martedì 31 marzo 2009

Lisa Lutz - La famiglia Spellman

Può il confine tra ciò che è personale e cio che è professionale azzerarsi del tutto e tramutare le dinamiche familiari in una guerra tra guardie e ladri? Lisa Lutz sembra dirci di sì, con questo suo brillante romanzo su una famiglia composta da persone che, come dei supereroi, non sanno più cos’è la normalità. La protagonista della vicenda (narrata in prima persona) è Isabel “Izzy” Spellman, una trentenne che ha alle proprie spalle un passato fatto di sfortunate relazioni affettive, smodate bevute e atti vandalici (per non parlare della sua spiccata preferenza per entrare nelle case altrui dalla finestre e non dalla porta). Ora sembra aver messo la testa a posto, e non solo continua a vivere con i suoi genitori (padre ex poliziotto e madre impicciona professionista) ma addirittura lavora per loro nella loro agenzia privata di investigazioni, la Spellman Investigations di San Francisco, specializzata in pedinamenti e ricerche sul passato delle persone. Il mestiere ha fatto sì che tutti in famiglia siano affetti da una specie di deformazione professionale, visto che in pratica tutti si spiano e pedinano reciprocamente (in casa Spellman c’è addirittura una stanza per gli interrogatori nel seminterrato). L’unico membro della famiglia che sembra essersi sottratto al mestiere investigativo è il fratello maggiore David, un inappuntabile avvocato, mentre la sorella quattordicenne Rae, in piena crisi adolescenziale, ha imparato ogni ricatto e bassezza, cerca di corrompere sempre tutti per avere ragione e pedina le persone come passatempo (esponendosi ovviamente a guai di vario tipo). Per non parlare dello zio Ray, uno che si è preso il cancro dopo una vita all’insegna del salutismo e che, dopo essere guarito, ha deciso di distruggersi passando di vizio in vizio (dalle donne all’alcol, passando per il gioco d’azzardo), tanto da sparire periodicamente per giorni e riapparire dopo estenuanti ricerche in alberghetti di terza categoria. L’intreccio della storia è molto accattivante, soprattutto perché la povera Izzy, con i suoi amori falliti (l’ultimo è un dentista) e il perenne monitoraggio di una madre che cerca di farla sposare a un avvocato e che per questo scava nel sordido dei suoi partner (o li insulta direttamente), è spinta a mentire ai suoi nuovi uomini, per cercare di apparire come una persona normale, e non riesce a fare a meno di sottoporli a una serie di controlli che sembrerebbero esagerati persino a un agente della CIA. Il conflitto aperto tra Rae e lo zio Ray (la pestifera bambina arriva a ricattarlo dopo avergli sottratto la sua camicia fortunata) e lo scontro tra Izzy e i genitori (che giungono a metterle una cimice in camera e pagano la sorella per pedinarla e addirittura filmarla) spingono pericolosamente l’equilibrio domestico sull’orlo del baratro, tanto da indurre Izzy a voler abbandonare l’agenzia investigativa e farsi una nuova vita; ma per uscirne, deve prima risolvere l’ultima indagine che le assegna la madre, scoprire la verità sulla sparizione di un ragazzo dodici anni prima, indagine che misteriosamente incontra più problemi del previsto. L’intreccio è decisamente ben congegnato (tutta la vicenda si svolge come un racconto che Izzy fa alla polizia dopo la sparizione della sorella, che sembra essere stata rapita) e fonde in maniera brillante disavventure sentimentali e paranoie assortite, con un ritmo frenetico e autenticamente divertente. In maniera tanto improvvisa quanto inaspettata, il finale prende la piega di un romanzo giallo, ma non guasta l’atmosfera generale, anche perché è funzionale alla ricomposizione del quadro familiare (così come l’esilarante passione della protagonista per la serie televisiva spionistica degli anni Sessanta Get Smart).

venerdì 27 marzo 2009

Howard Phillip Lovecraft - Il richiamo di Cthulhu

Questo racconto, che verte intorno al risveglio di una misteriosa divinità alinea a forma di polipo prigioniera da eoni nella città sottomarina di R’lyeh (una città dalle geometrie anomale e non euclidee), è forse il racconto più famoso di Lovecraft, o almeno quello che ha dato il nome all’intero ciclo (il ciclo di Cthulhu, appunto), e realizza in pieno la sua poetica dell’Ignoto: in un mondo che ha perduto la cognizione dell’Aldilà, ciò che fa paura sono gli abissi infiniti del tempo e dello spazio, nei quali sono in agguato entità talmente aliene (i cosiddetti Grandi Antichi, preesistenti all’avvento dell’uomo) da indurre la follia con la sola cognizione della loro esistenza. Lo stesso nome del suo terribile personaggio, Cthulhu, fu ideato da Lovecraft come tentativo di rendere un suono assolutamente inumano, come sorta di protesta contro l’assurda abitudine degli scrittori del fantastico e di fantascienza di attribuire a esseri non umani una nomenclatura del tutto umana). Narrato in prima persona sotto forma di diari e di documenti, come è tipico di Lovecraft, il racconto si divide in tre parti. Nella prima, il narratore rinviene tra le proprietà del suo defunto prozio degli appunti ed una antichissima e blasfema statuetta raffigurante una creatura che somiglia al tempo stesso ad una piovra, a un drago e ad un essere umano, in grado di generare visioni di follia nella mente di artisti e poeti. Nella seconda parte, si racconta di una retata della polizia nelle paludi del Missouri per arrestare gli adoratori di un inquietante culto voodoo che prevede cruenti riti sacrificali (simili a quelli di una tribù di eschimesi!). Nella terza ed ultima parte, il narratore rinviene una specie di diario di bordo di un marinaio norvegese, che insieme con l’equipaggio della sua nave è sbarcato su un’isola affiorata dal nulla, R’lyeh, e ha assistito al  risveglio del grande Cthulhu. La minaccia viene scongiurata, ma non per merito degli uomini, anzi, proprio dagli stessi sommovimenti naturali (il terremoto e l’inabissamento di R’lyeh) che l’avevano portata alla luce. Nessun lieto fine (il protagonista chiude con la consapevolezza di essere condannato perché sa troppo sul Culto), una generale sfiducia nella scienza (nonostante il protagonista si definisca un “materialista assoluto”) e una critica a suo modo sociale (è sintomatico che, secondo le rivelazioni di un vecchio adoratore, gli Antichi intendano fare piazza pulita delle leggi e della morale e ridurre la Terra «un olocausto di estasi e libertà»): una grande lezione, a patto che si riesca a portare a termine la lettura, cosa non del tutto scontata considerato lo stile criptico e scientifico di Lovecraft. Soprattutto al giorno d’oggi.

martedì 24 marzo 2009

Claude Izner - Il delitto di Montmartre

Perennemente uguali a se stesse e con una coerenza oserei dire invidiabile, le sorelle Korb e Lefèvre proseguono nella loro pubblicazione delle avventure del libraio (ma si dovrebbe dire bouquiniste) detective Victor Legris nella Parigi di fine Ottocento. In questo terzo episodio, in una gelida mattina invernale del 1891, al carrefour des écrasés (l’incrocio degli schiacciati, il cui nome deriva dai continui incidenti dovuti al passaggio di centinaia di veicoli ogni giorno) viene ritrovato il cadavere di una ragazza vestita interamente di rosso e dal viso orribilmente sfigurato: una delle sue due scarpette rosse viene consegnata nella libreria di Victor Legris per via di un biglietto trovato al loro interno. Kenji Mori, socio giapponese di Legris, preso dal panico, esce di corsa dal negozio per prendere una carrozza e sincerarsi delle condizioni della figliastra Iris, proprietaria delle scarpe rosse in questione. Come il titolo lascia facilmente dedurre, la zona presa questa volta in esame è Montmartre, cosa che fornisce la ghiotta occasione per ambientare parte della storia al Moulin Rouge (una vecchia conoscenza di Victor collaboratrice di un giornale è finita lì a fare la ballerina di cancan!) e all’ospedale della Salpêtrière. Lo stile del romanzo è sempre il medesimo, così come lo sono, ahimè, i difetti: un ritmo blando e strascicato, la solita ricostruzione storica d’ambiente accuratissima ma debordante, che si dilunga per pagine e pagine nella descrizione delle strade e degli edifici di Parigi, con tutto un contorno fatto di notizie di cronaca, opere letterarie, canzoni e personaggi famosi (tra cui si deve segnalare la presenza del dottor Jean-Marie Charcot, fondatore della neurologia che influenzò Freud) in grado di stordire i lettori più sprovveduti ma di far piombare nella desolazione tutti gli altri. Anzi, sembra proprio che le due autrici siano ormai interessate principalmente a calcare la mano sul versante della ricostruzione piuttosto che su quello della trama gialla (l’intera vicenda ruota intorno a una vendetta legata a un vecchio furto di diamanti), invero molto fiacca e dall’esito abbastanza risibile. Anche gli spunti interessanti (e già sterili negli altri capitoli) come la passione di Victor per la fotografia (è ora alla ricerca di un tema da ritrarre che gli permetta di utilizzare la fotografia come vero mezzo artistico) naufragano nel politicamente corretto con la decisione di buttarsi nel sociale e denunciare gli abusi del lavoro minorile. Esorbitante è anche la parte dedicata alla vita familiare e trattata con toni da commedia (Victor è perennemente geloso della sua amante Taša, ambita da parecchi intellettuali). L’unica novità è rappresentata dal ruolo maggiore che riveste l’aiutante di libreria Joseph, promosso al rango di coprotagonista e, alla fine, di novello autore di feuilleton di successo (anche se i siparietti con la sua apprensiva madre cominciano a risultare indigesti). Curiosamente, scopriamo che nella seconda metà del XIX secolo la società americana Macintosh aveva già lanciato sul mercato i preservativi in caucciù.

Andrew Davidson - Gargoyle

Un libro strano questo Gargoyle che mi ha lasciato perplesso, ambizioso nel mescolare generi e narrazioni diverse e per nulla banale per le tematiche affrontate, macchiato però da alcuni difetti che ne rendono davvero pesante e ostica la lettura. Narrato tutto in prima persona, si apre con la descrizione dell’incidente automobilistico che costringe il protagonista (il cui nome non ci è mai dato sapere) a essere un ustionato per tutta la vita. Veniamo a sapere i dettagli di una vita per nulla esaltante (suo padre non ha mai saputo chi fosse, sua madre è morta alla sua nascita, è stato allevato dalla nonna fino alla morte di questa, quindi si è ritrovato a vivere con degli zii tossicodipendenti che non si sono mai interessati a lui, poi si è ritrovato in un istituto), culminata in una sfavillante carriera come attore e regista porno (cocainomane e bastardo). Ora che non può più in alcun modo fare affidamento sul suo corpo, il nostro eroe attende in solitudine, senza nessun amico, il giorno in cui sarà abbastanza forte da alzarsi dal letto e uccidersi. Questo fino all’entrata in scena della protagonista femminile, certa Marianne Engels, che si pone al capezzale del nostro come se la loro fosse una conoscenza di vecchia data, addirittura di secoli. Si tratta di una scultrice di gargoyle di pietra che usa lo stesso metodo di Michelangelo (“liberando” cioè la forma che c’è dentro il blocco di pietra), che è già stata una paziente del reparto psichiatrico dello stesso ospedale, probabilmente affetta da schizofrenia: torna anche nei giorni successivi e, oltre a leggergli l’Inferno di Dante, gli racconta ciò che lei dice essere stata la loro prima storia d’amore, avvenuta nella Germania del XIII secolo, quando lei era una suora amanuense e lui un mercenario gravemente ferito di cui si era presa cura e che aveva aiutato a guarire. La narrazione procede in maniera sconnessa, alternando la prima persona di lui nel presente e la prima persona di lei nel passato, oltre ad altre storie d’amore del passato a esito tragico (un fabbro che si uccide dopo la morte per peste della sua amata; una donna che aspetta sulla scogliera il ritorno dell’amato scomparso in mare da molto tempo; una giapponese che, pur di non sposare un signorotto e tradire così il suo vero amore e suo padre, decide di prendere il voto del silenzio e accetta di farsi seppellire viva pur di non infrangerlo; un guerriero vichingo innamorato di un amico che, nonostante finisca massacrato di botte da quest’ultimo, gli salva il figlio da un incendio). Nel presente, lui esce dall’ospedale e va a vivere a casa di lei (una specie di castello pieno di opere plastiche), nel passato i due cercano di farsi una nuova vita fino al momento in cui devono scappare per fuggire dai soldati che sono sulle tracce di lui in quanto disertore (e la storia non può che avere un esito tragico). Nel finale, si assiste a una sorta di nuova sovrapposizione delle esperienze di morte apparente dei due protagonisti: lui, vittima di una crisi di morfina, è preda di un trip mentale nel quale incontra i personaggi delle storie ascoltate per poi attraversare l’Inferno di Dante; lei, nel XIII secolo, incontra i santi che hanno abitato il suo monastero di Engelthal che le promettono di vivere tante vite grazie a molti cuori, fino all’ultimo da offrire al suo amore. E così tutti i fili della narrazione vengono riannodati, a patto di stare al gioco. Lo stile non è particolarmente raffinato («Non riesco a credere in Dio più di quanto riesca a credere che una scimmia invisibile viva nel mio sedere») e i punti evitabili sono molti (e qui mi domando perché un editor non abbia pensato a ridurli), a partire da lunghe descrizioni sulle cure e sui trapianti di pelle o da amene banalità come la trovata della “serpetroia” che vive nella colonna vertebrale del protagonista, ma il libro ha comunque delle buone carte da giocare, come il senso salvifico della narrazione e dell’arte, o le ragioni di una vita apparentemente senza senso nobilitata dall’amore. Ma da qui a farne un caso letterario ce ne corre. Una curiosità: alla fine di ogni capitolo c’è una lettera in gotico che va a formare la frase in tedesco “Forte come la morte è  l’amore”.

giovedì 5 marzo 2009

Leander Deeny - Gli incubi di Hazel

La piccola Hazel, vispa bambina di otto anni, deve trascorrere tre settimane di vacanze estive (i genitori sono infatti partiti per una vacanza in Egitto) nel fatiscente e orrendo maniero della mefistofelica e isterica zia Eugenia, una che passa il tempo a disprezzarla e a redarguirla, oltre che a maltrattare e tiranneggiare i domestici. Dopo la prima inquietante giornata in compagnia della zia e dell’antipatico (e saputello) cuginetto Isambard, la vita comincia a cambiare, perché Isambard le presenta la sua collezione di cuccioli terrificanti: un cane con la testa di legno, un gruppo di papere che fumano sigarette nello stagno, due maiali gemelli siamesi (con una gamba in comune). Esplorando il giardino, Hazel entra in contatto con altri bizzarri mostri che si fa amici: il pitospino (un pitone con la testa di porcospino), il gorillopardo (un gorilla con la testa di ghepardo) e lo struzzorana (una rana con il corpo di struzzo), tutti parlanti e dotati di un nome proprio (Noel, Geoff e Francis). Sono incubi notturni, che sta cercando da tempo di terrorizzare la zia Eugenia durante la notte organizzando scenari spaventosi, ma la loro incapacità creativa non li sta favorendo. Hazel si offre entusiasticamente di collaborare nell’escogitare sogni sempre più paurosi, che finiscono col comprendere un’apparizione dello scomparso marito della zia Eugenia, ex cacciatore, giocatore d’azzardo e bevitore incallito, caduto anni prima nella gabbia dei leoni dello zoo in circostanze misteriose. Un racconto nero gotico e grottesco, solo in apparenza destinato a un pubblico infantile: si tratta infatti di un apologo morale (ancora più convincente se si pensa che si tratta di un’opera prima!) sulla cattiveria umana che nelle ultime venti pagine raggiunge vette davvero nerissime e che, per tono e garbo, ricorda alcune cose di Tim Burton (i mostri pasticcioni e i cattivi dispettosi). L’autore getta uno sguardo per nulla incoraggiante sui propri simili e si preoccupa in prima persona di chiarire nell’epilogo che la sua «è una storia di cattivi» e che gli animali del bosco non sono i soli mostri della vicenda (i cui protagonisti sono una tirannica donna che ha ucciso il marito, un bambino che cerca di uccidere la madre, e una bambina che tortura la zia con fantasie e crudeltà); è abile nel tracciare le conseguenze delle cattive intenzioni e nell’affrontare temi come la complicità, la responsabilità e il senso di colpa, oltre che nello stabilire un parallelo tra lucidità e follia (alla domanda di Hazel sul metodo utilizzato per sapere chi merita o no di morire per le proprie azioni, il perfido Isambard risponde «La decisione dovrebbe essere presa soltanto da gente in gamba come me, che non sbaglia mai»). Straordinaria la veste grafica, con una copertina quasi trapuntata e con pagine dal bordo nero, e corredata dalle riuscite illustrazioni di David Roberts.




Recensione pubblicata sul numero di luglio 2009 della rivista “Pianuraoggi”