domenica 22 novembre 2009

Arturo Pérez-Reverte - L’oro del re

1626: dopo aver partecipato all’assedio e alla resa di Breda, l’impavido Diego Alatriste torna in patria insieme al suo giovane protetto Iñigo Balboa, sbarcando nella variopinta e caotica Siviglia (che Pérez-Reverte ha già scelto come scenario de La pelle del tamburo). Ben presto li attende una lettera del poeta di Corte Francisco de Quevedo (buon amico del Capitano) che intende affidare ad Alatriste un incarico delicato, assistere il contabile Olmedilla, un ometto calvo e pallido dalla faccia di topo, in una faccenda tutt’altro che agevole: impadronirsi di un galeone proveniente dalle Americhe, ufficialmente carico di merci destinate ai mercati di Siviglia e Cadice ma in realtà gravato da un carico clandestino d’oro di circa duecentomila scudi. Il proprietario della nave, il duca di Medina Sidonia, sta in pratica cercando di sottrarre una simile fortuna all’erario, finanziando, tra le altre cose, alcune province ribelli alla corona. Un potente personaggio (il duca di Olivares? Il re in persona?) trama nell’ombra per far fallire l’impresa, dirottando il nuovo tesoro nelle casse reali. Alatriste riceve perciò generosi finanziamenti, carta bianca per agire a sua discrezione, assieme a promesse di ulteriori ricompense (con velate minacce in caso di fallimento). La prima cosa da fare è reclutare un gruppo di mercenari abili, se non proprio fidati (c’è sempre qualche fidato pronto a uccidere per qualche scudo, figuriamoci per un simile tesoro). Sfuggiti all’ennesima trappola tesa da Angélica de Alquézar (con imboscata dello spadaccino siciliano Gualtiero Malatesta), Alatriste e Iñigo trovano i loro bravi nel famigerato Corral de los Naranjos, all’ombra della Cattedrale, crogiolo di furfanti e ruffiani, prostitute ed ex galeotti sfuggiti alla giustizia, e intraprendono l’assalto alla nave fiamminga Niklaasbergen, scoprendo che è una trappola e che a bordo dell’imbarcazione si trova lo stesso Gualtiero Malatesta. Il quarto romanzo della saga di Alatriste mantiene le sue caratteristiche di romanzo d’appendice storico e picaresco, ad alto tasso di intrigo politico, con uno stile straripante e denso, senza dimenticare la propensione alla massima memorabile, alla citazione colta, alla riflessione e alla poesia. La parte più bella è senza ombra di dubbio la singolare e affascinante veglia funebre (nella quale si disquisisce di tutto, soprattutto di filosofia, come se si trattasse della scena della morte di Socrate) organizzata nelle prigioni della città per salutare l’imminente esecuzione del criminale Nicasio Ganzùa, a cui partecipano personaggi da corte dei miracoli che offrono a Pérez-Reverte il pretesto di riversare tutto il suo amore per ciò che è letterario (come nel caso di tale Saramago il Portoghese, dedito all’omicidio e al risparmio per potersi permettere la pubblicazione di un interminabile poema epico a cui lavora da una ventina d’anni e dove racconta come la pensisola iberica si stacchi dall’Europa e vada alla deriva galleggiando come una zattera nell’oceano, con a bordo un equipaggio di ciechi). Ma anche la seguente scena dell’esecuzione è incredibile, capace com’è di raccontare un mondo perduto in cui i criminali sono capaci di salutare il presunto luogo dove sono posti i reali prima di andarsene con indifferenza, lisciandosi i mustacchi. La componente educativa è sempre ben presente (Iñigo impara quanto «è facile battersi quando si hanno a fianco i compagni, o quando si è sotto gli occhi della donna amata, che ti infonde forza e coraggio», e quanto invece «difficile  è combattere da soli nel buio, senza altri testimoni che il proprio onore e la propria coscienza. Senza ricompensa né speranza») e, sempre di più, il tormentato Alatriste diviene lo specchio della Spagna decadente del Siglo de Oro, avendo ancora una volta modo di verificare sulla propria pelle e sulle propria coscienza la miseria della vita («perché solo gli stupidi, i fanatici e le canaglie vivono senza fantasmi, o senza rimorsi») e il costo della fedeltà ideale a un sovrano che scarsamente la merita (come si vede molto bene dall’epilogo, dove Alatriste incontra faccia e faccia il sovrano e rivela con il portamento una visione del mondo).

sabato 21 novembre 2009

Giorgio Scerbanenco - I milanesi ammazzano al sabato

Per la prima volta ho letto un libro di Scerbanenco, cantore di una Milano nerissima, violenta e spietata, per quello che è il quarto dei romanzi del suo personaggio più celebre, il medico-investigatore Duca Lamberti. La storia stessa è deprimente (nel senso che fa piangere dalla tristezza): Amanzio Berzaghi, ex camionista impiegato alla Gondrand, è un vecchio milanese attaccato al suo lavoro ma soprattutto alla sua bambina, Donatella, di eccezionale bellezza ma affetta da elefantiasi (è alta un metro e novantacinque e pesa novantacinque chili). La ragazza ha 28 anni e il cervello di una di 9, gioca con le bambole e soffre di un certo trasporto verso gli uomini (è una specie di ninfomane). Il Berzaghi ne è letteralmente ossessionato ed esce continuamente dal lavoro per controllarla, con metodicità. Un giorno, nonostante la chiusura a doppia mandata, Donatella scompare, rapita da tre balordi diversamente assortiti che la avviano alla prostituzione offrendola a clienti disposti a spendere grosse cifre per soddisfare i propri gusti particolari. Il duro Lamberti, affiancato dal  fedele Mascaranti e dalla giovane compagna Livia, si getta in questa indagine tra case d’appuntamento, magnaccia, atrocità e squallore, che rivela tutto il marcio della “capitale morale d’Italia”: è sulla pista giusta, ma arriva troppo tardi per fare giustizia, quando il vecchio Berzaghi ha già compiuto la sua vendetta (e spiega che i milanesi ammazzano al sabato perché negli altri giorni devono lavorare!). Un noir teso e cupo (incredibile la violentissima scena della vendetta del vecchio nell’appartamento, con annegamento nella vista incluso), dalla lingua essenziale ma dallo stile personalissimo (la psicologia dei personaggi traspare dai dialoghi, scarni ed essenziali ma assolutamente privi di retorica o ideologia), capace di raccontare l’indifferenza, la disillusione e il cinismo di un ambiente che spesso sembra addirittura lunare per il grado di aridità umana che lo contraddistingue. Lo stesso ideatore del rapimento, il gestore del bar dove il vecchio lavoratore si reca tutti i giorni per bere un grappino e condividere con qualcuno le proprie sventure (che nessuno vuole ascoltare), sembra suggerire che non c’è spazio né per il dialogo né per i sentimenti. Tutto questo fa di Scerbanenco uno dei più eccezionali scrittori italiani (ma in realtà era di Kiev) nei quali mi sono imbattuto.

Giovanni Ballarini, Paolo Petroni - Il falso in tavola

Lungi da me il voler dissertare su questioni culinarie, argomento per me ignoto e di ben scarso interesse, ma la lettura (imposta) di questo libro ha cominciato a instillare in me un minimo di curiosità. Chiuque dia una rapida occhiata ai menu che affollano i locali italiani negli Stati Uniti si può infatti accorgere con facilità della continua presenza e sistematica riproposizione di una serie di falsi gastronomici tanto celebri quanto bizzarri, come il tristemente celebre “pollo Scarpariello” e gli “spaghetti with meatballs”, che di italiano non hanno nulla se non un nome stereotipato (e di sicuro richiamo per i turisti boccaloni), parte di una mitologia alimentare che fa sorridere. Neppure i piatti tradizionali della cucina regionale italiana si salvano, oggetto di ogni tipo di falsificazione tesa a snaturarne gli ingredienti e i metodi di preparazione (oltre alle schifezze passate per italiane preparate dagli inglesi che affollano i ripiani dei supermercati, bisogna annoverare i vari e strampalati tipi di parmigiano e pecorino, oltre a pizze dai nomi più improbabili). Oggi le sofisticazioni si sono estese lungo tutta la filiera produttiva, dal campo alla tavola, e i prodotti di qualità (rigorosamente registrati a livello europeo) vengono sostituiti con alimenti generici e di qualità inferiore (la cosiddetta agropirateria), tanto da portare a un giro d’affari pari alla metà di quello dei prodotti “reali”. Ecco dunque che occorre smascherare il falso gastronomico in tutte le sue forme e preservare il patrimonio enogastronomico italiano, come fa questo volume realizzato dall’Accademia italiana della cucina in collaborazione con il Comando carabinieri per la tutela della salute – Nucleo anti sofisticazioni. Non nego che ciò rappresenti un nobile proposito, ragion per cui le istituzioni sono impegnate in una dura battaglia per salvare un settore importante della nostra economia che rischia di perdere credibilità (ed è bene precisare che le suddette istituzioni si prodigano nel cercare di convincere tutti, critici gastronomici compresi, dalla nobilità della loro crociata), e devo ammettere che la parte più riuscita dell’opera è l’excursus storico che spiega, attraverso casi divertenti (ma in realtà agghiaccianti, vista la quantità di materiali tossici e cancerogeni utilizzati), come l’adulterazione e la frode nel commercio abbiano contraddistinto l’Europa sin dal Medioevo. Di sicuro interesse (e divertimento) anche il capitolo sui falsi gastronomici più comuni, dalla muffa del salame creata artificiosamente con polvere di riso alla trota “salmonata” che in realtà non esiste (in quanto le trote sono tutte “salmonidi”) ed è tale solo per effetto di un’alimentazione a base di crostacei. Altre dissertazioni, tipicamente istituzionali e condotte con taglio insopportabilmente accademico (è abbastanza ridicolo affermare che il primo caso di falso alimentare coincida con la mela che il diavolo ha offerto ad Adamo ed Eva nell’Eden), risultano davvero micidiali e del tutto fuori luogo, annoiando profani come me.

venerdì 6 novembre 2009

Ellery Queen - Uno studio in nero

Sherlock Holmes che incontra Jack lo Squartatore? Niente di più facile, visti il fascino esercitato dai due personaggi e l’impossibilità di fare luce su uno dei casi più inspiegabili della storia del crimine. Sull’argomento sono stati prodotti due film (“Notti di terrore” con Johyn Neville e il convincente “Assassinio su commissione” con Christopher Plummer, che stranamente anticipa di oltre vent’anni il bellissimo “From Hell” con Johnny Depp, curiosamente basato sulla stessa trama), e recentemente un bel videgioco (chiamato semplicemente “Sherlock Holmes contro Jack lo Squartatore”). Il citato “Notti di terrore” non è altro che la trasposizione cinematografica di questo romanzo che vede uniti due miti della letteratura poliziesca (anche se è bene precisare che nel film questo particolare è stato del tutto eliminato): Sherlock Holmes ed Ellery Queen. La vicenda prende il via quando quest’ultimo, celebre scrittore-detective (protagonista di una fortunata serie di romanzi gialli firmati con lo stesso pseudonimo dai cugini Frederic Dannay e Manfred Bennington Lee), riceve un anonimo pacchetto contenente un manoscritto autentico redatto dallo stesso dottor Watson, che narra le peripezie del celebre detective di Baker Street nel tentativo di acciuffare Jack lo Squartatore. Ellery è assillato da un contratto editoriale che lo obbliga a consegnare il suo nuovo romanzo il più in fretta possibile, ma la curiosità è più forte degli impegni lavorativi e, facendo i salti mortali, riesce a dedicare un po’ di tempo al manoscritto (un originale inedito di Watson, chi non lo farebbe?), fino a giungere alla conclusione dell’indagine iniziata dal suo illustre predecessore e a smascherare una volta per tutte il criminale più famoso della storia. Il romanzo da un lato è degno di ammirazione perché gioca con il lettore al punto da considerare Sherlock Holmes e il dottor Watson personaggi del tutto reali e non solo come semplici creature letterarie, dall’altro si colloca nel novero degli apocrifi holmesiani, recuperando tutte quelle invenzioni che hanno fatto grande la saga di Arthur Conan Doyle: lo stesso titolo è una citazione del celebre “Uno studio in rosso” e c’è veramente tutto, dagli irregolari di Baker Street al Diogene’s Club del fratello di Sherlock Holmes, Mycroft (però si tace della dipendenza dalle droghe e si abusa della tanto celebre quanto fasulla frase “Elementare Watson”, mai pronunciata nell’opera letteraria di Conan Doyle!), per non parlare del tipico esempio di deduzione a partire da un oggetto (in questo caso l’astuccio di strumenti chirurgici) chiaramente desunta dal celebre passo dell’analisi del  cappello nell’inimitabile caso del “Carbonchio azzurro”. È interessante una sorta di parallelismo tra la storia di Holmes che riceve l’astuccio di strumenti chirurgici da una misteriosa donna e Ellery che invece riceve il manoscritto da un’altrettanto misteriosa figura femminile, ma al di là di questo la trama è fiacca e l’ambientazione (decisiva per un simile soggetto) non convince affatto. Per di più, l’intera vicenda di Jack lo Squartatore è totalmente agiografica e sconnessa da collegamenti reali o verosimili, risultando pretestuosa. Forse ha ragione Ed Glinert quando, nella sua guida letteraria della città di Londra, definisce questo libro come semplicemente “ridicolo”.