giovedì 13 maggio 2010

Victor Hugo - I miserabili

Mi ha accompagnato per quattro mesi e mezzo, mi ha esaltato e annoiato, commosso e indisposto. Tutto questo è stato per me l’opera più famosa di Victor Hugo, capace di scoraggiare i deboli di cuore ma in grado di dare belle soddisfazioni agli intrepidi che concedono ancora qualche possibilità ai feuilleton ottocenteschi (genere mai fino in fondo considerato e apprezzato). È bene precisare che si tratta di un romanzo colossale, nelle dimensioni e nei temi, suddiviso in cinque parti o “tomi”, a loro volta suddivisi in più libri e ancora in capitoli. Racconta la storia di Jean Valjean, un potatore di Faverolles che ha rotto una vetrina e rubato un tozzo di pane e che per questo (e ripetuti tentativi di fuga) è stata condannato a quasi vent’anni dl bagno penale: arrivato a Digne e rifiutato da tutti, trova ospitalità nella casa di monsignor Myriel, vescovo della città, definito “un giusto” (alla sua santa condotta d vita è dedicato l’intero primo libro dell’intero romanzo). L’esperienza del carcere ha radicato nell’animo del galeotto un cupo rancore contro la società e un sentimento di rivincita, tanto che egli fugge rubando l’argenteria del vescovo; arrestato dai gendarmi e condotto con la refurtiva dinanzi a Myriel, viene salvato dall’intervento del prelato che mente dicendo di aver donato lui l’argenteria a quel pover’uomo, e in più gli dona due candelabri d’argento, come segno dell’impegno di diventare un uomo migliore e finalmente onesto. Questo fatto (oltre al drammatico incontro con un piccolo savoiardo al quale ruba una moneta) agisce su Jean a livello profondo, rivelandogli l’esistenza della carità: lo troviamo anni dopo, a Montreuil-sur-Mer sotto il falso nome di Madelaine, industriale e proprietario di una vetreria grazie alla quale si è arricchito onestamente. La fabbrica offre lavoro a donne e uomini della zona, che Madeleine tratta bene e gratifica con un buono stipendio. È talmente amato dai suoi concittadini da essere nominato sindaco e da ricevere, per i suoi meriti nel campo del lavoro, la prestigiosa Legion d’onore. Tutto sembra cambiare quando a capo della polizia di Montreuil viene nominato l’ispettore Javert, che conosce Valjean dai tempi del bagno penale e da anni è sulle sue tracce per il furto al piccolo savoiardo (se fosse arrestato, l’ex galeotto rischierebbe una condanna a vita come recidivo): egli è un bizzarro e fanatico poliziotto, ferreo sostenitore dell’ordine e delle classi dominanti, ma soprattutto nemico dei miserabili e assertore della loro totale incapacità di riscatto o redenzione. Tra le operaie della fabbrica di Madelaine c’è anche una giovane donna, Fantine, madre di una bambina, Cosette, che per problemi di mantenimento economici ha abbandonato a una sordida coppia di locandieri prodittatori, i Thénardier: viene licenziata dalla fabbrica da alcuni zelanti perbenisti che non vogliono tollerare la sua maternità fuori dal matrimonio, ed è costretta a prostituirsi per guadagnare il denaro da inviare ai Thénardier. Proprio Javert la fa arrestare e per questo si scontra ferocemente con Madelaine: mentre il poliziotto denuncia il sindaco alla prefettura, quest’ultimo accorre al capezzale della povera donna e le promette di occuparsi della bambina. Deve però affrontare un problema ancora più grosso, perché viene a sapere che un vagabondo, arrestato per aver rubato in un frutteto, è stato scambiato per il ricercato Jean Valjean e rischia la prigione a vita: attraverso un monologo interiore di un’eccezionale profondità che porta un uomo ora onesto a interrogarsi se un disgraziato non si sia davvero meritato quella sorte per i suoi crimini e se non sia meglio mandare in prigione qualcun altro al proprio posto per poter continuare ad assicurare gioia e felicità alla città e alle persone bisognose che lo circondano, alla fine Madelaine non può imporre alla sua coscienza di tacere e permettere che un innocente paghi al suo posto, e si presenta ad Arras rivelando la sua identità. Più che le prove, ciò che convince i magistrati della sua colpa è l’aver chiamato Nepoleone “l’imperatore”: sono infatti gli anni più reazionari della restaurazione ed egli viene condannato e rinchiuso in carcere, dal quale però fugge nuovamente. Valjean raggiunge la locanda dei Thénardier, dove scopre che la piccola Cosette è vittima di maltrattamenti e la riscatta per millecinquecento franchi. Trasferitisi a Parigi e braccati dalla polizia, i due trovano rifugio presso un convento di monache, dove Valjean (fintosi padre della piccola) offre la propria manodopera come giardiniere. Dopo qualche anno, nel 1829, i due escono dal convento e (grazie ai sodi che Valjean ha messo in salvo da Montreuil) vanno a vivere da soli: l’uomo si fa chiamare Fauchelevent e si presenta come un possidente, Cosette è cresciuta ed diventata una bella ragazza. Di lei si innamora Marius Pontmercy, un giovane idealista figlio di ufficiale napoleonico che ha, a sua volta, abbracciato gli ideali democratici e repubblicani: questa è la ragione che lo porta a litigare con il nonno, Monsieur Gillenormand, vecchio aristocratico dalle idee ottusamente conservatrici, e da abbandonare la sua casa. Marius, che vive il ricordo del padre come una vera e propria religione, è disperatamente a caccia del benefattore del genitore, colui che gli salvò la vita sul campo di battaglia di Waterloo, lo stesso Thénardier che in realtà su quel campo di battaglia si stava aggirando per compiere i primi furti della sua grama esistenza a danno dei cadaveri. Proprio Thénardier ritrova, a Parigi, le tracce di Valjean e, con la sua degna moglie e alcuni delinquenti che si sono uniti a lui, lo fa prigioniero e lo ricatta nel suo alloggio, la topaia Gorbeau, dove vive lo stesso Marius. Il giovane pensa di aiutare il povero Fauchelevent denunciando il fatto all’ispettore Javert, che fa irruzione nel covo dei banditi: Valjean riesce comunque, ancora una volta, a scappare. L’ex galeotto, che vede Cosette come unica ragione di vita e ricompensa, odia Marius come un l’intruso (tanto che vorrebbe partire con la figlia per Londra), ma poi viene a patti con la propria coscienza e decide di cercarlo per condurlo da Cosette, che lui ha giurato di rendere felice. È il 5 giugno 1832: Marius si batte sulle barricate accanto ai repubblicani. Qui cade Gavroche, uno spiantato monello parigino, ed Éponine, che ha seguito Marius in quanto innamorata di lui: sono entrambi figli dei Thénardier, il primo abbandonato dall’infanzia, la seconda ingranaggio nei criminali piani del padre. Alla barricata, Valjean incontra Javert, sorpreso mentre spiava gli insorti e che deve essere giustiziato: finge di accettare il ruolo del carnefice e invece libera il poliziotto, il quale subisce con rancore e fastidio la generosità del vecchio nemico. Disperato di non aver fatto fino in fondo il proprio dovere e incapace di accettare l’idea che un miserabile possa essersi redento e di rispondere al male con il bene, Javert si uccide gettandosi nella Senna. Quando la barricata è travolta, Marius pare uno dei morti, ma Valjean se lo carica sulle spalle e si cala nelle fogne, nel ventre di Parigi. Una volta che Marius e Cosette si sono sposati (e Marius ha fatto pace con il nonno Gillenormand), Valjean rivela al giovane il suo passato di carcerato e il giovane, che non sa di dovergli la vita, si rivela il peggiore di tutti, miserabile tra i miserabili: lui, rivoluzionario, colui che ha combattuto per la rivoluzione e il popolo contro la tirannide, tratta un ex forzato come il peggiore dei criminali, dimostrandosi del tutto privo di umanità. Sarà Thenardier a svelare, suo malgrado, la grandezza morale di Valjean e a spingere i due giovani a riconciliarsi con lui sul letto di morte. Al di là della facili interpretazioni manichee, la grandezza di questo romanzo fatto di cadute e di risalite, di peccati e di redenzione (che si concretizzano compiutamente nel protagonista Jean Valjean), sta nell’aver delineato alcune figure indimenticabili, rese “miserabili” dalla società e quindi degne di compassione: l’intera vicenda è infatti una ricerca delle radici della criminalità, della prostituzione, del disagio minorile, mali sociali su cui la società francese deve saper riflettere e prendere provvedimenti illuminati. La società stessa non gode di particolare stima da parte di Hugo: quando Madelaine viene arrestato e si rivela essere l’ex forzato Valjean, i notabili della città sono soddisfatti di come sono andate le cose e, in nome di uno sterile perbenismo, accettano che l’economia cittadina vada in rovina senza la fabbrica di Madelaine. Nessuno sembra salvarsi nell’impietosa analisi dello scrittore, nemmeno i preti (perché, a fronte di un monsignor Myriel, c’è un personaggio come il curato di Montreuil che, credendo di fare cosa saggia, usa il denaro lasciato da Valjean per la degna sepoltura di Fantine per donarlo ai poveri, facendo seppellire la donna in una fossa comune), ma è stupefacente che in pieno Ottocento laico e tendenzialmente anticlericale, Hugo proponga l’amore per il prossimo come unica vera soluzione dei moti rivoluzionari. Suo particolare merito è l’essere riuscito ad aver dato vita a personaggi che facilmente avrebbero potuto scadere nel programmatico, a rendere umani dei “tipi” altrimenti ideologizzati e stereotipati; così come bisogna dargli atto di essere riuscito a dipingere il labirinto delle fogne di Parigi come vero e proprio “mondo alternativo”, specchio rovesciato della realtà e voragine sull’abisso. Piuttosto, secondo una logica sconsiderata, frammentaria e per certi versi indisponente, dopo un primo tomo veramente avvincente e denso (comprende all’incirca metà della trama), lo scrittore si dilunga, compie digressioni, si perde e si ritrova: è incredibile la ricostruzione della battaglia di Waterloo all’inizio del secondo tomo, meno memorabili sono invece la successiva dissertazione sui conventi con annessa polemica antimonastica e quella sui monelli vagabondi di cui era piena la Parigi del XIX secolo e che funge da introduzione all’ingresso di Gavroche. Molto spazio è dedicato alla descrizione degli eventi della rivoluzione e della Monarchia di Luglio, dove vengono sviscerate le ragioni della protesta popolare del 1832, e alla vita dei giovani insorti (Enjolras, Combeferre, Provaire, Feuilly, Courfeyrac, Bahorel, Bossuet, Joly e Grantaire): proprio nei discorsi e nelle aspirazioni di questi giovani rivoluzionari, Hugo è capace di anticipare molte delle illusioni e delle ideologie del XX secolo. Tutto questo rende l’opera una sorta di capolavoro imperfetto ma anche, forse, il romanzo della Francia del XIX secolo per antonomasia, un grande affresco corale di ampio respiro che abbraccia diverse epoche storiche e dipinge Parigi come protagonista aggiunto, una città sconnessa e irregolare, fatta di catapecchie e stradine, ben diversa da quella trionfale e spaziosa che conosciamo tutti e, per questo, teatro ideale per le gesta dei miserabili (memorabile la descrizione dei resti del monumento a forma di elefante in Piazza della Bastiglia, voluto da Napoleone ma ben presto abbandonato e qui abitato da Gavroche). Particolarmente efficace la tecnica del mettere sempre il lettore nella condizione di sapere già l’identità dei personaggi, un passo più in là dei fatti narrati, così da anticipare il senso di partecipazione alla vicenda e dilatare il coinvolgimento. A livello di scrittura e di puro piacere narrativo, però, sono sempre del parere che vinca nettamente Dumas…

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