mercoledì 23 maggio 2012

Ann Radcliffe - I misteri di Udolpho

Chi ha visto il film Becoming Jane forse si ricorderà dell’attimo di gloria riservato alla scrittrice Ann Radcliffe, che la protagonista Jane Austen (interpretata nientemeno che da Anne Hathaway) andava a trovare a casa sua come vero e proprio mito vivente (per lo sconcerto della buona società ostile alla letteratura e alle donne col cervello, tanto che, all’udire del compenso di 500 sterline per I misteri di Udolpho e di 800 per il seguente L’italiano, uno sconsolato signore all’antica esclamava “Addirittura oltre 1.000 sterline per un romanzo? Che tempi!”). Avventura, fascino e terrore: i suoi romanzi possedevano tutto quello che mancava alle sue giornate, pare rovinate dalla sua scandalosa fama letteraria. Al di là delle licenze poetiche, Jane Austen ammirava veramente Ann Radcliffe, tanto da riprenderne I misteri di Udolpho nel suo Northanger Abbey, per non parlare delle citazioni rintracciabili in autori del calibro di Walter Scott, Henry James, Herman Melville e Dostoevskij. Per di più, stiamo parlando di uno dei capisaldi della letteratura gotica, genere che ai tempi del liceo mi appassionava enormemente: di questo romanzo in particolare, poi, avevo sempre parlare nelle presentazioni di altri libri ma non avevo conoscenza diretta, essendo di difficile reperibilità sul mercato, e mi ero fatto l’idea che fosse veramente un’opera fondamentale, di quelle da leggere obbligatoriamente. Colmata la lacuna, devo purtroppo ammettere che il genere gotico oggi mi fa molto meno effetto di un tempo, che le ultime riletture (Il monaco di Lewis, Notre-Dame de Paris di Victor Hugo) non hanno sortito in me l’entusiasmo sperato, e che questo I misteri di Udolpho non mi ha per nulla entusiasmato per non dire annoiato a morte (il fatto che sia uno dei pochi romanzi a non aver fornito lo spunto per un film o uno sceneggiato televisivo è abbastanza significativo). Ci ho combattuto eroicamente per oltre due mesi, senza peraltro riuscire a domarlo del tutto, l’ho abbandonato e poi ripreso, tanto che portarlo a termine può essere considerata una vera impresa. Ambientato nel 1584, è incentrato sulle vicende di Emily St. Aubert, figlia unica di una famiglia di possidenti terrieri in declino. La povera sventurata (si capisce che è tale, come tradizione, sin dalle prime pagine) accompagna il padre appassionato di botanica in un viaggio in Guascogna attraverso i Pirenei fino alla costa meridionale  del Roussillon, e nel tragitto incontra e si innamora (ricambiata) del bel Valancourt. Quindi il padre si ammala e muore nella casa di umili contadini, non prima di affidare alla figlia la miniatura di una donna amata e un pacchetto di lettere da bruciare. La giovane è così costretta a vivere con la poco simpatica zia Madame Cheron, la quale sposa un certo Montoni, un mascalzone dall’anima nera e irrimediabilmente spietata che si spaccia per un nobile italiano e che le porta entrambe nel suo castello di Udolpho, lugubre tenuta sull’Appennino tosco-emiliano con all’esterno torrioni e mura diroccate e all’interno cortili ampi e spogli, corridoi lunghi e bui, stanze fredde e inospitali in cui riecheggiano voci di spettri affamati di vendetta (e gli spaventosi racconti dei servi Annette e Ludovico non migliorano di certo la situazione). Montoni minaccia con violenza la moglie per spingerla a passargli le sue proprietà di Tolosa, destinate invece a Emily, e cerca di far sposare quest’ultima con il Conte Morano per mero interesse, salvo scoprire che questi è quasi rovinato. Morano non si dà per vinto e cerca di rapire Emily ma la giovane rifiuta perché è sempre innamorata di Valancourt e il tentativo viene sventato dall’intervento di Montoni. Madame Cheron muore in seguito ai maltrattamenti del marito, mentre Emily è decisa a non cedere al clima di terrore e, dalla sua stanza lontana da tutte le altre e accessibile anche da una scala interna immersa nel buio, giunge a sfidare la paura guardando un quadro velato che la leggenda vuole raffiguri il volto della precedente proprietaria del castello, cerca di interrogare un’ombra che si aggira di notte sui bastioni e ascolta una misteriosa musica che le ricorda un canto simile a quello sentito nella sua dimora natale: pensa sia il suo bel Valancourt a suonare, ma in realtà si tratta di un certo Du Pont, ovviamente innamorato da tempo di lei (è lui che ha suonato per lei e le ha lasciato poesie nel casino di caccia, rubando per giunta il suo piccolo ritratto). È proprio Du Pont a far intraprendere a Emily la fuga insieme ai due servi Annette e Ludovico: il viaggio di ritorno in Francia li conduce al monastero di St. Claire, dove il padre di Emily aveva chiesto di essere sepolto; vengono accolti dal nobile Villefort nella residenza dei Villeroi (che si vuole anch’essa abitata dagli spetri), dove Emily si fa amica Blanche e incontra un protettore che prende a cuore la sua storia e incarica un avvocato di farla rientrare quanto prima in possesso della sua proprietà e reclamare quella della zia. Si vorrebbe combinare il matrimonio con Du Pont ma la giovane è sempre innamorata di Valancourt, che nel frattempo si scopre essere stato corrotto dal vizio, dal sesso e dal gioco, finendo addirittura in carcere. Qualcuno sospetta che Emily non riuscirà a coronare il suo sogno d’amore e non scoprirà la verità sulla misteriosa marchesa che tutti dicono assomigliarle? La Radcliffe riprende tutte le tematiche tipiche del romanzo gotico, a partire dall’eroina perseguitata e dalla paura dell’ignoto in un paese misterioso e colmo di superstizioni come l’Italia, ma anche del romanzo di formazione attraverso le disavventure (per non parlare del sesso, presenza costantemente in sottofondo ma mai nominata direttamente come si conveniva in una società puritana e perbenista). Purtroppo, leggendolo oggi, il romanzo presenta molti difetti, primo tra tutti il profluvio di sentimenti, sospiri e svenimenti che i protagonisti riversano in ogni pagina, oltre alla tendenza romantica a sovrabbondare in citazioni poetiche e descrizioni paesaggistiche di boschi e montagne (il cosiddetto “spirito del sublime”), anche se tutto ciò si rivela interessantissimo per rendersi conto di come gli inglesi del XVIII secolo vedevano l’Italia,  paese barbarico in quanto cattolico e dalla strana geografia esotica (l’autrice piazza misteriosi aranceti lungo le rive del fiume Brenta, paesaggi mediterranei alle pendici delle Alpi e le nevi perenni sugli Appennini). I personaggi sono per lo più stereotipati e banali, con l’eccezione di Montoni e della sua cricca di loschi masnadieri, ma sono interessanti alcune soluzioni come il ricorso al tema del doppio (Emily trova un doppio in Blanche, che rivive in scala minore angosce e misteri legati sempre a un castello, e condivide con lei la storia di un padre che l’ha esposta all’insicurezza sociale e di un innamorato inetto) o il tentativo di trovare una spiegazione logica e razionale a tutto ciò che sembra soprannaturale.

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