domenica 20 dicembre 2009

Arthur Conan Doyle - Uno studio in rosso

Un nuovo film sull’argomento è in uscita e da appassionato cultore affezionato quale mi reputo di essere (ho visitato per ben due volte il museo nello storico appartamento di Baker Street in quel di Londra) ho seri dubbi che uno Sherlock Holmes stile James Bond sia una buona medicina per ridare lustro a una delle creature più fulgide dell’intera storia letteraria. Bisognerebbe andare a recuperare questo primo romanzo delle sue avventure per capire che, al di là di qualche sporadico caso e, soprattutto, dell’immortale serie (l’unica autenticamente rigorosa e scrupolosa) interpretata dal grandissimo Jeremy Brett, le attualizzazioni per il cinema ipervitaminizzato (per non dire ipertrofico) di oggi sono del tutto fuorvianti. La struttura è quella che verrà replicata per i successivi Il segno di quattro e La valle della paura, ovvero una prima sezione che racconta del delitto (apparentemente incomprensibile e senza movente) e delle indagini di Sherlock Holmes, e una seconda parte dedicata completamente al lungo racconto della vicenda che ha portato all’omicidio: uno schema che offre all’autore la possibilità di inventarsi una storia nella storia e di tenere alta la tensione fino alla fine. In questo caso, protagonista del racconto è un sopravvissuto al deserto che è stato salvato insieme a una bambina (da lui adottata come figlia) da una carovana di mormoni diretti nello Utah: integratosi e diventato prospero, l’uomo si rifiuta di cedere la figlia ai mormoni poligami e per questo si attira la terribile ira punitiva dei Santi degli Ultimi Giorni, equiparati da Conan Doyle a dei pazzi assassini che non hanno niente da invidiare all’Inquisizione spagnola. Il romanzo non ha la grandezza del Segno dei quattro (a giudizio di chi scrive, il miglior Sherlock Holmes di sempre) o il fascino del Mastino dei Baskerville, ma è senz’altro meglio della Valle della paura e il personaggio di Sherlock Holmes c’è già tutto: un individuo stravagante, eccentrico, misogino, lunatico, dotato di un immenso bagaglio di conoscenze disparate (chimica, anatomia e letteratura criminale), dedito a un incessante lavoro cerebrale, capace di scrivere un trattato scientifico sul tabacco e di destare l’impressione che assuma qualche droga (anche se per il momento non si dice di più). Poco generoso con i professionisti del mestiere suoi predecessori (il Lecoq di Gaborieau e il Dupin di Edgar Allan Poe sono definiti, rispettivamente, “un cialtrone” e “un mediocre”), Holmes elabora una vera e propria teoria scientifica dell’investigazione basata sulla deduzione (osservazione, raccolta, classificazione e interpretazione dei dati): d’altronde, era l’era vittoriana e la filosofia positivista permeava la società (anzi, la stessa figura dell’investigatore ne è stata un prodotto, come dimostra l’accellente Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale). Narratore delle imprese del mitico detective, ovviamente, il fido dottor Watson, coinquilino per caso al celeberrimo 221B di Baker Street e memorabile protagonista della scena in cui Holmes, grazie a una semplice deduzione, gli spiega di aver capito che ha prestato servizio nell’esercito durante la guerra afghana: è proprio grazie a Watson che Conan Doyle riesce a portare noi spettatori al centro della storia e a raccontare l’altrimenti indecifrabile metodo holmesiano.

domenica 13 dicembre 2009

Alberto Ongaro - La maschera di Antenore

A due anni da “La versione spagnola”, Alberto Ongaro torna con un nuovo romanzo che, sebbene non si possa mettere al livello di capolavori quali “La partita” e “Il segreto dei Ségonzac”, raccoglie buona parte delle esperienze raccolte nei reportage condotti nella sua vita di giornalista e scrittore e ribadisce la sua vocazione a una letteratura colta e avventurosa, venata di esoterismo ma assolutamente distante dalle mode imperanti sul mercato. Questa volta l’alter ego dello scrittore (perché di questo si tratta) è Stefano Pietra, un giovane pittore veneziano che non è ancora riuscito ad affermare il proprio talento e, tra Venezia e Parigi, si barcamena in attesa della classica grande occasione. A offrirgliela è l’amica Hélène de Surgérès (con cui ha condiviso una travagliata storia d’amore, prima di lasciarlo senza motivo apparente, come rapita da un rivale silenzioso), la quale lo presenta a Emmanuel Cordier, noto mercante d’arte, che sembra mol­to interessato alla possibilità di allestire una mostra e, a sua volta, presenta all’arti­sta veneziano un misterioso critico d’arte,  Francois Ronan. L’uomo, che per l’aspetto ricorda a Stefano un ufficiale nazista, si rivela un enigma indecifrabile: gli chiede di effettuare delle ricerche sulla possibilità che i britanni chiamati “Veneti” da Cesare siano gli stessi abitanti del Veneto deportati in Britannia dopo un’invasione, e di informarsi sulle condizioni di salute di un certo professor Costa. Inoltre, gli  mostra il pezzo più prezioso della sua collezione privata: un’antica maschera funebre di origine micenea, da lui attribuita all’eroe troiano Antenore. La ricerca di Stefano serve solo a scoprire che il professor Costa è vittima di un’oscura maledizione che lo sta portando alla tomba, legata all’indole egoista e vendicativa del critico d’arte (un tipetto che ha preso sotto con la macchina, uccidendolo, il suo stesso padre al posto del maggiordomo reo di avergli mancato di rispetto, e quindi ha ironicamente chiamato “papà” il proprio cane). Non solo: la misteriosa malattia di Costa sembra legata all’antico santuario bretone di Notre-Dame de l’Haine, Nostra Signora dell’Odio, dove le persone nell’antichità pregavano per la morte dei loro nemici. Lo stesso Stefano sembra travolto dall’istinto di prevaricazione di Ronan, trovandosi colpito da una serie di disgrazie a catena (perde la mostra di Cordier, viene buttato fuori di casa, suo fratello viene fracassato di legnate al suo posto). A questo punto ecco la vendetta: Stefano si rivolge allo zio ladro per fargli svaligiare la casa e fargli sedurre la moglie, ma finisce per scoprire le ragioni altrui e le colpe proprie (e che le ragioni dell’odio e della vendetta covano spesso nel mondo dell’arte e dell’accademia). I colpevoli sembrano innocenti e gli innocenti colpevoli: una conclusione che può deludere gli amanti del giallo tradizionale, ma non poteva essere altrimenti: l’Antenore del titolo, contraddittorio personaggio della mitologia greca, compare ora come saggio troiano ora come traditore a vantaggio degli Achei (tanto che, nella sua Commedia, Dante chiama Antenora il girone dell’inferno dedicato ai rinnegati), specchio di una realtà tutt’altro che scontata. Degli altri romanzi dell’autore, questo condivide il soggetto di un antagonista tanto misterioso quanto affascinante, dal quale il protagonista si sente attratto in maniera insolubile e misteriosa al punto da legare ad esso il proprio destino. Anche in questo caso c’è l’ossessione per i vaticini (la profezia di un vecchio indovino con pappagallo in un locale di Parigi e lo zio ladro al quale è stato annunciato che vivrà un ultimo grande amore prima della vecchiaia) e la propensione per i personaggi fittizi e immaginari (Stefano Pietra ha lo pseudonimo di Serge Passani col quale firma le illustrazioni dell’Eneide di Virgilio e giunge a dialogare).

Recensione pubblicata sul numero di marzo 2010 della rivista “Pianuraoggi”