domenica 25 settembre 2011

Giovanni De Liso - Genesis. Once Upon A Time

Alzi la mano chi, nella sua camera, non ha in camera un libro con i testi della sua band preferita. Questa tipologia di pubblicazioni costituivano, nell’era pre-internet, forse l’unico modo di possedere qualcosa di tangibile dell’operato di un gruppo, soprattutto se si aveva la sfortuna di possedere la cassetta di un disco o, ancora peggio, il cd originale dotato di un booklet scarno privo di testi. Arcana, in particolare, era una casa editrice meritoria in questo senso, realizzando dei bellissimi volumi monografici (ricordo con piacere quelli dedicati ai Metallica e, in due parti, ai Queen) con le lyrics di tutte le canzoni album per album con traduzioni a fronte, oltre ad altri interessanti esperimenti come quello sui Dire Straits con interviste e stralci di articoli apparsi su diversi giornali in varie epoche. Insomma, una garanzia per gli appassionati. Ora ho messo le mani su questo volume dedicato ai Genesis a firma di Giovanni De Leo e il risultato è addirittura formidabile: non è il classico libro con i testi di tutte le canzoni, ma una vera e propria esegesi letteraria calata all’interno del periodo storico nel quale il gruppo si trovò ad operare e, soprattutto, alla vita personale degli artisti protagonisti. È bene chiarire che il periodo preso in esame sono solo i cinque anni dell’era Peter Gabriel, cioè fino al concept album “The Lamb Lies Down On Broadway” del 1974, quindi lasciando a un eventuale secondo volume l’epoca successiva, quando Phil Collins prese le redini del gruppo e lo traghettò su lidi estremamente più commerciali e remunerativi. Certo, l’autore predilige una visione religiosa che rischia di prendersi anche troppo sul serio (soprattutto quando insiste sulle ragioni metateatrali che avrebbero portato Gabriel ad abbandonare il gruppo, deciso a uccidere il personaggio che lui aveva contribuito a creare), ma che è comunque perfettamente verosimile per un gruppo che, in piena epoca di contestazione, rifiutava i classici testi d’amore o quelli impegnati a favore di rimandi favolistici e biblici (sintomatici sono in questo senso i primi due dischi “From Genesis To Revelation” e “Trespass”), frutto di un’educazione prettamente classica e religiosa alla Charterhouse del Surrey (di cui il cantante Peter Gabriel, il tastierista Tony Banks e il bassista Mike Rutherford erano studenti). È con l'album “Nursery Cryme” che il ventaglio di soluzioni stilistiche della band si ampliò, abbracciando il mondo delle nursery rhyme (le filastrocche britanniche utilizzate che riempiono la vita di ogni bambino), le mini-rappresentazioni teatrali con più personaggi e la mitologia, sempre con un occhio di riguardo per l’ironia e i giochi di parole, trovando la definitiva quadratura del cerchio con l’ingresso in formazione del chitarrista Steve Hackett e del batterista Phil Collins e portando a compimento quel sound progressive che avrebbe reso famoso il gruppo per gli anni a venire, anche se, curiosamente, all’epoca i cinque riscossero successo soltanto in Belgio, Olanda e Italia. Proprio con l’Italia si può dire che avessero un feeling particolare: basti pensare che “Watcher Of The Skies”, lo storico brano che apre l’album “Foxtrot”, pare sia stato ispirato da una visione dall’alto di una zona di Napoli praticamente deserta. Gli stessi leggendari travestimenti di Gabriel (che cambiano di brano in brano, talvolta anche all’interno dello stesso pezzo, in quanto funzionali a supportare la descrizione lirica del brano cantato) sarebbero originati dall’incontro con gli Osanna e del loro leader Lino Vairetti, che spesso adoperava sul palco la maschera di Pulcinella: fu questa la chiave che permise ai Genesis di destare l’interesse della stampa britannica e di riscuotere successo anche in patria. De Liso è abile nel proporre la sua visione dei testi senza forzarli, senza speculazioni intricate (e magari poco credibili) o l’esclusione di letture alternative: addirittura, dimostra come i riferimenti letterari di “Selling England By The Pound” (le saghe arturiane sul Graal, C.S. Lewis e T.S Eliot) si accompagnassero a una forte denuncia sociale (lo stesso titolo è preso da uno slogan del partito laburista di quegli anni). Ottima anche la spiegazione dettagliata del concept “The Lamb Lies Down On Broadway”, a giudizio di chi scrive l’opera più sopravvalutata del gruppo ma in qualche modo capace di consegnare i Genesis alla storia, grazie a una trama in stile musical tutta fondata sulla cultura americana ma capace di rielaborare i tradizionali temi biblici di colpa e redenzione attraverso una struttura già sperimentata nella mitica suite “Supper’s Ready” su “Foxtrot”. Un libro che consiglio non solo a tutti i seguaci dei Genesis (che, con ogni probabilità, lo avranno già letto), ma anche a quanti sono convinti che attraverso la musica sia possibile creare opere di un certo spessore.

giovedì 15 settembre 2011

Joel McIver - Black Sabbath

È difficile spiegare cosa i Black Sabbath abbiano rappresentato per me e quanto mi abbiano accompagnato nel corso della mia esistenza (direi che se la giocano con gli Iron Maiden e i Queen, da questo punto di vista): “Heaven And Hell” è stato il primo disco metal da me acquistato e che ha permesso di addentrarmi all’interno di un mondo fatto di molte (a volte troppe) sfaccettature. Eppure, i Black Sabbath originali, quelli che tutti venerano e ricordano come maestri seminali dell’heavy metal, non sono quelli con Dio alla voce (che poi hanno dato vita agli Heaven & Hell, dal nome del loro disco più famoso e acclamato), bensì quelli con il mitico e folle Ozzy Osbourne, capaci di cambiare per sempre la storia del rock con una serie impressionante di dischi intramontabili (“Black Sabbath”, “Paranoid”, “Master Of Reality”, “Volume 4” e “Sabbath Bloody Sabbath”), con una formazione fissa che presentava anche il chitarrista Tony Iommi, il bassiste Geezer Butler e il batterista Bill Ward, tutti originari di Aston, sobborgo operaio di Birmingham dove le fabbriche e il pesante lavoro manuale davano da mangiare alla stragrande maggioranza degli abitanti. A raccontare la loro storia ci pensa questa biografia (la prima tradotta in italiano) di Joel McIver, giornalista metal molto quotato che, servendosi di estratti di vecchie interviste, spiega le origini e i motivi che hanno portato alla scelta del nome del gruppo, dell’intento di terrorizzare il pubblico con una musica mai ascoltata fino ad allora e del rifiuto da parte della band di fronte all’etichetta di satanisti che i soliti ben pensanti (e la scaltra casa discografica) avevano loro affibbiato. Spesso i fatti vengono presentati con ottiche differenti a seconda dei musicisti intervistati e la storia della band viene portata avanti in modo completo, soffermandosi sugli eccessi, le cadute, i litigi, i problemi manageriali, l’apoteosi degli anni Settanta, la droga e la devastazione, l’abbandono di Ozzy, la nuova fase con il compianto (e da me venerato) Ronnie James Dio di inizio anni Ottanta, gli esperimenti con altri professionisti del calibro di Ian Gillian, Glenn Hughes, e Tony Martin, quando il cocciuto leader Iommi (unico membro che vanta una permanenza costante in tutte le innumerevoli incarnazioni del gruppo) dovette combattere i tiramolla di Butler e Ward, sempre pronti a entrare e uscire dalla band a causa di motivazioni non sempre credibili (per Ward c’è l’attenuante della dipendenza cronica dall’alcol); quindi, i tentativi di modernizzazione, una prima reunion con Dio e, infine, la reunion con Ozzy e la gloria immortale della Hall of Fame (con tanto di tributo di due marpioni come Lars Ulrich e James Hetfield dei Metallica). Ci sono tantissimi aneddoti, alcuni davvero curiosi, altri a dir poco esilaranti, come le vicende sessuali del giovane Ozzy o i ricordi di un giovane Iommi, ancora studente, intento a gonfiare di botte Ozzy per mera antipatia ogni volta che lo incontrava a scuola; altri ancora al limite dell’assurdo, come quando Ozzy tenta di dare fuoco alla sorella o di impiccarsi per vedere che cosa si prova. Insomma, cose davvero imperdibili per ogni fan dei Sabbath che si rispetti, ma anche per chi ama leggere le storie e le disavventure delle rockstar (eccezionale la vicenda dell’epoca del tour di “Born Again” quando venne commissionato un set di monoliti in stile Stonehenge in metri e non in piedi, inutilizzabile sui palchi e per nulla facile da trasportare). Purtroppo, il libro (che non copre il periodo temporale degli Heaven & Hell, essendo uscito prima di questa reunion) segue due direttrici, la storia dei Sabbath e quella di Ozzy solista, finendo per dare troppo spazio alle vicende (anche private) del Madman e sulla sua folle vita extramusicale, i figli, la moglie Sharon (vera creatrice del suo mito presso le grandi folle) e gli Osbournes, infame serie di MTV che, neanche a dirlo, ha incontrato i gusti del pubblico televisivo americano all’inizio degli anni Duemila. Anche i dischi solisti di Ozzy vengono sviscerati a dovere, cosa che forse avrebbe potuto essere tralasciata in quanto tutto ciò non accade quando si tratta dei lavori a nome degli altri membri del gruppo (men che meno per il povero Dio, che sembra capitare sempre per caso) e perfino la sezione iconografica del volume dedica quasi tutto lo spazio alle foto della prima incarnazione dei Sabbath e alla loro tardiva reunion (c'è perfino quella in cui Ozzy solista addenta una colomba in conferenza stampa), concedendo le briciole al periodo Dio, Gillan e Martin, ma su questo si tratta di scelte personali ed editoriali dal momento che il fan medio sostiene senza dubbio la tesi che i Black Sabbath sono principalmente quelli con Ozzy al microfono. Quello che lascia perplessi è l’assoluta soggettività di alcune recensioni, per nulla condivisibili: della discografia degli anni Ottanta, McIver stronca inspiegabilmente un disco ottimo come “The Eternal Idol” e parla di “Heaven And Hell” come di un lavoro accademico, quasi di routine (per non parlare del trattamento riservato a capolavori come “Headless Cross” e “Tyr” con Tony Martin al microfono).

domenica 11 settembre 2011

Brendan O'Carroll - Agnes Browne mamma


Dublino, 1967: rimasta vedova con sette figli dai 2 ai 14 anni, Agnes Browne gestisce un banco di frutta e verdura al mercato del Jarro, turbolento quartiere popolare di Dublino dove si conoscono tutti. La sua vita trascorre tra le chiacchierate con l’amica Marion (un autentico genio comico: alta poco più di un metro, ha tre nei sulla faccia dai quali spuntano i peli e, quando sorride, questi tre nei si uniscono e sembra che lei abbia la barbetta), il bingo del venerdì e qualche pinta di birra o sidro al pub. Ogni giorno trasmette ai figli la convinzione che la vita è un mestiere da fare in piedi, ma allo stesso tempo si ritrova a improvvisarsi consigliera di fronte ai loro dilemmi adolescenziali o a vestire i panni dell’angelo vendicatore (clamorosa la vicenda che la vede schiaffeggiare con un cetriolo una suora rea di aver tagliato la frangetta a sua figlia e di averla punita per essere tornata a casa a cambiarsi le mutande prima di una visita medica). A corredo del tutto, ritrovandosi di nuovo single a 34 anni dopo la sfortunata parentesi del vecchio marito Rosso Brown (uno che non disdegnava di lasciare i suoi risparmi agli allibratori e rifarsi su di lei a suon di ceffoni), viene corteggiata da un bellimbusto francese dall’inglese incerto, ma deve affrontare la malattia dell’amica Marion, la cui scomparsa lascia un vuoto insostituibile nella sua vita. Credo sia possibile accusare questo romanzo di molte cose (stereotipi irlandesi assortiti, personaggi macchiettistici, faciloneria, buoni sentimenti) ma non di essere pesante: si legge d’un fiato ed è pervaso di una poesia davvero unica. La struttura è quella di un collage di piccole storie quotidiane (spesso riguardanti i figli di Agnes), profondamente ironiche ma molto umane. Ha delle concessioni alla volgarità mai fini a se stesse, bensì funzionali al racconto e all’ambientazione proletaria: sono anzi proprio la propensione alla battuta dissacrante e i sapidi dialoghi confidenziali («Mi hai lasciata con sette orfani, e nemmeno un organismo [nel senso di orgasmo] di cui vantarmi») a rendere la poeticità del tutto (perchè, come lo stesso autore ha detto, è più importante quello che Agnes Browne dice rispetto a quello che Agnes Browne fa). Una specie di ode alle donne lavoratrici che poertano avanti le famiglie con coraggio e dedizione, con l’augurio che possano sempre conservare la capacità di credere nei loro sogni (il romanzo si conclude con le parole «Continua a sognare, Agnes Browne! Per il bene di tutti, continua a sognare!»). Geniale la presenza nel finale di Cliff Richard, di cui Agnes è grandissima fan e a Dublino per una serie di concerti natalizi, quasi deus ex machina dell'intera vicenda.

domenica 4 settembre 2011

Andrzej Sapkowski - Il guardiano degli innocenti

È sempre difficile parlare delle opere letterarie usate come base per lo sviluppo di videogiochi, nella fattispecie questa dello scrittore polacco Sapkowski dalla quale è stata sviluppata la fortunata serie The Witcher (giunta al secondo capitolo). Nonostante mi sia accostato alla lettura di questo volume (tra l’altro pessimamente servito da una copertina del tutto inadatta e più indicata a un manga) pieno di scetticismo a causa di alcune recensioni piuttosto negative (per tacere di quello che lo dipingevano come indecente e senza capo né coda), devo dare atto al povero Sapkowski di aver realizzato un’opera con molti punti a suo favore, innovativa e stimolante. A partire innanzitutto dal personaggio principale, Geralt di Rivia, uno strigo con tanto di emblema (un medaglione tondo raffigurante una testa di lupo che digrigna i denti) e due spade (una d’acciaio, forgiata con materiale meteorico, e una d’argento, studiata per essere utilizzata contro creature mutate), un assassino addestrato fin da piccolo al combattimento, alla magia e all’alchimia che dedica la propria vita alla caccia e all’uccisione dei terribili mostri che infestano il mondo e al salvataggio di vittime di incantesimi e magie. La struttura dell’opera è quella della successione di racconti, inframmezzati da una cornice che si svolge nel presente e che vede il nostro eroe aggirarsi per un monastero di sacerdotesse e fronteggiare le angherie di un prepotente nobilastro: il mondo nel quale Geralt si muove, così come la spiegazione della sua personalità e della sua storia, avviene un po’ alla volta, attraverso elementi sparsi qua e là. Veniamo così coinvolti nel suo destino di emarginato dal momento che, al di là delle sue mansioni di sicario, viene considerato poco più che un reietto, un vagabondo pericoloso e sgradito, portatore di guai e spessi accompagnato da un alone di superstizione e razzismo che lo costringe a spostarsi di continuo, di reame in reame, alla continua ricerca di incarichi che gli permettano di sopravvivere. Tanto più che, nel vasto mondo, non tutti i mostri sono sgraditi (memorabile il caso del troll che presidia un ponte chiedendo un pedaggio per l’attraversamento: nessuno della cittadinanza intende mandarlo via per paura di doversi poi sobbarcare i costi dei manutenzione del ponte). Nel primo racconto, Lo strigo, Geralt si trova a spezzare l’incantesimo che ha tramutato in un mostro zannuto la figlia incestuosa del re di Wyzima. In Un briciolo di verità aiuta un uomo trasformato in una bestia dotata di poteri magici che vive in un castello che per molti versi ricalca la vicenda della Bella e la Bestia (solo che qui la Bestia è succube di una vampira). Il male minore vede il nostro eroe destreggiarsi nella mortale rivalità tra un mago e una principessa mutante, nell’impossibile tentativo di salvare un paese da una strage. In Una questione di prezzo, Geralt finisce nella reggia di una piacente regina che pensa di poter comprare i suoi servigi a sostengo della sua politica matrimoniale, finché nel castello (popolato di signorotti gretti e volgari) irrompe un misterioso cavaliere vittima di un sortilegio che lo costringe a celare il volto fino alla mezzanotte, il quale avanza pretese sulla mano della principessa per aver salvato la vita del padre molti anni prima. Ne Il confine del mondo, in compagnia dell’amico trovatore Ranuncolo, lo strigo viene ingaggiato per liberare la zona da un demone caprino (parecchio scorretto ma in fondo dal cuore d’oro) ma si imbatte in una strana fanciulla profetessa e, soprattutto, in una banda di elfi ben intenzionati a vendicare sulla pelle dello strigo i soprusi subiti dalla loro razza. L’ultimo desiderio, infine, vede Ranuncolo imbattersi in quello che, apparentemente, è un genio chiuso in una bottiglia ma che, in realtà, è un mostro che gli paralizza le corde vocali: Geralt si mette in contatto con una strega che accetta di aiutarlo ma poi dimostra ben altri scopi (impadronirsi della mente di Geralt per vendicarsi dei suoi nemici in città e entrare in controllo del genio). Uno degli aspetti più interessanti è che i racconti appaiono classici e originali al tempo stesso, anche se lo stile può sembrare più cinematografico che narrativo, con molti dialoghi e descrizioni minimali come in una sceneggiatura, sebbene molto spazio venga dedicato agli scontri e alle raffinate tecniche di combattimento dello strigo. La tensione è spesso smorzato dall’umorismo caustico del protagonista, da un diffuso cinismo e da una diffusa procacità del gentil sesso, mentre molteplici sono i riferimenti al mondo delle fiabe.