sabato 9 maggio 2009

Arturo Pérez-Reverte - Il sole di Breda

Fiandre, 1625: Diego Alatriste si ritrova a combattere, insieme al suo protetto Iñigo Balboa, nel lungo ed estenuante assedio alla città di Breda. I personaggi della saga (qui giunta al terzo capitolo), sono assenti (o restano distanti, e presenti solo in via epistolare), e tutto ruota attorno a commoventi soldatacci di un’epoca perduta, «spagnoli odiati, crudeli, arroganti, disciplinati solo sotto il fuoco, che potevano sopportare qualsiasi cosa in uno scontro, ma non tolleravano mai manco un affronto». La descrizione della guerra offre a Pérez-Reverte l’opportunità di mettere a frutto la sua esperienza di cronista di guerra e di applicarla alla storia (come fatto nell’Ussaro e nell’Ombra dell’aquila), seguendo il capitano sul campo di battaglia o in pericolose ed eroiche sortite nelle gallerie sotto le trincee o nei pressi di una diga. Tra fango, pioggia, fame e pidocchi (e senza il becco di un quattrino a causa di sei mesi di ritardo della paga), il giovane Iñigo (voce narrante) scoprirà il senso della guerra, della fratellanza d’armi, della vittoria e della sconfitta, insomma si renderà conto di come la guerra è un rito d’iniziazione e un’esperienza di formazione (emblematico l’episodio del giovane fiammingo ferito che chiede di morire in fretta e viene esaudito dagli spagnoli in nome di una muta compassione). L’autore insiste sempre sul tramonto dell’impero spagnolo (anche se il “sole” del titolo indica che la gloria c’è ancora, almeno dal punto di vista miliare e dell’orgoglio) e ricorda la grandezza d’animo di un popolo capace di ammutinarsi solo dopo aver vinto in battaglia (e mai prima) e di correre in aiuto di un gruppetto di connazionali preda del nemico giurando «che quella sera avrebbero cenato con Cristo in paradiso o ad Anversa». Assolutamente non ecumenico (in particolare nei confronti dell’«eretico Calvino, possa colpirlo un fulmine all’inferno o dove diavolo si è cacciato, quel gran figlio di puttana») e parecchio monarchico («Il tuo re rimane sempre il tuo re» dice semplicemente Alatriste a Iñigo che vorrebbe unirsi ai camerati ribelli), Pérez-Reverte sembra alludere alla guerra come dimensione a sé stante, in cui i ruoli sociali non esistono, e a una nobiltà dello spirito che accomuna tutti i soldati spagnoli, anche i più beceri e bifolchi, facendo di loro dei veri e propri hidalgos. Lo stile è, come al solito, assolutamente unico nel suo genere, denso, grondante erudizione (si sprecano le citazioni di Quevedo, Tirso de Molina e Calderón de la Barca), ma allo stesso quasi un contraltare della coscienza dolente dei protagonisti, senza mai per questo diventare puro esercizio di stile: cosa questa che lo rende degno di ammirazione se non di invidia. Assolutamente geniale la fantomatica “nota dell’editore” sulla presenza del capitano Alatriste nel dipinto La resa di Breda di Diego Velásquez, una dotta disquisizione inventata di sana pianta (ma assolutamente verosimile) dallo stesso Pérez-Reverte, non nuovo a questi espedienti e capace di giocare con i suoi stessi personaggi, citando dei fantomatici documenti in possesso di tal Macarena Bruner de Lebrija, duchessa del Nuevo Extremo, tra i personaggi principali del romanzo La pelle del tamburo.

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