lunedì 15 febbraio 2010

J.R.R. Tolkien - Lo hobbit o la Riconquista del tesoro

Una premessa: questo romanzo accompagna la mia vita sin dalla mia infanzia, mi ha fatto scoprire Tolkien e il genere fantasy ed è passato attraverso innumerevoli letture, al punto da poter dichiarare di conoscerlo praticamente a memoria. Lo hobbit è a tutti gli effetti il prequel del Signore degli Anelli, anche se è bene chiarire che è stato scritto prima e che, all’epoca della sua pubblicazione, fu pubblicizzato come un libro per bambini; di conseguenza, gli manca la dimensione seria e tragica del Signore degli Anelli, così come non ci sono momenti paragonabili ai capitoli di Moria o Cirith Ungol. In realtà è una favola deliziosa assai lontana dalla complessità della famosa trilogia, ma caratterizzata da elementi che la rendono, probabilmente l’opera tecnicamente meglio scritta tra quelle di Tolkien (o almeno quella più coerente e uniforme, dallo stesso registro dall’inizio alla fine). Meriterebbe di passare alla storia anche solo per l’invenzione degli hobbit, esseri che oggi tutti conoscono grazie al successo dei film di Peter Jackson ma che sono in tutto e per tutto una creazione della mente di Tolkien. Proprio uno di loro, Bilbo Baggins, un hobbit benestante e rispettabile (cioè uno che non ha mai avuto avventure o fatto qualcosa di imprevedibile), viene scaraventato in una pazzesca avventura insieme a tredici nani (guidati da Thorin Scudodiquercia) e il mago Gandalf: questa male assortita compagnia deve nientemeno che recuperare l’immenso tesoro appartenuto al re dei nani raccolto per anni nelle caverne della Montagna Solitaria e che ora è stato preso in possesso dal drago Smaug. Memorabile l’arrivo a valanga dei nani nella caverna hobbit di uno stupefatto Bilbo, che deve arginare la foga dei convitati dispensando torte e pandispagna, ma anche i piani dei nani davanti alla mappa del tesoro incisa in rune lunari e i loro canti che evocano suggestioni di terre lontane, capaci di far sognare Bilbo e risvegliare nel suo cuore una nascosta scintilla di poesia e spirito d’avventura. Bilbo abbandona dunque la natia Contea unendosi alla compagnia (su indicazione di Gandalf) con il titolo di “scassinatore”: ovviamente, il luogo dove risiedono tesoro e drago è ben lontano e arrivarci non è una passeggiata. Hanno inizio una serie di prove, a cominciare dall’incontro con tre litigiosissimi troll (i mitici Berto, Maso e Guglielmo) che li catturano, per proseguire con una tempesta sulle Montagne Nebbiose e uno scontro con gli orchi nelle caverne. Nella fuga che segue, Bilbo cade tramortito e resta solo: al risveglio, trova un anello d’oro e, senza quasi pensarci, lo mette in tasca. Tutti sanno di cosa si tratta: il famoso anello dell’invisibilità, che darà origine a una lunga saga. In questo caso poco importa, la sua funzione è solo quella di aiutare l’eroe a sopravvivere a una vicenda molto più grande di lui. Il ritrovamento si accompagna ovviamente all’incontro con il vecchio possessore dell’anello, il viscido Gollum, che vive nei pressi di un lago sotterraneo e si ciba di pesci, orchi e tutto ciò che gli passa a tiro: Bilbo, già visto dall’essere come una inaspettata prelibatezza, gli propone una gara di indovinelli e, dopo essere riuscito a vincerla in maniera rocambolesca, riesce a fuggire e a trovare l’uscita dall’altra parte della catena montuosa, dove si ricongiunge al resto della compagnia. Le avventure continuano con l’assalto dei lupi mannari e il salvataggio delle aquile, l’incontro con l’uomo-orso Beorn, l’attraversamento di Bosco Atro (dove Gandalf lascia il gruppo al suo destino) e la prigionia dei ragni giganti. Bilbo riesce a liberare i compagni usando l’anello (di cui è a questo punto costretto a rivelare l’esistenza) ma li vede nuovamente catturare dagli elfi dei boschi e li deve nuovamente far fuggire, questa volta nascosti in botti che, trasportate dalle acque di un fiume sotterraneo, arrivano a Pontelagolungo, la città degli uomini che sorge ai piedi della Montagna Solitaria e della Desolazione di Smaug. Qui Thorin si annuncia come Re sotto la Montagna, venuto a strappare al drago il suo tesoro e a recuperare il regno, e il popolo accoglie i nani in maniera trionfale in base ad antiche leggende che annunciano l’avvento di una nuova età dell’oro: la realtà si dimostra ben diversa, e tocca ancora a Bilbo intrufolarsi nel fianco della Montagna fino alla tana del drago. Ha con Smaug (avido, cinico ma vanitoso come tutti i draghi) una meravigliosa conversazione a base di indovinelli, nella quale riesce a scoprire l’esistenza di un fatale punto vulnerabile nella sua corazza di diamanti: per tre giorni l’irato Smaug imperversa distruggendo tutto quel che incontra sul cammino, finché Bard l’arciere, avvertito da un tordo (come Sigfrido nel mito dei Nibelunghi) del punto debole del drago, lo uccide. Convinti che i nani siano ormai tutti morti, gli uomini (accompagnati dagli elfi dei boschi) salgono subito alla Montagna in cerca del tesoro ma trovano Thorin e compagni trincerati in sua difesa, ben lontani dall’intenzione di scendere a compromessi. I problemi di spartizione conducono sull’orlo di una guerra, ma Bilbo, che di nascosto si è impadronito dell’Archipietra (il cuore della Montagna, la pietra che da sola vale per Thorin più di tutto il tesoro per il suo significato simbolico), decide di usarla come merce di scambio recandosi di persona al campo degli uomini. La situazione di stallo è però risolta dall’arrivo di un’immensa armata di orchi, riuniti per vendicare la morte del Grande Orco (ucciso nello scontro coi nani alle Montagne Nebbiose): davanti al pericolo comune le inimicizie vengono dimenticate e si arriva alla Battaglia dei Cinque Eserciti, che si conclude con la vittoria dei buoni. Thorin però muore, chiedendo perdono a Bilbo del quale riconosce l’onestà e le buone intenzioni («Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto»), il tesoro viene spartito con giustizia e Bilbo può tornare (accompagnato da Gandalf) nella sua Contea. Qui però deve superare un’ultima prova, perché creduto morto la sua casa è stata requisita dagli avidi cugini Sackville-Baggins e le sue cose vendute all’asta: solo a fatica egli riesce a recuperare quanto aveva perduto, fatta eccezione per la sua rispettabilità, in quanto ritenuto strambo e poco frequentabile per la sua propensione alle avventure. Alla fine dell’avventura, nonostante la timidezza e la buffa apparenza, lo hobbit ha dimostrato di essere una persona  saggia, piena di sorprese e di slanci eroici, tanto da risultare decisivo in molte situazioni e a sorprendere perfino se stesso. La struttura del romanzo è quella classica della Cerca (in questo caso la ricerca del tesoro), con una serie di avventure concatenate che portano alla scoperta di alcuni oggetti (il pugnale elfico, l’anello) utili per la continuazione della storia. Frequentissime sono le intromissioni del narratore, le ricapitolazioni introdotte dal «come ricorderete», le parentesi destinate a far ridere il lettore. Anzi, Tolkien non riuscirà mai a essere più divertente di così: valgano come esempi gli improperi lanciati dal nano Dori sul trasporto di Bilbo nelle fughe, l’esclamazione di Bombur «io non voglio far altro che giacere qui, dormire e sognare roba da mangiare», o il ricordo dell’episodio di Ruggitoro Tuc, pro-prozio di Bilbo, che prese parte alla carica contro le schiere degli orchi e colpì staccando di netto la testa del re nemico con una mazza di legno, risolvendo così la battaglia e inventando allo stesso tempo il gioco del golf. Peccato che quest’edizione della Adelphi in mio possesso, pur arricchita da alcune delle illustrazioni disegnate dallo stesso autore (anche se in bianco e nero), è caratterizzata da una pessima traduzione: i troll vengono chiamati “Uomini Neri” (con notevole perdita di significato), Rivendell invece di “Gran Burrone” è “Forraspaccata”, mentre il drago Smaug viene tradotto semplicemente “Smog” (forse per evitare problemi di pronuncia ai non anglofoni).

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