sabato 26 novembre 2011

Pierre-A.-F. Choderlos de Laclos - Le relazioni pericolose

Famosissimo romanzo epistolare che più volte ha ispirato il cinema (ricordo il bellissimo film omonimo di Stephen Frears con uno straordinario John Malkovich e Glenn Close, il deludentissimo Valmont di Milos Forman con un inadatto Colin Firth e Annette Bening, e il terrificante Cruel Intentions, che trasferiva il romanzo nel mondo dei fighetti e annoiati figli di papà), Le relazioni pericolose è l’incredibile e affascinante caso dell’unico testo letterario scritto da un militare di carriera e studioso di balistica (pare abbia inventato la granata), Laclos, che in qualche anno si sarebbe ritrovato a partecipare attivamente alle vicende rivoluzionarie e che avrebbe finito la sua vita, stroncato dalla dissenteria e dalla malaria, a Taranto, come comandante napoleonico. Insomma, un autore non letterato di professione, ma un dilettante poco più che quarantenne capace, alla fine del Settecento, di scrivere un capolavoro immortale capace di resistere agli stili e alle mode del tempo. Protagonisti della vicenda sono il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil, che tessono un intrigo per screditare un ex amante di lei che sta per sposarsi con la giovane Cécile Volanges e far giungere un po’ meno pura la ragazza alle nozze. Valmont, con una carriera di libertino assai gloriosa alle spalle e, ovviamente, la fama di persona assai poco raccomandabile, è però più interessato a sedurre la bella e virtuosa presidentessa di Tourvel, ovviamente già sposata. La Merteuil, invece, gode della massima stima presso tutti e riesce a circuire le proprie vittime, anche in virtù di questa solida reputazione: è lei a guidare a distanza le avventure di Valmont, imponendogli di rispettare il codice libertino e spingendolo a porsi come intermediario tra Cécile e il suo giovane innamorato Danceny. I due libertini pianificano e attuano la loro strategia con cinica freddezza e geometrica razionalità, attraverso il raggiro e senza la minima cura per l’altrui rovina, perseguendo l’autentico possesso (fisico e morale) delle loro vittime, e sembrano allo stesso tempo irridere e invidiare (da navigati uomini di mondo) l'innocenza e la buona fede delle loro vittime. Purtroppo, però, il malefico sodalizio (che ha portato anche a un aborto per la piccola Volanges), si interrompe e si tramuta anzi in una mortale rivalità tra la marchesa e il visconte, quando quest’ultimo commette l’unico errore che può commettere un libertino: si innamora della presidentessa e cade nell’inganno della Merteuil che lo spinge a lasciarlo per semplice rivalità femminile («quando una donna colpisce il cuore di un’altra, raramente manca nel cogliere il punto più sensibile, e la ferita è incurabile»), proprio per l’amore di una donna che rappresenta l’esatto contraltare della marchesa, nel cui animo non c’è posto per la finzione e l’inganno, e che anzi non suppone possibile nemmeno negli altri (innamorata subito del visconte, cerca di tenersene lontano con dolcezza e cautela nei suoi riguardi, in virtù della sua rigida concezione morale e decidendo di non prestare ascolto alle chiacchiere che girano sul conto del libertino). All’epoca il romanzo suscitò scandalo, anche al di là della punizione finale volta a fare giustizia dei cattivi (Valmont ucciso in duello e la Merteuil colpita dal vaiolo e costretta alla fuga dalla Francia), non tanto per la perversione delle scene (qui, a differenza dei romanzi del marchese De Sade, non si dice niente), quanto per questa capacità dei due protagonisti di apparire come dei campioni di virtù all’incontrario, tesi alla realizzazione di una distorta idea di autorealizzazione. Il genere epistolare scelto dall’autore non è fine a se stesso ma si fa strumento funzionale per la realizzazione dell’architettura della trama e la spiegazione dell’intrigo, che si dipana lentamente ma con accuratezza e meticolosità. Per cinque lunghi mesi Valmont e la marchesa non hanno alcun incontro, ma entrambi sono perfettamente informati delle reciproche mosse, di cui restano vittime, volta per volta, gli altri personaggi. Tutto gira intorno a loro, logico quindi che personaggi come Cécile e Danceny siano personaggi la cui psicologia appare più debole e meno complessa, anche se maggiormente preoccupanti in quanto già vittima della corruzione (lei diviene rapidamente amante di Valmont, lui della Merteuil). Non si deve però commettere che l’intero romanzo sia noioso: la parte in cui Valmont soccorre una famiglia di indigenti a cui stanno venendo pignorati i mobili, solo per guadagnare le grazie della presidentessa di Tourvel, e viene salutato come «immagine di Dio», è veramente spassosa.

giovedì 24 novembre 2011

Alan Moore, Dave Gibbons - Watchmen

Pur non essendo esattamente memorabile, l’omonimo film di Zack Snyder ha avuto il grande pregio di ridare lustro all’intricatissima e fluviale graphic novel di Alan Moore (testi) e Dave Gibbons (disegni), considerata una delle opere spartiacque in grado di imporre il fumetto come opera d’arte a sé stante e inserita da Time nell’elenco dei cento migliori romanzi del secolo (per quanto possano contare questo tipo di classifiche). Suddivisa in dodici capitoli (ognuno chiuso da una geniale citazione che ne riassume il senso), in bilico tra realtà e finzione, è basata sull’ucronia (modifica della storia a partire da eventi immaginari) e vede un ipotetico 1985 dove gli Stati Uniti hanno vinto in Vietnam e Nixon è ancora presidente (è stato riletto per la quinta volta), mentre la Guerra Fredda continua. Un decreto ha dichiarato illegale l’attività dei vigilanti mascherati che per un trentennio hanno lottato contro il crimine (siamo arrivati ormai alla seconda generazione), obbligandoli a rinunciare all’anonimato. Quando Edward Black alias il Comico viene ucciso (sulla scena del delitto rimane lo smiley macchiato di sangue), il suo violento ex collega e fuorilegge Rorschach, sociopatico e squilibrato nella sua fenomenale lucidità, che porta una maschera cangiante con le macchie del famoso test psicologico (divertente quando lui stesso viene sottoposto al vero test), scopre che la sua morte è il primo tassello di un enorme complotto finalizzato all’eliminazione di tutti gli eroi rimasti: Jon Osterman alias Dr. Manhattan, uno scienziato atomico diventato un superessere deumanizzato e immortale grazie al quale gli Stati Uniti hanno vinto in Vietnam; la compagna di Osterman, Laurie Juspeczyk alias Spettro di Seta; David Dreiberg alias Gufo Notturno; l’industriale Adrian Veidt alias Ozymandias, l’uomo più intelligente del mondo, fissato con Alessandro Magno e i faraoni (da lì, e da una poesia di Percy Bysshe Shelley, viene il suo nome d’arte). Mentre la situazione precipita, i russi invadono l’Afghanistan e Nixon valuta l’idea di scatenare una guerra nucleare, mentre il Dr. Manhattan si trasferisce su Marte ed è sempre più indifferente alla causa degli umani. Inutile fare considerazioni snobistiche sull’inferiorità del fumetto: i molteplici andirivieni narrativi tra passato e presente (numerosissimi sono i flashback ai quali è affidata la spiegazione della storia dei protagonisti), tra vecchi vigilantes senza scrupoli (pieni di ricordi maledetti) e la loro più timida discendenza, la molteplicità dei punti di vista, il ritmo e la complessità del dialogo necessitano di un alto livello di attenzione come molta della migliore narrativa. Piena di sottintesi politici (l’utopia della pace, la necessità di una violenza “istituzionale”) ma allo stesso tempo difficile da interpretare secondo i tradizionali schemi destra/sinistra tanto cari dalle nostre parti, e caratterizzata da una visione cupa e angosciosa del mondo, dove l’equilibrio del terrore diventa metafisico (emblematico è, in tal senso, l’orologio dell’apocalisse che segna quattro minuti a mezzanotte), l’opera decostruisce genialmente gli archetipi e la mitologia dei supereroi in costume (anzi, vestiti con ridicole tutine colorate e, in questo caso, privi di poteri, fatta eccezione per il Dr. Manhattan) e riflette sulla dicotomia alla base di ogni giustiziere mascherato dalla doppia identità, dilaniato da sindromi e complessi, talora addirittura cinico e odioso (un caso per tutti, il Comico, che è però forse l'unico a esprimere i suoi reali sentimenti e la sua vera natura). Molteplici sono i riferimenti metanarrativi: oltre alla voce off di Rorschach che ci accompagna in puro stile hard boiled school, Moore e Gibbons infilano dentro alla narrazione un altro fumetto, I racconti del Vascello Nero, letto da un giovane che sta sempre seduto al fianco di un’edicola, il cui proprietario discute degli ultimi titoli dei giornali coi propri clienti (nell’edicola ovviamente passa il mondo, con i piccoli e grandi drammi della vita quotidiana): vera e propria storia nella storia (non a caso un naufragio) che funge da commento, metafora e contraltare della vicenda principale. Alla fin fine, un capolavoro.

domenica 20 novembre 2011

Madeleine Wickham (Sophie Kinsella) - La signora dei funerali

C’è stato un periodo in cui Sophie Kinsella non era Sophie Kinsella, ma semplicemente Madeleine Wickham. Proprio La signora dei funerali è uno dei romanzi scritti dall’autrice con il suo vero nome più di dieci anni fa, prima diventare famosa in tutto il mondo con la serie di I love shopping e devo dire che, a dispetto delle numerose critiche negative, non è quella delusione che tutti dipingono. La trama ricorda molto da vicino quella del film Heartbreakers – Vizio di famiglia con Sigourney Weaver e Jennifer Love Hewitt: la protagonista in questo caso è Fleur Daxeny, bella e affascinante ma soprattutto manipolatrice e priva di scrupoli che, fornita di uno straordinario guardaroba di eleganti abiti neri, consulta i necrologi sul Times e si imbuca a funerali e commemorazioni puntando a conquistare ricchi vedovi inconsolabili. Dopo averli sedotti, e soprattutto aver messo mano alle loro carte di credito, scompare senza lasciare traccia fino all’incontro con una nuova, ignara vittima. Tutto questo con la figlia adolescente Zara al seguito, molto più matura dei suoi tredici anni e riluttante di fronte al comportamento della madre in quanto desiderosa di stabilità. Un bel giorno, però, Fleur si imbatte nel noioso Richard Favour alla commemorazione dell’amata moglie Emily, e ovviamente anche lui si lascia conquistare dalla bellezza e dal fascino della nuova conoscenza: in breve, Fleur si trasferisce nella villa di Richard nel Surrey , dove entra in contatto con la sua famiglia: la servizievole cognata Gillian, che ha sacrificato la sua vita per amore della sorella Emily, che si è dimostrata con lei ingrata e gelida; la complessata figlia Philippa, sposata con l’egoista e violento Lambert (che, pieno di debiti, spera di mettere le mani sull’eredità della moglie); l’altro figlio più piccolo, Richard, condannato ad un’insicurezza cronica da una madre quasi crudele. Dal punto di vista stilistico, il romanzo non ha il tono frizzante e ironico degli altri romanzi della Kinsella (per capirci, è privo del tradizionale trademark Kinsella), ma i personaggi sono ben delineati e l’intreccio è ben sviluppato: i colpi di scena non mancano, soprattutto nel finale, senza perdere però in pacatezza ed eleganza. Ovviamente, la trama ruota intorno alla domanda “riuscirà Fleur ad appendere gli abiti neri al chiodo e a stabilizzarsi nella nuova famiglia?”, ma c’è qualcosa in più: l’arrivo di Feur, personaggio anticonvenzionale e incurante delle regole, agisce come una scheggia impazzita nella vita della famiglia Favour, tipica esponente dell’ingessata alta società inglese, oggetto di satira nelle sue idiosincrasie (non è un caso che tutti i membri della famiglia giochino a golf e frequentino la vicina club house). Ecco quindi che frizioni e rancori sopiti vengono portati alla luce: Lambert emerge per il soggetto privo di scrupoli quale lui è; Richard comincia ad accorgersi di volersi dedicare ad altre cose e a rendersi conto che la moglie non era poi quella creatura perfetta che credeva; Gillian e Philippa sono in qualche modo elettrizzate dalla possibilità di avere a che fare con una nuova amica frizzante ed esuberante; il figlio Anthony si innamora (ricambiato) di Zara e trova una nuova compagna rispetto ai suoi pseudo amici disadattati che lo hanno ignorato fino a questo momento. Bello lo slogan trovato dalla Mondadori sulla quarta di copertina: "Una spalla su cui piangere... con un occhio al portafoglio". Credo sia uno sport diffuso, più del golf.

sabato 12 novembre 2011

Charles Dickens - Grandi speranze

Riprendendo la massima di Nick Hornby (contenuta in Una vita da lettore) secondo cui «Noi in Inghilterra leggiamo i romanzi vittoriani proprio perché sono lunghi e non abbiamo nient’altro da fare», mi sono dedicato all’autore vittoriano migliore che ci sia, una vera e propria garanzia di classe, profondità e divertimento che dovrebbe costituire il modello per molti scribacchini che anche oggi hanno l’impudenza di definirsi “scrittori”: Charles Dickens. Diciamo subito una cosa: Grandi speranze non vale Oliver Twist, così come non vale David Copperfield. Però, Grandi speranze è comunque un grande romanzo. Un romanzo completo, profondo, drammatico, maturo, scritto benissimo. Insomma, un Dickens perfetto. La storia è raccontata (al solito) in prima persona dal protagonista Philip Pirrip, detto comunemente Pip. Orfanello indifeso come Oliver Twist, creatura ingenua e tiranneggiata come David Copperfield, vive con sua sorella maggiore (i genitori sono morti) manesca, i cui modi non fanno che mortificare il bambino, che ha come unico amico il marito della donna, Joe, di mestiere fabbro. La sua vita viene però presto sconvolta da due avvenimenti molto importanti: il giorno prima di Natale, quando è in cimitero davanti alle tombe dei suoi genitori (nello straordinario scenario nebbioso delle paludi), si imbatte in un forzato evaso che gli chiede con violenza e minacce del cibo e una lima; quindi, ha modo di essere introdotto (dai parenti opportunisti che sperano di ricavarci qualcosa) nella casa della nobile del suo paese, Miss Havisham, una donna molto particolare che vive in un ambiente a sua volta particolare e, oserei dire, molto “zafoniano” (e non è un caso che proprio Zafón citi Grandi speranze nel suo Il gioco dell’angelo): la sua casa è ferma a com’era il giorno delle sue nozze mai avvenute, quando è stata abbandonata dal suo promesso sposo, con l’orologio fermo alla stessa ora e la tavola imbandita con tanto di torta nuziale, mentre le finestre sono sigillate e l’unica illuminazione è fornita dalla luce delle candele. Espropriata nella propria vita affettiva, la donna usa la sua ricchezza come strumento di vendetta e di manipolazione contro gli altri: vive infatti con una bambina di nome Estella, da lei educata a essere irrispettosa e altera nei confronti degli uomini, cominciando in questo caso proprio da Pip, che da un lato, nelle intenzioni di Miss Havisham, dovrebbe essere educato all’amore senza speranza, ma che dall’altro dimostra tutte le sue differenze presentandosi come un bifolco che chiama i fanti “jack”. Successivamente, quando è divenuto apprendista fabbro nella fucina di Joe (maledicendo la sua sorte), Pip scopre di essere erede di una grossa fortuna di avere la possibilità di trasferirsi a Londra: viene educato allo studio e alle leggi dell’alta società, diventa uno snob che pensa di essere migliore delle persone hanno popolato il suo passato, anche di quelle che ama (prova vergogna nel rivedere Joe che è venuto a trovarlo e che dimostra tutta la sua rozzezza di fabbro. È sempre accompagnato dall’amore per Estella, che lo trascina in una vita sociale che lui arriva a odiare ma di cui non riesce a fare a meno, senza però riuscire a convincere la ragazza a dedicarsi a lui (anzi, lei decide addirittura di sposare l’orribile Drummle). Pip rimane però sempre all’oscuro di chi sia il vero benefattore della sua nuova ricchezza (anche se giunge a pensare che ci sia lo zampino di Miss Havisham), finché quest’ultimo non gli si rivela nella persona del galeotto Magwitch, l’evaso aiutato da Pip nel cimitero. Ripreso e deportato in Australia, questi ha accumulato una fortuna come allevatore di pecore e ha deciso di utilizzare i soldi guadagnati per fare di Pip un gentiluomo. L’ex forzato però è appena tornato in Inghilterra, mosso dal desiderio di rivedere il giovane che è divenuto il suo figlio putativo, ma con tale atto ha segnato la sua condanna a morte: le persone deportate in Australia non possono rimettere piede in patria, pena l’impiccagione. Riconosciuto e denunciato alle autorità dall’ex compare Compeyson (lo stesso corteggiatore fedifrago di Miss Havisham), vive nascosto in casa di Pip, in attesa di lasciare il paese per via clandestina (il tentativo va tuttavia a vuoto e Magwitch, rimasto gravemente ferito nella cattura, muore in prigione, poco prima di essere impiccato). Romanzo di formazione della personalità del protagonista, che solo nel finale riesce a impossessarsi autenticamente della sua vita, il libro ruota tutto intorno a queste “grandi speranze” del titolo, la ricerca della felicità offerta dalla posizione sociale e dalla ricchezza, anche se Pip è costretto a muoversi in un’atmosfera di mistero e di falso status sociale, dal momento che la sua posizione e i suoi soldi sono di origine sconosciuta (tanto più che, morto Magwitch, tutti i suoi beni vengono incamerati dallo stato). La trama (dove ovviamente alla fine tutto deve coincidere) si svolge attraverso complicazioni e coincidenze apparentemente gratuite e tipiche del feuilleton ottocentesco che mescola generi diversi (romanzo sociale, sentimentale, poliziesco), ma a ben vedere l’opera ruota intorno al concetto di famiglia (reale, supposta) e prevede personaggi che sono tutti legati da vincoli di sangue a loro stessi ignoti o ripudiati, che non possono essere riconosciuti da una società perbenista come quella vittoriana. Molte sono le scene memorabili (la fuga finale in barca, ma soprattutto la morte di Miss Havisham, che in preda al rimorso arde viva), così come certe ambientazioni (una su tutte: Satis House, la dimora congelata di Miss Havisham) e caratterizzazioni che confermano la grandezza e la maestria dell’autore (l’avvocato Jaggers e il suo aiutante Wemmick, il malvagio e rancoroso Orlick). Che poi David Copperfield sia un’altra cosa, è un altro discorso…