarsi di anime e abbandonarlo nel bel mezzo della battaglia, Elric riesce a sconfiggere Umbda e la sua orda di kelmain, anche grazie all’intervento di un gigantesco uccello metallico e all’artefatto di Myshella (un immaginifico “cappio di carne”). Lo ritroviamo quindi a Nadsokor, la Città dei Mendicanti, dove combatte il signore locale, Urish dalle Sette Dita, che ha accolto Theleb K’aarna, e il demone della Legge Donblas (davanti a cui l’albino non può fare nulla perché, trasferendo Tempestosa in lui le forze del nemico, non è in grado  di sopportare l’essenza di un dio, e per questo necessita di un nuovo intervento di Arioch). Quindi, ritrova il vecchio compagno Rackhir l’arciere e si unisce agli eroi alla ricerca di Tanelorn (la Città Eterna fuori dalle leggi dell’Equilbrio cosmico, presente in tutti i livelli del Multiuniverso sebbene con diverse forme, un posto malinconico e crepuscolare dove ognuno può fare i fatti propri e riposare), e affronta la magia dello stregone di Pang Tang che evoca le Elenoin, una specie di donne demoniache. Un altro punto interessante è che, mentre tutti gli eroi (diverse manifestazioni dello stesso Campione Eterno, nella mitologia di Moorcock) faticano per trovare Tanelorn, Elric è il solo che la trova senza sforzo e che decide di lasciarla di sua spontanea volontà. Intende lasciarsi morire nel Deserto Sospirante, ma viene salvato dall’intervento di Myshella, quindi si unisce a Corum e a Erekosë nel combattere Voilodion Ghagnasdiak, un malvagio gnomo che ha occupato una torre che il Caos ha stabilito doversi spostare in eterno di livello in livello: i tre, diverse personificazioni dello stesso Campione Eterno esistenti su differenti livelli del Multiuniverso, vanno a costituire i Tre-che-sono-uno, e liberano Jhary-a-Conel, il Campione dei Campioni. Grazie alle armi da lui donate, Elric torna a Tanelorn per vedersela definitivamente con Theleb K’aarna e le sue creature infernali, ma ancora una volta deve soccombere al suo destino, trovando Myshella uccisa. Insomma, una saga che può non piacere agli amanti del fantasy tradizionale e che può apparire per certi versi cervellotica, ma sicuramente stimolante e del tutto originale. Moorcock ha uno stile strano, diverso dal fantasy tradizionale: non è per niente descrittivo, anzi, lascia moltissimo spazio all’immaginazione, basti pensare a come ritrae il Caos (una serie indistinta di colori, suoni e prospettive deformate, quasi un trip lisergico o psichedelico per indicare una creazione tanto feconda quanto distruttiva e insensata), ma la narrazione è nervosa e frammentata, procede a scatti e non lascia un attimo di tregua, e non di rado regala visioni barbariche degne della miglior heroic fantasy.

Frank Herbert - Dune

Dopo dieci anni ho ripreso in mano questo capolavoro riconosciuto della fantascienza capace di influenzare decine di scrittori e registi (Lucas ha candidamente ammesso che, senza DuneGuerre Stellari non sarebbe mai potuto esistere) e ho potuto apprezzarne a fondo tutto il fascino, perché questo romanzo, il primo di una lunga saga, non è solo un’opera di fantascienza, anzi, semmai è un’opera di fantascienza con riferimenti epici e antichi che lo trasformano in qualcos’altro. Lo scenario è il pianeta Arrakis, meglio noto come Dune, un immenso deserto caratterizzato dalla presenza dell’unica fonte del potere dell’universo, la spezia, in grado di assicurare i viaggi interplanetari nell’universo (oltre che di garantire straordinari poteri telepatici e assicurare un’incredibile longevità). Unici abitanti del pianeta, i giganteschi vermi del deserto, lunghi centinaia di metri e preposti a difendere la spezia, e una misteriosa popolazione, i Fremen, che custodiscono un’arcana cultura e che sta aspettando un misterioso messia. Il protagonista, Paul Atreides, finisce su Arrakis per seguire il padre, il duca Leto, che ha appena ricevuto l’incarico di sostituire la nemica casata degli Harkonnen per governare il pianeta e raccogliere la spezia: apparentemente un privilegio incredibile, ma che nasconde molti tranelli. Il tradimento è nell’aria e gli Harkonnen, con il beneplacito e la complicità dell’imperatore, distruggono gli Atreides, costringendo Paul e sua madre Jessica, a rifugiarsi nel deserto presso i Fremen. Paul prende il nuovo nome di Muab’Dib, scopre il legame tra i Vermi e la Spezia, affina il suo apprendistato speciale (sua madre è una Bene Gesserit, antica scuola di apprendimento mentale e fisico) e, grazie alle proprietà della spezia, diventa il Kwisatz Haderach, l’Essere Supremo veggente in grado di travalicare lo spazio e il tempo ed essere in più luoghi contemporaneamente, e guida i Fremen alla riconquista del pianeta. Herbert non è uno scrittore d’azione, scrive pagine su pagine per descrivere ogni motivazione che porta a un determinato gesto, il contesto, l’ambiente, le convinzioni, le suggestioni e i pensieri di ogni personaggio (anche se alcune pagine, come il salvataggio dell’equipaggio della mietitrice e la fuga dal colossale verme delle sabbie, o la prova iniziale del Gom jabbar, l’ago velenoso della Reverenda Madre Bene Gesserit, sono davvero suggestive); e non si dilunga mai invece nella descrizione dettagliata degli ambienti e dei luoghi, dell’aspetto e dei vestiti dei personaggi, lasciando grande spazio all’immaginazione. Eccezionali le invenzioni della sorellanza Bene Gesserit, che si intromettono nella politica imperiale e comandano da generazioni le linee genetiche per generare il Kwisatz Haderach, e dei Mentat, i computer umani addestrati per raggiungere le più elevate altezze della logica; convincenti i cattivi, i degenerati e infidi Harkonnen, nella persona del grassissimo Barone Vladimir e di suo nipote Feyd-Rautha; toccante la figura della sorella di Paul, Alia, nata con tutti i poteri di una Reverenda Madre del Bene Gesserit e ritenuta per questo un demone da scacciare. Oltre che una fortissima presenza della cultura araba, anche nella terminologia e nei costumi, e uno spirito mistico/profetico/apocalittico davvero affascinante, il romanzo presenta molti richiami al periodo in cui fu scritto, primo tra tutti quello sulle droghe (la spezia lo è a tutti gli effetti) e il rapporto molto particolare con la natura, ma è anche molto attuale, come nel caso della guerra per il possesso e il controllo del pianeta che produce la fonte primaria dell’energia (spezia=petrolio), o dei timori per uno jihad religioso inarrestabile (uno dei maggiori scrupoli di Paul è agire in modo da evitare la realizzazione del jihad). Herbert dipinge un arazzo politico universale pazzesco ma del tutto convincente, immaginando un impero galattico retto dall’imperatore Padiscià Shaddam IV, che governa su una serie di Grandi Famiglie (di cui Atreides e Harkonnen sono tra le più potenti) grazie all’appoggio della potentissima Gilda Spaziale, che fa il bello e il cattivo tempo per continuare a mettere le mani sulla spezia (non è un caso che l’inizio del monopolio della Gilda sia preso come punto di partenza del calendario imperiale). Inoltre, dietro a queste profondissime motivazioni economiche, Herbert tratteggia con maestria un incredibile scontro socio/antropologico (che è anch’esso alla base del conflitto) sulla logica del potere e del comando, su propaganda, convinzione e coercizione: mentre gli Harkonnen fondano il loro potere sul terrore e la depravazione, l’imperatore ha un suo pianeta-prigione personale dove fa addestrare i fanatici e spietati soldati Sardaukar, abituati sin dall’infanzia alla crudeltà come fede mistica e unica arma universale; gli Atreides, invece, nella persona del duca Leto, credono nella lealtà e nella responsabilità come unico metodo per ottenere la fiducia e la fedeltà; le stesse Bene Gesserit possiedono un braccio speciale, la Missionaria Protectiva, incaricato di contagiare di superstizioni i mondi primitivi, aprendo così quelle regioni allo sfruttamento da parte della stessa sorellanza. Alla fine del volume, una corposa serie di appendici contribuisce ancor più a fare luce su questa incredibile (e imperdibile) creazione letteraria.

lunedì 9 febbraio 2009

Hugo Pratt - Corto Maltese. Corte Sconta detta Arcana

Hong Kong, 1919, la Guerra in Europa è finita ma continua in Asia. Corto Maltese ritrova l’amico/collega Rasputin e insieme vengono contattati dalla società segreta delle Lanterne Rosse (capitanata dalla misteriosa Shangai Lil), composta di sole donne, affinché le aiutino a recuperare il tesoro degli zar, scampato alla rivoluzione bolscevica ed ora in viaggio sul treno dell’ammiraglio Kolčac nelle desolate lande al confine tra Mongolia e Siberia. Qui combattono ancora gli ultimi rimasugli di coloro che combattono nella speranza di dare vita a una controrivoluzione che ripristini la situazione precedente alla Rivoluzione di Ottobre: la duchessa Marina Seminova, che si accompagna alle truppe bianche ancora favorevoli allo zar; il pazzoide cosacco Semënov (amante dei cannoni e dei treni), che guida i “signori della guerra” indipendentisti mongoli; il barone Von Ungern-Sternberg, che è convinto di aver ricevuto dal destino la missione di unificare l’Asia e si crede la reincarnazione di Gengis Khan. Intanto, il generale cinese Kuang fa seguire il nostro eroe per arrivare anch’esso all’oro. In questa versione romanzata scritta dallo stesso Hugo Pratt sulla base di una delle sue storie più belle e famose e completata da un suo stretto collaboratore, Marco Steiner (la morte ha colto l’autore quando la prima stesura era stata pressoché ultimata), la storia segue esattamente quella della versione a fumetti (dialoghi compresi), con qualche cambiamento dovuto proprio all’utilizzo della forma del romanzo: niente inizio a Venezia nella casa di Bocca Dorata, ma subito Hong Kong, e l’incontro di Corto (insieme al barone Von Ungern) con il Dio Vivente di Zhain, nello zdong, il monastero-fortezza, dove viene narrata anche la storia del Re del Mondo di Agharttha (e di sua figlia, accostata, con elementi sincretici, alla Vergine Maria). Grande spazio, inoltre, viene dato ai riferimenti storici e alle personalità di Semënov e Von Ungern, alla loro crudeltà ma anche ai loro sogni. Naturalmente, ci sono pro e contro: se da un lato il romanzo permette di esplorare molti più aspetti da diverse angolature, dall’altro la vicenda perde un po’ della sua oniricità (nel fumetto, i binari seguono ancor più una rotta improbabile ed esistenziale). Il titolo allude alla corte segreta di Venezia «dove i veneziani perseguitati dall’autorità costituita si rifugiano», con una «porta magica sul fondo, attraverso la quale se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie». È proprio questa corte, Corte Sconta detta Arcana, che Corto dice di preferire all’opportunità di fare carriera nel folle progetto del barone Von Ungern-Sternberg («Ho rifiutato tante cose quando ero pieno di desideri insoddisfatti… Ognuno deve inseguire i propri sogni, non credete?»), segno di una vocazione a un’eterna ricerca, di cui l’avventura è solo una conseguenza (da ragazzo si è inciso da solo il solco della linea della fortuna con un rasoio, non trovandola tracciata sulla sua mano sinistra). Un eroe romantico e irresistibile, che affronta la vita con saggezza e disincanto («Io sono cieco, sordo e muto come le famose tre scimmiette»), convinto dell’immutabilità della storia e dell’irrazionalità dei comportamenti umani.

Ken Follett - Il terzo gemello

È bene premettere che non ho mai sopportato Ken Follet e che, sebbene abbia provato per ben due volte a leggere il suo acclamatissimo “I Pilastri della Terra”, l’ho abbandonato per disperazione. Ora il mio giudizio sull’autore non è cambiato (scrive malissimo, è superficiale e ha una propensione alla volgarità così sciatta da dare fastidio), ma almeno questo libro ha un suo perché. La vicenda è ambientata a Baltimora, dove una ricercatrice giovane e ambiziosa, Jeannie Ferrami, è incaricata di condurre uno studio sui gemelli per conto di una università: riesce a scoprire ed a rintracciare i gemelli omozigoti attraverso ad un software di sua creazione, reperendo i dati, con l’interrogazione di archivi delle compagnie di assicurazioni sanitarie, e cerca quindi di capire se due gemelli separati alla nascita e sistemati in ambienti differenti possano presentare delle somiglianze nel carattere, nei gusti e nel comportamento. Intanto, un giovane teppista appicca un incendio negli spogliatoi degli impianti sportivi del campus costringendo tutti i ragazzi e le ragazze ad uscire dagli edifici ed andare nel prato seminudi, quindi violenta una ragazza di nome Lisa che rimane intrappolata in uno sgabuzzino. Del reato viene accusato il giovane e brillante Steve, uno dei gemelli che Jeannie sta studiando: logicamente, egli è uguale al ritratto dallo stupratore e ha il suo stesso DNA. Quello che sembra strano è che il suo gemello, quello cattivo e disadattato, è in carcere (quindi, ce ne deve essere senza dubbio un altro). La vicenda ruota  attorno ad altri sinistri personaggi: il professor Berrington, capo di Jeannie, che cerca di metterle sempre di più i bastoni tra le ruote sino al punto di farla licenziare, e il senatore corrotto Jim Proust, che spera di diventare candidato per la presidenza degli Stati Uniti. I due, con l’ausilio di un terzo socio (a sua volta amante della moglie del senatore Proust), stanno cercando di vendere la società della Genetico e assicurarsi 200 milioni di dollari, con i quali finanziare la prossima campagna presidenziale, e di occultarne un misterioso segreto: la multinazionale, infatti, è riuscita, negli anni Settanta, a ricreare la clonazione in vitro con vent’anni di anticipo, con lo scopo di riuscire a creare soldati perfetti, pronti da sferrare contro l’Unione Sovietica. Ben otto donne sono state utilizzate, a loro insaputa, per eseguire i test di clonazione. Jeannie e Steve, ormai sull’orlo del baratro (una è senza lavoro con la necessità di mantenere la madre inferma, l’altro in libertà vigilata in attesa del processo per violenza di primo grado), riescono a far luce sull’intera vicenda (Jeannie ha perfino un contatto all’FBI!). Certo, non si esce dai consueti canoni del thriller (e naturalmente tra Jeannie e Steve sboccia l’amore), però alcune intuizioni sono felici e gli interrogativi etici efficaci: Jeannie investiga sull’origine genetica del crimine perché suo padre è un criminale (e le ruba pure in casa dopo che lei lo ha accolto) e vuole dimostrare (e i fatti le danno ragione) che, a parità di codice genetico, è l’ambiente a plasmare gli individui; inoltre, viene toccato sia il problema della clonazione sia quello della fecondazione eterologa. Qualche reale fastidio suscita il maschilismo di politici e lobby universitarie, il cinismo dei giornalisti e la violenza dei metodi della polizia. Purtroppo, il finale scorre troppo in fretta e in maniera estremamente raccogliticcia, come se l’autore avesse già detto tutto prima. Infelice il titolo, che fa capire molte cose in largo anticipo.

giovedì 5 febbraio 2009

Emilio Salgari - Le tigri di Mompracem

Pur concedendogli il merito di aver perseguito (e imposto) il genere del romanzo di avventura, negletto e disdegnato nel panorama della letteratura italiana, e venendo a rappresentare per due generazioni di lettori la quintessenza dell’avventura e dell’immaginifico, ammetto di aver sempre avuto dei problemi con Salgari. Non ne contesto (figuriamoci!) la scrittura agile e scorrevole, quanto l’eccessiva linearità delle trame, la faciloneria del suo ottimismo, l’assenza di spessore dei suoi eroi che si schierano dalla parte dei più deboli. I personaggi ci sono: quello più amato e famoso, Sandokan, la Tigre della Malesia, si presenta come un pirata dal fascino carismatico, un giustiziere e non un assassino, in quanto vendicatore della sua famiglia e strenuo difensore del suo popolo contro la violenta colonizzazione inglese rappresentata dalla Compagnia delle Indie. Riuscita è anche la descrizione dei suoi uomini, le Tigri di Mompracem appunto, «uomini coraggiosi fino alla pazzia che a un qualunque segno di Sandokan non esiterebbero a saccheggiare il sepolcro di Maometto», e la caratterizzazione del personaggio di Yanez de Gomera, fumatore incallito e fido braccio destro di Sandokan, un avventuriero portoghese che ha abbracciato la causa indiana, ribaldo ma fedele e coraggioso, chiamato la “tigre bianca” (i due si apostrofano con il termine di “fratellino”). Suggestiva la descrizione dell’isola di Mompracem, sua roccaforte, «un labirinto di trincee sfondate, di terrapieni cadenti, di stecconati divelti, di gabbioni sventrati» su cui si abbatte un uragano la notte del 20 dicembre 1849 in cui si apre la vicenda, quando Yanez porta notizie di lady Marianna Guillonk, nipote di un lord inglese e conosciuta come “la Perla di Labuan” per la sua pelle bianca come l’alabastro. Pur di conoscerla, Sandokan è disposto ad affrontare qualunque pericolo: si scontra con un incrociatore britannico e, durante l’arrembaggio, viene colpito alle spalle a causa del tradimento di uno dei suoi “tigrotti” e si tuffa in mare. Sopravvive alle acque e, se pur a fatica, riesce a raggiungere le coste di Labuan, isola controllata dalla guarnigione inglese. Non riconosciuto, Sandokan viene ospitato in casa dallo stesso lord Guillonk e si presenta sotto le mentite spoglie di un principe del Borneo vittima di un attacco pirata. Conosce di persona lady Marianna e ne rimane stregato. L’amore sboccia vicendevole (poteva essere il contrario?) e sopravvive anche quando lui le si rivela come la terribile Tigre della Malesia; scoperto dai nemici, è costretto a fuggire e a tornare dai suoi a Mompracem, per poi venire a sapere che Marianna è stata accusata di averlo protetto e aiutato a fuggire, e che per questo è stata promessa sposa dallo zio al baronetto Rosenthal (credo che l’autore intendesse “sir”, ma all’epoca purtroppo c’era la mania di tradurre qualsiasi parola straniera…). A questo punto, il nostro eroe tenta un attacco a Labuan, portandosi fin sotto le finestre della stanza dell’amata, quindi non si arrende a un primo fallimento e riesce a liberarla e a portarla con sé a Mompracem, dove scopre che l’isola è stata bombardata e quasi distrutta dall’artiglieria nemica. Dal momento che la vendetta è d’obbligo, Sandokan annuncia la sua decisione di combattere un’ultima battaglia prima di lasciare per sempre Mompracem, in compagnia di Marianna, che diventerà sua moglie, ma i pirati lo pregano di rimanere e incorano Marianna regina di Mompracem. Gli inglesi si rifanno sotto e cannoneggiano l’isola, la flotta malese viene quasi distrutta e lo stesso Sandokan è fatto prigioniero (dopo aver però ammazzato l’odioso baronetto Rosenthal): viene condannato all’impiccagione, ma escogita lo stratagemma di fingersi morto grazie a una pozione che fa sembrare morti per sei ore, e riesce a far ottenere da Marianna la sua sepoltura in mare. Con Yanez e i pochi uomini rimasti, la tigre combatte l’ultima battaglia lanciandosi all’assalto del brigantino di lord Guillonk. Un colpo di cannone colpisce la bandiera della pirateria, e Sandokan vede in questo avvenimento il presagio della fine dei pirati della Malesia; ma con il cannone di poppa colpisce l’albero di trinchetto del brigantino, obbligandolo a fermarsi. Libera Marianna e invita Yanez a puntare verso Giava, annunciando che la Tigre è morta per sempre. Qualcuno potrebbe obiettare che l’amore ha imborghesito Sandokan, ma le sue avventure continuano nei romanzi successivi. Come detto, non contesto lo stile di Salgari o la sua fantasia (ne aveva a palate, soprattutto considerando che non si mosse mai di casa!), ma l’eccessiva linearità della trama, l’esagerata melensità sentimentale, il fatto di considerare l’ambientazione esotica e avventurosa già bastante di per sé stessa (la caccia alla tigre, la lotta tra l’orango e la pantera nella giungla). Un tempo forse bastava, io forse cerco qualcosa di più corposo.

mercoledì 4 febbraio 2009

Hugo Pratt - Corto Maltese. Concerto in o’ minore per arpa e nitroglicerina

Una storia breve, che inizia con un carro armato inglese per le vie di Dublino e uno scontro con un manipolo dell’IRA nei giorni immediatamente successivi alla sanguinosa rivoluzione irlandese del 1916. Tra pub, nebbie, arpe inneggianti al Sinn Fein e croci celtiche, Corto Maltese visita la tomba dell’amico Pat Finnucan, appena ucciso dagli inglesi. Nel suo romanticismo apparentemente cinico (alla domanda «cosa cerchi in Irlanda?», risponde «il tesoro del leprecano»), Corto è fedele alla memoria di quest’eroe, ma conosce il fratello di questi, Sean, e il maggiore O’Sullivan, irlandese al soldo degli inglesi; e, soprattutto, Banshee O’Danann (Banshee è il nome delle streghe di malaugurio nel folklore irlandese), innamorata di O’Sullivan e per vendetta sposa a Pat Finnucan. Corto si rende conto di quanto gli eventi siano spesso il contrario di quello che sembrano, e che l’eroe era un traditore e il traditore un eroe. Un’avventura insolita, evocativa e dolente, in una terra particolarmente cara a Pratt, che comincia nel sangue e finisce tra le lacrime e la solitudine, dove ogni barlume di eroismo svanisce nelle meschine trame umane.

Carlos Ruiz Zafón - Il principe della nebbia

Come sempre accade, il successo porta alla riscoperta di un autore e quindi anche Zafón non fa eccezioni in questo senso. Ed è una fortuna. Questo suo esordio letterario, nuovamente ripubblicato, è un romanzo breve a metà strada tra il racconto gotico e il racconto di mare, che rivela tutto il suo talento e la sua capacità di raccontare storie emozionanti sempre in bilico tra la realtà e la fantasia, tra il naturale e il soprannaturale. Il protagonista è ancora un ragazzino, Max Carver, figlio di un orologiaio che nel pieno della Seconda Guerra Mondiale decide di trasferirsi con tutta la famiglia in un paesino in riva al mare (non si sa da dove). Il minuscolo villaggio che accoglie la famiglia Carver si presenta subito come irreale e onirico, tanto basti sapere che l’orologio della stazione va all’indietro, quasi stesse misurando un conto alla rovescia, mentre un gatto dallo sguardo inquietante e indagatore li accoglie costringendoli (grazie alle insistenze della sorellina minore di Max, Irina) ad adottarlo. E poi una casa sulla spiaggia che reca una storia oscura e triste: tanti anni prima il dottor Fleischmann, un medico inglese, la fece costruire e vi andò a vivere con la moglie nella tristezza e nella reclusione, fino alla nascita di Jacob, il figlio che tanto avevano desiderato e sembrava non riuscissero ad avere. Purtroppo, un brutto giorno, proprio all’ottavo compleanno del figlio, Jacob perse la vita, annegando nel mare: fu la fine della famiglia Fleischmann, che abbandonò la villa per scomparire nel nulla (si scopre che il dottore è morto un anno più tardi in seguito al morso di un cane). Vicino alla villa, Max scopre uno strano giardino popolato di statue terrificanti, rappresentanti personaggi di un circo d’orrore, che sembrano vivere di vita propria, con al centro un pagliaccio dal sorriso demoniaco. Con l’aiuto del nuovo amico Roland, nipote dell’anziano guardiano del faro, e della sorella maggiore Alicia (mentre la piccola Irina viene fatta cadere dalle scale dal mefistofelico gatto), fa luce su una torbida storia che affonda le proprie radici nel passato e che vede protagonista il demoniaco Dottor Cain, detto il Principe della Nebbia, personaggio a metà strada tra un mago da baraccone e Lucifero in persona (capace di trasformarsi in un serpente marino), fino a un finale pirotecnico su un battello durante una tempesta marina. Molti elementi sembrano quelli del Gioco dell’Angelo (il patto demoniaco che comporta conseguenze luttuose, il tentatore diabolico che non sbatte mai le palpebre proprio come l’editore Corelli), ma Zafón azzecca soprattutto i due elementi simboleggiati dai regali dati all’inizio a Max dal padre: un libro di Copernico e un orologio con scritto “La macchina del tempo di Max”. saranno proprio questi due elementi le chiavi di questa storia, almeno in chiave metaforica, e sarà su questi che giocherà il perfido Cain per cercare di vincere la sua battaglia («Il tempo, caro Max, non esiste; è un’illusione. Anche il tuo amico Copernico lo avrebbe indovinato se avesse avuto, appunto, più tempo»). In più, uno sguardo adulto sull’infanzia e sui problemi tra fratelli davvero non banale.

martedì 3 febbraio 2009

Hugo Pratt - Corto Maltese. Suite caribeana

Davvero fantastica questa raccolta di storie di ambientazione centroamericana del maestro Pratt. Ne Il segreto di Tristan Bantam, lo scenario è quello della Guyana olandese, dove Corto Maltese incontra il professor Steiner, un tempo rinomato studioso attualmente interessato maggiormente all’alcol, e dove arriva un adolescente inglese, Tristan Bantam appunto, sulle tracce di una misteriosa sorellastra di nome Morgana e con un lascito di documenti paterni nei quali, decifrando enigmatici simboli, verrebbe indicata la strada per giungere ai resti del continente scomparso di Mū. La situazione precipita e si snoda fra imbarcazioni in fiamme, magie vudù, omicidi ed avvocati corrotti. Morgana, che in questa storia non compare e conosciamo invece nel successivo Appuntamento a Bahia, è discepola di Bocca Dorata (centenaria ma apparentemente giovane) ed esperta in riti vudù ed arti magiche: Corto fa sì che i fratelli si incontrino e manda in fumo le trame del loro losco  amministratore. Poi, in Samba con Tiro Fisso, esibisce i suoi ideali combattendo al fianco degli oppressi cangaceiros del guerrigliero Tiro Fisso contro le forze militari governative. È un Corto Maltese romantico e canaglia, dai modi risoluti e dalla risposta facile («Io sono più cattivo di te», «Certo che sono un bugiardo, soprattutto con te», «Non voglio essere un eroe… mi basta essere un mozzateste»), disilluso ma pieno di mistero e di fascino («non sono abbastanza serio per dare consigli e lo sono troppo poco per riceverne»). Diverso è invece il personaggio nell’ultimo e ben più corposo episodio, , scritto a diciotto anni di distanza e destinato a essere l’ultimo atto della saga. Qui è protagonista la ricerca verso il continente perduto, intrapresa da Corto insieme agli amici Tristan (ormai cresciuto), Rasputin, Bocca Dorata, Levi Colombia, Jeremiah Stenier e Soledad. Lo ritroviamo subito diverso, con il corpo nell’acqua, immerso in un sogno, in una visione, che ha per protagonisti i pesci e due immagini inca che, in fondo al mare, dissertano di Atlantide citando i Dialoghi platonici e chiamano il nostro eroe con il nome di “Solone”. Gli stessi eventi sembrano sfuggire alla logica nel corso di quest’ultima avventura: Corto si ritrova a fronteggiare tribù di uomini scorpioni, uomini ragno e amazzoni, oltre alla sua ombra e visioni allucinogene, incontra San Brendano (monaco irlandese del sesto secolo) che gli racconta il suo viaggio fino al paradiso terrestre, e finisce per arrivare nell’Isola di Pasqua, i cui strani monoliti, ultimo retaggio del continente perduto di Mū, fissano il cielo guardando le stelle. Un’avventura totalmente esoterica, con tracce di sincretismo (il simbolo dei Templari ritrovato su un tempio maya, il dio maya Kukulkan che diventa serpente piumato azteco Quetzalcoatl e l’eroe celtico Cuchulain), che vuole affacciarsi sui misteri dell’esistenza attraverso la realtà del sogno (cosa realizzata perfettamente attraverso il disegno), in un percorso iniziatico che affrontato con la saggezza («Arroganti ateniesi pieni di domande, non hanno ancora capito che le migliori risposte si danno quando non ci sono domande?») e la capacità di stare al gioco (emblematica la scena in cui il nostro eroe sta affondando nelle sabbie mobili e Rasputin non trova niente di meglio che ridere a crepapelle e citare il detto «bevi adagio», azionando così un congegno mentre si siede). Indimenticabile il personaggio di Dandy Roll, amante del rhum, dell’erba e di Boccherini.