venerdì 28 dicembre 2012

J.R.R. Tolkien - Lo Hobbit annotato

Tra le pubblicazioni irrinunciabili per tolkieniani di ferro rispolverate in occasione dell’uscita del film Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato (visto dal sottoscritto, al momento in cui scrive, già quattro volte), è doveroso segnalare la riedizione in tascabile brossurato, da parte di Bompiani, de Lo Hobbit annotato, già uscito anni fa in cartonato rilegato con una traduzione curata da Oronzo Cilli (che tentò di uniformare il testo al Signore degli Anelli) e ormai fuori catalogo da parecchio tempo. Si tratta di una versione realizzata da Douglas A. Anderson nel 1988 per commemorare il cinquantesimo anniversario della pubblicazione americana del libro e che si pone come una lettura veramente irrinunciabile, adatta anche a chiunque voglia cimentarsi per la prima volta con una lettura del romanzo che faccia intuire fin dall’inizio quanto si possa andare oltre nella conoscenza del testo e del mondo che esso rappresenta. Non è un’edizione critica, né di un libro di saggistica o critica letteraria, ma il romanzo così come noi lo conosciamo (nella nuova traduzione di Caterina Ciuferri, la stessa della versione illustrata da Alan Lee, sempre edita da Bompiani) con un’esaustiva introduzione che spiega come Lo Hobbit fu scritto, pubblicato e accolto dalla critica e dal pubblico, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, e di come Tolkien sviluppò il personaggio dello hobbit che viveva in un buco della terra (idea avuta in un noioso pomeriggio mentre correggeva i compiti di esame) e incominciò a delineare un’avventura: la storia di come il signor Bilbo Baggins, un hobbit benestante della Contea, si trovi coinvolto in una rischiosa missione verso la Montagna Solitaria, nel tentativo di aiutare una compagnia di nani a recuperare il tesoro rubato loro da un drago chiamato Smaug. Lungo il percorso, Bilbo e compagni incontrano troll, elfi, orchi, ragni giganti, un mutatore di pelle che da uomo può trasformarsi in un orso gigantesco e un essere piccolo e viscido, Gollum, che possiede un oggetto molto prezioso: un anello magico che conferisce l’invisibilità a chi lo porta. Saggiamente, Anderson non si addentra nell’analisi dei rapporti tra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, ma considera il primo (che, ricordiamolo, è una delle favole più diffuse nel mondo anglosassone, e non solo quello) come un’opera a sé stante, quindi non come un antefatto del secondo. Il valore aggiunto del libro è la corposissima serie di annotazioni a bordo pagina che approfondiscono la vita di Tolkien e i collegamenti con le sue altre opere ed evidenziano le modifiche apportate nel corso delle edizioni o le opinioni dello stesso autore al riguardo: si contano numerosi ripensamenti sui nomi dei personaggi (all’inizio lo stregone Gandalf si chiamava “Bladorthin”, mentre il capo dei nani, che noi conosciamo come Thorin, era in origine chiamato “Gandalf”) e su parti del testo rese più scorrevoli, per non parlare delle modifiche sostanziali apportate da Tolkien rispetto al testo del 1937 per rendere il tutto più omogeneo con quanto narrato nel Signore degli Anelli: è il caso del personaggio di Gollum, che fu riveduto per adattarsi alla vera natura dell'Unico Anello e portò a corpose modifiche dell’intero quinto capitolo, “Indovinelli nell’oscurità”, la cui prima versione (nella quale Gollum prometteva a Bilbo un regalo se avesse dovuto vincere al gioco ma poi, tornato sul suo isolotto, scopriva che il suo regalo era sparito e giungeva perfino a scusarsene) divenne poi la prima versione dei fatti data da Bilbo ai nani e Gandalf già sotto il potere dell’Anello. Numerose sono anche le note relative a ciò cui Tolkien si ispirò nello scrivere il testo o delinearne i personaggi: quadri, poesie, nursery rhymes, romanzi e racconti letti in gioventù, il corposo materiale della letteratura norrena, luoghi della sua infanzia o adolescenza: scopriamo, per esempio, che Bag End (Vicolo Cieco), il nome del luogo della casa di Bilbo Baggins, era il nome del luogo dove sorgeva la fattoria della zia di Tolkien nel Worcestershire, situata in fondo a un viottolo che arrivava fino a quella casa e non proseguiva oltre, e che la valle di Gran Burrone, così come l’ha illustrata Tolkien, presenta notevoli somiglianze con la zona intorno a Lauterbrunnen in Svizzera, che lo scrittore visitò nel 1911. Anche il viaggio di Bilbo e dei nani fin al di là delle Montagne Nebbiose è basato su una sua escursione durante quella trasferta, rotolamento di massi compreso. Vi sono anche frequenti osservazioni di natura linguistica sui termini adoperati o creati da Tolkien, ma il volume è impreziosito soprattutto da oltre 150 illustrazioni, prese dalle varie edizioni del romanzo pubblicate nel mondo (alcune delle quali definite orribili da Tolkien) o che raffigurano disegni e schizzi (in origine a colori, qui in bianco e nero) dello stesso Tolkien relativi a specifici passi del racconto. Ci sono anche molte poesie (sempre di Tolkien) che si ricollegano in qualche modo ad alcuni aspetti (o personaggi) del libro, ma le note più frequenti riguardano quanto scritto da Tolkien nel corso degli anni in relazione al Signore degli Anelli e ai suoi personaggi: si tratta in gran parte di estratti dalle sue lettere, ma anche di considerazioni basate su quanto riferito nella biografia di Tolkien scritta da Carpenter o in The road to Middle-Earth di T.A. Shippey. Molto interessante è l’inserimento, alla fine del volume, della Cerca di Erebor, un racconto di come si sono originate le vicende narrate nel libro e che doveva inizialmente costituire una delle Appendici del Signore degli Anelli: scopriamo che l’intera vicenda dei nani (promossa da Thorin) è andata da subito a genio a Gandalf per mettere al sicuro il Nord dagli orchi e soprattutto dal drago Smaug, che sarebbe potuto essere utilizzato da Sauron (il Signore Oscure del Signore degli Anelli e nello Hobbit conosciuto come “il Negromante”) per attaccare le roccaforti elfiche di Lorien e Gran Burrone. Inoltre, lo stregone intendeva istruire gli hobbit sui pericoli del mondo (senza dimenticare il particolare che il drago non aveva mai sentito il loro odore e questo avrebbe costituito un vantaggio, almeno all’inizio) e per farlo decise di partire da una persona a cui piacesse viaggiare e fosse curiosa e ben disposta verso avventure anche pericolose (pur a sua insaputa): Bilbo costituiva un perfetto esempio di quello che voleva Gandalf, portando in sé la stravaganza dei Tuc e la solidità dei Baggins. Il fatto che non si fosse mai sposato e che avesse voluto rimanere “libero” «per quale motivo più profondo che lui stesso non riusciva a capire o piuttosto a riconoscere», pronto a partire «appena ne avesse avuto l’accasione, o quando fosse riuscito a trovare il coraggio di farlo», è un bellissimo particolare che ancor più certifica la concezione cattolica di Tolkien di una “chiamata” per la vita di ognuno.

mercoledì 26 dicembre 2012

Carlos Ruiz Zafón - Il prigioniero del cielo

Terzo volume della saga del Cimitero dei Libri Dimenticati dopo il capolavoro L’ombra del vento e il successivo Il gioco dell’angelo (di poco inferiore forse per via di alcune trovate eccessivamente soprannaturali, ma comunque bellissimo), anche se è bene chiarire che i libri di Zafón non vengono sequenzialmente uno dietro l’altro ma si incastrano uno nell’altro da un punto di vista sia cronologico sia delle storie raccontate. Nel caso di questo Il prigioniero del cielo, ci troviamo nella Barcellona di fine degli anni Cinquanta, dove Daniel Sempere (protagonista dell’Ombra del vento) è un uomo ormai sposato e dirige la libreria di famiglia insieme al padre e al fedele Fermín (anch’egli personaggio dello stesso romanzo). Una mattina, durante il periodo di Natale, entra in libreria uno sconosciuto torvo, zoppo e privo di una mano, che acquista una rarissima e costosissima copia del Conte di Montecristo di Dumas pagandola il triplo del suo valore ma lasciandola a Daniel perché lo consegni a Fermín, con una dedica inquietante che dice «tornato dal mondo dei morti e possiede la chiave del futuro», firmandosi “13”. Fermín racconta quindi la sua storia a Daniel, di quando alla fine degli anni Trenta è finito prigioniero politico nel carcere di Montjuic, castello usato come prigione dai franchisti, dove scopriamo quale subdolo patto legava David Martin (protagonista del Gioco dell’angelo) al suo carceriere Mauricio Valls (infida figura che incarna il peggio del regime franchista), con torture, sofferenze e tesori nascosti. Queste rivelazioni si intrecciano inestricabilmente con la vita di Daniel, da un lato per via della madre Isabella (della quale non abbiamo mai saputo che fine avesse fatto se non che è morta molto giovane quando David era un bambino) e della scoperta del nome del suo assassino, dall’altro per una sua piccola disavventura coniugale (un vecchio spasimante della moglie si rifà vivo sobillato proprio da chi è responsabile della morte della madre). Come sempre la vicenda ruota intorno al Cimitero dei Libri Dimenticati, luogo per eccellenza dell’immaginazione di Zafón, ed è ricca di riferimenti al resto della saga (l’ombra di Julian Carax, l’ispettore Fumero). Lo scrittore catalano continua a raccontare le sue storie ambientate in un universo a tutti gli effetti letterario (i suoi sono libri che parlano di altri libri e di persone che leggono, scrivono e pubblicano libri), a sviluppare i personaggi e, come un nuovo Dickens, a giocare con i registri (nella prigionia di Fermín il tono è tragico-drammatico, nel suo matrimonio è comico-umoristico) e il linguaggio, sempre raffinato e iperbolico (in ultima analisi, altamente letterario). La parte del racconto di Fermín è splendida, un po’ perché ricalca Il Conte di Montecristo (fuga con sostituzione di cadavere compresa), un po’ perché riprende tutti quegli elementi gotici e i colpi di scena tipici degli altri due volumi della saga, ma il fatto che il romanzo non sia risolto e lasci aperta la porta a un seguito fa sì che esso risulti meno appetibile per i non fan della saga e meno godibile se affrontato come opera a sé stante. Dove Zafón eccelle è nella trasformazione di un nome falso in un nome vero, e quindi nella costruzione dell’identità attraverso la falsificazione: non solo l’identità di Fermín Romero de Torres è fittizia (in quanto invenzione dello stesso Fermín per salvare la pelle durante la guerra), ma quell’identità non può essere usata perché Fermín è stato dichiarato morto dallo Stato. Una tematica che si connette a quella più profonda dell’identità e del ricordo che rappresenta il Cimitero dei Libri Dimenticati e che caratterizza la ricerca di Daniel alla scoperta della verità su sua madre (che suo padre, invece, gli ha sempre taciuto, rimuovendo quanto accaduto durante gli anni della Guerra Civile). Ogni parte del libro è caratterizzato dalla presenza di una bellissima fotografia in bianco e nero di Barcellona, sempre co-protagonista del romanzo, opera del fotografo catalano Català-Roca, lo stesso delle copertine dell’Ombra del vento e del Gioco dell’angelo.

martedì 25 dicembre 2012

George R.R. Martin - La regina dei draghi

Ben pochi ormai non hanno sentito parlare della saga delle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin, riportate alla ribalta da una fortunatissima serie televisiva Il trono di spade e, in virtù del successo di questa, oggetto di ripubblicazioni da parte di Mondadori. La quale ha cominciato, nelle ultime riedizioni, a rimettere insieme le parti dei vari libri originariamente smembrate, come questo La regina dei draghi, seconda parte del secondo volume della saga, Lo scontro dei re. La trama riprende dunque esattamente da dove era stata bruscamente interrotta al termine de Il regno dei lupi, e lo fa subito in maniera decisamente forte: volendo punire la sua promessa sposa Sansa (figlia e sorella di traditori, a giudizio dei Lannister) per le sconfitte inflitte da suo fratello Rob (autoproclamatosi re del Nord), l’odioso re moccioso Joffrey ordina alle sue guardie di colpirla  e di denudarla (in seguito, la poverina subirà un tentativo di violenza durante una sommossa). Nel frattempo, la madre di Sansa, Catelyn Stark, assiste alla brutale uccisione di Renly Baratheon  da parte di un’ombra incoronata che esce dalla parete, frutto del maleficio della sacerdotessa rossa Melisandre a favore del fratello di Renly, Stannis, prima della battaglia che avrebbe dovuto vederli scontrarsi. Dopo questi botti, l’azione ristagna ma ha il pregio di farci conoscere meglio un personaggio davvero interessante come Sir Davos, divenuto cavaliere per aver permesso a Stannis di sopravvivere durante un assedio riuscendo a contrabbandare cipolle e carne salata: da quella volta costretto a subire il disprezzo della corte per via delle sue umili origini (il suo stemma araldico è una cipolla e viene per l’appunto chiamato “Cavaliere delle cipolle”) e ha avuto in ricompensa, oltre all’elezione a cavaliere, la prima falange di ogni dito della mano sinistra, come pagamento per i suoi crimini passati («È stata giustizia – spiega Stannis con logica ineccepibile – Un’azione buona non cancella quella cattiva. Nello stesso modo in cui la cattiva non cancella quella buona. Per l’una dovrebbe esserci una ricompensa e per l’altra una sanzione»), e ora se le porta sempre dietro come portafortuna in un sacchettino che tiene legato intorno al collo. Un’altra novità davvero convincente è il carismatico Jaquen H’ghar, assassino e mutaforma, con i capelli rossi da un lato e bianchi dall’altro, che continua l’opera di iniziazione di Arya cominciata dal maestro di scherma Syrio Forel: la poverina, infatti, langue come serva sotto falsa identità nelle grinfie di feroci carcerieri al soldo dei Lannister, prima di divenire coppiera e di decidere di fuggire. Nelle terre oltre la Barriera, Jon Snow incappa in alcune sentinelle dei Bruti, tra cui una ragazza dai capelli rossi di nome Ygritte, che decide di liberare, e viene riconosciuto come uno di loro. L’infame e vile Theon Greyjoy decide di occupare la sguarnita Grande Inverno per guadagnarsi il rispetto di suo padre e di sua sorella, dimostrando totale irriconoscenza verso la famiglia Stark che, pur avendolo preso in ostaggio, l’ha trattato ed educato come un figlio; per non perdere il rispetto dei suoi soldati e della gente di Grande Inverno, mette in scena la morte dei due piccoli Stark (Bran e Rickon) presentando pubblicamente i cadaveri di altri due bambini, mentre i veri eredi sono nascosti nelle Cripte di Grande Inverno. L’intera trama è indirizzata al momento narrativamente più forte,  la battaglia di Acque nere, durante la quale i destini di molti personaggi si sovrappongono in un crescendo di tensione: le navi di Stannis, quattro volte più numerose di quelle dei Lannister, invadono Approdo del Re ma vengono sbaragliate dalla misteriosa sostanza infiammabile dell’altofuoco, quindi lo scontro infuria via terra e fa temere il peggio per gli assediati (la regina Cersei ha già dato disposizioni per farsi eliminare ed evitare così di cadere nelle mani di Stannis, l’imbelle Joffrey è messo al sicuro e perfino l’animalesco Mastino Sandor Clegane rifiuta di affrontare la battaglia abbandonandosi al bere), con il solo nano Tyrion a reggere l’onda d’urto, prima sovrintendendo dalle mura, poi scendendo direttamente in campo e cercando di farsi valere nell’uccidere più nemici che può, prima che uno dei suoi non cerchi di eliminarlo su mandato della sorella (determinata a vendicarsi delle sue trame politico-dinastiche che l’hanno portata a separarsi dalla figlia Myrcella, mandata in sposa a un alleato). Dall’altra parte del mare, nella città di Qarth, la giovane Daenerys Targaryen subisce la serrata corte del mellifluo principe-mercante Xaro Xhoan Daxos, ma purtroppo le sue ricerche di aiuto sono infruttuose: tutti vogliono i suoi draghi e la riempiono di attenzioni e di regali, ma nessuno è disposto a fornirle un esercito e delle navi. Decide quindi di rivolgersi agli stregoni e si reca nella Casa degli Eterni, dove assiste a visioni che la riguardano ma di cui non capisce il significato, prima di scoprire finalmente che c’è qualcuno disposta ad aiutarla realmente. Martin continua a raccontare il suo dettagliatissimo mondo di intrighi, nel quale il potere, il denaro e la lussuria sono il motore che muove gli eventi e mina l’instabile equilibrio: quella da lui ritratta è una società medievale e feudale con elementi fantasy (le ombre assassine generate da Melisandre, i draghi di Daenerys, l’altofuoco) che, però, è profondamente moderna in quanto le famiglie e gli individui si pongono al di sopra dello Stato e dei valori condivisi, cessando di occuparsi del bene comune. I personaggi di Martin sono, per lo più, in competizione per imporre la propria casata e, per loro, l’astuzia è l’arma preferita mediante cui prevalere sugli avversari per il loro rendiconto personale. È un fantasy completamente diverso da quello tolkieniano: se in Tolkien  non c’è alcun riferimento alla religione o a figure in qualche modo legate all’ambito ecclesiastico ma c’è comunque sempre la presenza di una Provvidenza che determina i fatti (oltre che di una forte carica escatologica), in Martin si possono invece trovare una moltitudine di diverse confessioni e sette religiose (oltre che una rappresentazione delle gerarchie ecclesiastiche) ma non c’è traccia del minimo intervento divino che guidi le situazioni o soccorra i personaggi, sempre lasciati in balia di se stessi e delle loro fragilità umane. Altra caratteristica specifica di Martin è la mancanza di una classica figura di signore del Male, e questo si riflette nell’assenza di un vero protagonista o di un eroe che si carichi sulle spalle il peso del mondo intero, in favore di un’azione corale in cui il succedersi di azioni dettate da impulsi personalistici costituisce l’ossatura della storia del mondo, specchio della società contemporanea e postmoderna, dove nulla è riconducibile al bianco e nero e dove la frammentazione dei valori impedisce una categorizzazione di bene e male. Martin racconta storie di uomini, ciascuno con le proprie motivazioni e convinto di essere nel giusto: il suo stile narrativo, che arriva a intitolare i capitoli con il nome del personaggio di turno, pur utilizzando la terza persona, fa sì che gli eventi della trama siano mostrati attraverso gli occhi e la mente di quel personaggio e che il lettore rimanga intrappolato in una ragnatela di emozioni contrastanti, senza riuscire a capire chiaramente chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Il suo stile è fondamentalmente neutro e privo di qualsiasi completamente di ogni possibile lirismo, ma la tecnica del punto di vista gli permette molte finezze nel caratterizzare i personaggi, anche attraverso le variazioni di registro stilistico (cosa che, purtroppo, si avverte solo in parte nella traduzione italiana). Ed è proprio questa complessità, linguistica e oltre che di racconto, che ti fa abbandonare alla narrazione nella speranza che non finisca mai.

lunedì 17 dicembre 2012

J.R.R. Tolkien - Le lettere di Babbo Natale

Il Tolkien minore spesso non è così fondamentale come si vorrebbe credere, ma talvolta riserva delle piacevolissime sorprese. È il caso di questa pubblicazione a tema (le feste natalizie sono alle porte) dalla cura editoriale ineccepibile che illustra l’abitudine di Tolkien, in occasione del Natale, di inventare e scrivere delle storie esclusivamente per i suoi figli sotto forma di lettere mandate direttamente da Babbo Natale (il quale di solito le letterine le riceve, non le scrive): affrancate con francobolli delle Poste Polari, continuarono ad arrivare in casa Tolkien per oltre vent’anni a partire dal 1920, e quindi, è bene sottolinearlo, non erano pensate per la pubblicazione. In esse Babbo Natale (che ha millenovecentoventi anni nel 1920, millenovecentoventiquattro nel 1924, millenovecentotrenta nel 1930, e così via, a sottolineare il suo inserirsi perfettamente nell’era cristiana) racconta avventure le disavventure capitate nel suo mondo, un lontano e nevoso Polo Nord, con le buffe storie di Orso Polare, suo inseparabile e maldestro aiutante, e dei suoi nipoti Paksu e Valkotukka (che scombinano l’organizzazione della casa), degli Uomini di neve e dei loro bambini. Storie che, nel corso degli anni, si arricchiscono di altri personaggi appartenenti alla mitologia tolkieniana: gli Elfi (uno dei quali, Ilbereth, diventa segretario di Babbo Natale), gli Gnomi Rossi e i loro terribili nemici, i goblin, che cercano di rubare i regali di Natale. Tra un fuoco d’artificio dell’Aurora Boreale e una visita all’Uomo della Luna (impegnato a mettere ordine tra le stelle), lo schema delle lettere è sempre lo stesso: un incidente o un pericolo rischiano all’ultimo momento di mandare a monte i festeggiamenti natalizi, ma infine tutto (o quasi tutto) si risolve per il meglio e così, ogni anno, è come un miracolo che si ripete. Grazie alla riproduzione visuale delle lettere, è possibile rimanere affascinati dalla bellezza delle illustrazioni di ogni singola lettera, quasi delle miniature dai contorni precisi e dai colori accesi, che ricordano molto alcune illustrazioni per l’edizione originale dello Hobbit dello stesso Tolkien (le caverne della dimora di Babbo Natale ricordano l’antro del drago Smaug sul suo tesoro). Le bellissime grafie (la scrittura tremolante da persona anziana di Babbo Natale e quella spessa di Grande Orso, a simulare la sua zampa enorme) riflettono invece la passione del Tolkien filologo, che si diverte a giocare con le lingue (l’elfico, l’utilizzo delle rune e addirittura un nuovo alfabeto ideato da Orso Polare). Un volume per chi ha voglia di sognare.

sabato 15 dicembre 2012

Paolo Gulisano, Elena Vanin - La Mappa de Lo Hobbit

Tra le varie pubblicazioni tolkieniane affastellate sugli scaffali delle librerie in tempo di regali natalizi, ce n’è una che secondo me è meritevole di attenzione. Niente per cui gridare al miracolo, per carità, ma con un suo perché. La firma Paolo Gulisano, medico lucchese ed esperto di letteratura fantastica che, sulla falsariga di quanto già fatto per i mondi del Signore degli Anelli e del Silmarillion, ha deciso di celebrare i 75 anni dell’uscita de Lo Hobbit (ormai sulla bocca di tutti grazie alla nuova trilogia cinematografica di Peter Jackson) con questo simpatico volumetto che funge da agile ma completa guida al mondo evocato da Tolkien e che presenta una carta (nel senso di una vera e propria piantina) della Terra di Mezzo realizzata dall’artista Elena Vanin (non tutta, solo quella sezione evocata specificamente nel romanzo). Gulisano afferma con convinzione come i libri di Tolkien siano un tesoro a cui attingere, che i suoi simboli siano sempre qualcosa da decifrare e che il suo Altrove fantastico (la Terra di Mezzo) sia un fantastico contenitore di avventure e sogni e ci ha regalato in pieno Novecento un ritorno all’epica, alla leggenda e alla fiaba. Tolkien si ispirava infatti alle antiche saghe nordiche e celtiche, ma anche al patrimonio delle fiabe (come il Peter Pan di James Barrie, che a 18 anni andò a vedere a teatro restandone folgorato), tanto che Lo Hobbit nasce proprio come fiaba, il luogo in cui nella modernità scettica e disincantata (che ha negato il soprannaturale) si sono rifugiati gli antichi miti e le domande fondamentali del senso religioso (la fantasia e l’immaginazione non sono una fuga, ma uno strumento per capire di più la realtà). Gulisano sottolinea come, nonostante la presenza di personaggi già conosciuti come Gandalf, Gollum ed Elrond, questo romanzo sia nato come opera originale e non come un prequel al Signore degli Anelli, in quanto precedente: Tolkien cominciò infatti a fantasticare sugli scenari e sui personaggi di questo suo mondo immaginario sin dagli anni della Prima Guerra Mondiale, mentre era in trincea, quando scriveva alla fidanzata Edith che trovava ristoro agli orrori della guerra appunto in quegli scenari epici, mitici e fiabeschi che stava costruendo e che sarebbero poi diventati i racconti del Silmarillion, quell’opera a cui lavorò tutta la vita e che non portò nemmeno a termine tanto che venne pubblicata dal figlio Christopher. Ma la fiaba torna anche nel Tolkien padre, che inventava favole per i figli (RoverandomMr. Bliss) e che si ritrovò a pubblicare come sua prima opera proprio Lo Hobbit, nato quasi per caso correggendo un compito di ammissione all’università a Oxford con la frase: “In un buco della terra viveva un Hobbit”. E lo hobbit è veramente il personaggio più originale del mondo di Tolkien, un essere piccolo di statura con tutta una serie di caratteristiche (è pacioso, ama le feste, la buona tavola, la tranquillità di una parte molto appartata del continente della Terra di Mezzo), e a questo nome e a questo personaggio nacque una storia che poi vide l’ingresso di molti altri personaggi e molti cambiamenti (basti pensare che Gandalf inizialmente era il nome di Thorin Scudodiquercia). Questo libretto vuole quindi essere, una guida per saperne di più sui personaggi (gli elfi, i nani, gli orchi, Gollum, Beorn, il drago Smaug) e i luoghi chiave del romanzo (la Contea, Bosco Atro, la Montagna Solitaria), tenendo conto che, nell’interpretazione dell’autore, è proprio qui che appare per la prima volta il grande tema della rinuncia, del sacrificio, che per Tolkien era una delle più grandi virtù, una delle forme più alte di eroismo, tema che, unitamente a quello dell’amicizia, sarebbe stato poi sviluppato profondamente nel Signore degli Anelli: l’hobbit Bilbo della Contea è la testimonianza di come si possa divenire eroi pur non essendo grandi e grossi, semplicemente affrontando le sfide che la vita pone di fronte, per quanto insormontabili possano apparire, rispondendo a una chiamata (religiosa?). La mappa di corredo al testo non si distingue per chissà quale intrinseca bellezza, specie se confrontata con quella meravigliosa disegnata per il volume originario dallo stesso Tolkien, ma presenta decorazioni leggere ed eleganti, di sapore elfico, e illustrazioni dalle sfumature più cupe, per ricordare che il viaggio narrato è tutt’altro che una passeggiata: tutto questo per indicare come ci troviamo in un mondo immaginario che assomiglia molto al nostro, anzi, che è il nostro mondo (quello dell’Eurasia) come sarebbe potuto essere.

venerdì 14 dicembre 2012

J.R.R. Tolkien - Lo Hobbit (con le illustrazioni di Alan Lee)

L’uscita del primo capitolo della nuova trilogia di Peter Jackson dedicata a Lo Hobbit ha riportato, com’è ovvio, un’incredibile febbre per tutta l’opera tolkieniana in generale, dimostrando che il cinema è un ottimo veicolo promozionale per far conoscere scrittori immortali (quella ben ristretta categoria di persone che scrivono libri capaci di dire qualcosa anche a diverse generazioni). Conta poco fare il fan intransigente e un po’ snob che, ricalcando le posizioni del figlio di Tolkien, Christopher, dichiara schifato che i film del Signore degli Anelli hanno tralasciato i contenuti più profondi e i veri valori in cui lo scrittore credeva, o che, peggio ancora, la trilogia ha trasformato in prodotto di massa una cosa che doveva restare appannaggio di pochi selezionati iniziati. Il mio modestissimo parere è quello che i film di Peter Jackson non intendono essere dei doppioni dei libri dai quali sono tratti (cosa da un lato impossibile, dall’altro lato impossibile), ma hanno semplicemente permesso a molti di conoscere la Terra di Mezzo (e di scoprirne il fascino), spingendoli alla riscoperta dei libri del Professor Tolkien. Inoltre, ancor prima che uscisse il primo film dello Hobbit, le librerie sono state invase da nuove edizioni di volumi magari divenuti di difficile reperibilità, una vera manna per i fanatici e i collezionisti. Per questa nuova edizione tascabile del romanzo originario, Bompiani si è affidata, dopo quella storica di Elena Jeronimidis Conte per Adelphi (di quasi 40 anni fa, a sua volta ricevuta in eredità dalla Rusconi, di cui ho già parlato QUI) e quella di Oronzo Cilli per l’edizione rilegata de Lo Hobbit Annotato (che tentava di uniformare, con alcuni accorgimenti, il testo al Signore degli Anelli, ne ho già parlato QUI), all’inedita traduzione firmata da Caterina Ciuferri (traduttrice de Lo Hobbit a fumetti e de I figli di Húrin), corredata dalle fantastiche illustrazioni vecchio stile di Alan Lee (già presenti nell’edizione deluxe di qualche anno fa) e presentata in un bel formato tascabile con gli angoli smussati (e in ebook). Con in più la supervisione di Paolo Paron, fondatore della Società Tolkieniana Italiana, a imprimere il marchio di autenticità all’intera operazione. Alcune cose cambiano, in questa nuova versione, a cominciare dal sottotitolo Un viaggio inaspettato, ritenuto più accattivante del precedente La riconquista del tesoro e dell’originale There And Back Again (“Andata e ritorno”), e ovviamente in linea con il titolo della prima delle tre parti del film di Peter Jackson (si sa, bisogna dimostrarsi sempre attenti a certi particolari di natura commerciale). Non muta invece la sostanza degli avvenimenti, descritti da Tolkien ben vent’anni prima delle stesse fantasie eroiche che più tardi lo avrebbero reso immortale con Il Signore degli Anelli. Il suo mondo alternativo e perfettamente verosimile è qui già formato, a cominciare dall’oscuro Gollum, deus ex machina dell’intera vicenda, e dal mago Gandalf che, nonostante le numerose e non spiegate sparizioni e riapparizioni, mette in moto l’intera vicenda, spingendo il pacifico Bilbo Baggins a sfidare i pericoli mortali pur di impossessarsi del tesoro di un gruppo di nani custodito dal drago Smaug. Ciò che cambia, nella nuova traduzione, sono in parte il ritmo e lo stile, più vicini al modello anglosassone, ravvivando i colori dell’avventura, con lievi ma significative differenze: niente più “orchetti”, per cominciare, ma i minacciosi “orchi”; non più i tre “Uomini Neri” che si pietrificano alla luce del primo sole, ma i veri e antichi “Troll”; non più la città di Dale o “Valle” ma “Conca”; non più la spada “Pungiglione” ma “Pungolo”; “Rivendell” è la conosciutissima “Gran Burrone” e non più “Forraspaccata”; “Pontelagolungo” è diventata “la Città del Lago”; il drago “Smog” è “Smaug” come in originale; il cibo “rimpinzimonio” diventa “cram”; tra i nomi degli animali compaiono differenze perdute nella versione precedente, come i “corvi imperiali”, distinti dai semplici “corvi”, dove ogni razza contribuisce a caratterizzare la complessa cosmogonia di Tolkien. Nell’insieme, non una rivoluzione ma un adattamento, anche se i fedeli lettori di Tolkien potrebbero rivelarsi troppo affezionati ai vecchi nomi per accettare sostituzioni come quella di “Bosco Atro” con il nuovo “Boscotetro” (“Mirkwood” in originale), del soprannome di Bilbo “Cavaliere del Barile” con “Cavalcabarile” e “Archepietra” con “Arkengemma”. È interessante altresì notare, nel volume, la presenza delle due mappe dello stesso Tolkien (una all’inizio e una alla fine) col doppio colore rosso/nero così come nell’edizione originale con la particolarità che i nomi cambiati nel testo non sono stati corretti nelle mappe (con un po’ più di accortezza si sarebbe potuto ovviare a questa pecca). Per i neofiti, quelli che magari hanno scoperto l’esistenza di quest’opera solo adesso, mi sento in dovere di ricordare che, a differenza di quanto avvenuto al cinema, Lo Hobbit non è un prequel al Signore degli Anelli, perché non spiega a posteriori gli antecedenti dell’altra opera, ma è uscito dalla fantasia di Tolkien molto tempo prima che le vicende della Guerra dell'Anello venissero immaginate: anzi, proprio Il Signore degli Anelli fu concepito come il seguito de Lo Hobbit, e per molto tempo, nella corrispondenza che intercorreva tra Tolkien e l'editore, il libro in gestazione veniva chiamato “il nuovo Hobbit”. È una storia certamente nata come una fiaba per bambini, narrata con un tono colloquiale in cui il narratore si rivolge ai piccoli lettori invitandoli ad avventurarsi loro stessi nella storia, ma che nel corso degli anni si è progressivamente arricchita di altri particolari per essere riallineata alla storia della Terra di Mezzo e al contenuto del Signore degli Anelli. Per quanto mi riguarda, è sempre un’emozione risfogliare e rileggere i libri di Tolkien, perché ciò porta sempre una sensazione di familiarità e di novità al tempo stesso, magari proprio con questo spirito infantile e questa sua capacità di guardare la realtà con gli occhi di un bambino, pieni di stupore e di domande. Questa volta ho apprezzato particolarmente il personaggio di Beorn, il “mutatore di pelle” paradigma del guerriero nordico che entra nella trance bellica trasformandosi in un animale totemico, l’orso, ma talmente poetico da vivere a contatto con la natura e gli animali che tiene nella sua casa, con molte analogie con il Tom Bombadil del Signore degli Anelli, come lui creatura semidivina custode della natura e parte integrante del territorio che abita, con lo stesso ruolo fondamentale di rifugio e dispensatore di consigli nel cammino intrapreso dai protagonisti.

venerdì 7 dicembre 2012

Caitlín R. Kiernan (con Neil Gaiman e Roger Avary) - La leggenda di Beowulf

Chi non ricorda il film La leggenda di Beowulf, cartoon digitale uscito qualche anno fa grazie al talento di Robert Zemeckis che rivisitava il più antico poema epico in lingua inglese (scritto da anonimo nel VII secolo in 3.182 versi) utilizzando la tecnica della performance capture, con gli attori che recitano con sensori applicati a visi e corpi per essere trasformati dal computer in personaggi virtuali e privi di difetti? Pochissimi, a mio avviso. Zemeckis si era confermato, una volta di più uno sperimentatore piuttosto ardito nel mettere a frutto i prodigi del cinema contemporaneo, ma ahimè privo di qualsivoglia spessore per trattare tematiche minimamente complesse, finendo per diventare il cantore del gusto medio della cultura odierna, che deve piacere a tutti. A inficiare il prodotto ci avevano pensato inoltre alcune scelte sciagurate come quella in cui venivano utilizzato i più ingegnosi accorgimenti per nascondere il batacchio di Beowulf (cosa che rimandava ai titoli di testa di un film di Austin Powers), o quella particolarmente kitsch che vedeva Angelina Jolie nella parte della madre del mostro trasformata in una creatura dorata i cui talloni finivano in tacchi a spillo. Ed era un peccato, perché nella sceneggiatura di quei geniacci di Neil Gaiman e Roger Avary c’era molto di buono. Innanzitutto, perché il loro tentativo di modernizzazione del poema epico riguardava non solo il linguaggio (adattato alle esigenze del pubblico di oggi, frasi gergali e spacconesche da cameratismo guerresco comprese) ma anche la struttura stessa della storia. Il poema originario ha sempre presentato infatti difficoltà di interpretazione e di adattamento per il cinema, tanto che gli altri due film sull’argomento (uno vergognoso con Christopher Lambert, l’altro più dignitoso con Gerard Butler) hanno preso in esame solo la prima parte della storia, quella con Grendel e sua madre per intenderci (nel film con Lambert era interpretata da una modella di Playboy, non dico altro): difficile infatti unire i due stadi della carriera dell’eroe, la sua ascesa e la sua caduta finale, e risolvere il contrasto tra la gloriosa giovinezza dell’eroe e il suo inevitabile declino e la morte in tarda età. Gaiman e Avary, invece, hanno deciso di riunire le due parti, riportando tutti i mostri al loro posto: non solo Grendel, quindi, ma anche il drago finale. Senza discostarsi troppo dalla storia originale, ambientano la vicenda nella Danimarca del 45 dopo Cristo, nel palazzo di Heorot, reggia di re Hrothgar, preso d’assalto da una gigantesca creatura mostruosa di nome Grendel che, durante la notte, fa strage di umani. Solo il valoroso Beowulf ha il coraggio di affrontarlo e lo annienta. Ma ecco la novità inserita dai due sceneggiatori: la strega madre del mostro irretisce l’eroe con un patto faustiano e genera con lui un nuovo essere che, trent’anni dopo, sotto forma di drago, torna a terrorizzare il palazzo di Heorot, e il vecchio e stanco Beowulf deve di nuovo rimettersi l’armatura, questa volta conscio di incontrare il suo destino. Nell’introduzione di questo volume, Gaiman spiega che quando a lui e ad Avary fu chiesto se ritenevano possibile trarre un romanzo dalla sceneggiatura che avevano scritto (un po’ quanto successo con Nessun dove), entrambi risposero di no e che era meglio consigliare alla gente di leggere il poema originale. Il romanzo è quindi stato scritto (con i verbi tutti al presente) da Caitlín R. Kiernan, scrittrice e paleontologa irlandese trapiantata negli Stati Uniti, ma gli elementi della sceneggiatura ci sono tutti: la tentazione di chi detiene il potere deve combattere, la concezione cristiana del peccato come portatore di conseguenze (Grendel è il figlio di Hrothgar e il drago è figlio di Beowulf, ed entrambi tornano a funestare la vita dei propri genitori che si sono concessi a un demone), la menzogna che viene preferita alla verità (Beowulf resta un eroe, per bardi e sudditi), il conflitto tra mondo pagano e nuovo culto cristiano, con tutto ciò che l’immagine dello scontro finale implica (il figlio Mordred che si ribella a suo padre Artù, San Giorgio che uccide il Drago, l’arcangelo Michele che sconfigge il Diavolo). Anzi, la Kiernan aumenta ancora di più la connotazione vichinga della vicenda riempiendola di particolari di mitologia norrena, dall’albero cosmico Yggdrasil alle profezie sul Ragnarök, tanto che i numerosissimi termini utilizzati necessitano di un glossario esplicativo finale. Restano intatti i dubbi su quale fosse il pubblico di destinazione di un film del genere, che per la grandezza dei presupposti e la pochezza degli esiti rappresenta una grandissima occasione sprecata.

martedì 4 dicembre 2012

Brian Sibley - Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato. La guida ufficiale al film

Tutto è pronto, l’evento per i fanatici tolkieniani (categoria di cui mi vanto di far parte) è prossimo. Finalmente, dopo una lunghissima e spasmodica attesa, i cinema di tutto il mondo stanno per venire invasi dal primo film della nuova trilogia di Peter Jackson, Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, capace di riportare, una decina d’anni dopo la trilogia del Signore degli Anelli, l’entusiasmo per l’opera di J.R.R. Tolkien e per la Terra di Mezzo (difficile non pensarla come la Nuova Zelanda) alle stelle. Oltre alla ripubblicazione del romanzo su cui la nuova pellicola si basa, Lo Hobbit per l’appunto, riproposto da Bompiani in varie appetitose edizioni (me ne occuperò, ovviamente), le librerie sono già state riempite di volumi specificamente dedicati al film, come questa corposa guida ufficiale che presenta una copertina con il nostro caro Gandalf (l’attore Ian McKellen) che stringe la spada Glamdring. L’autore, Brian Sibley, aveva compiuto un lavoro analogo all’epoca del Signore degli Anelli (che non ho letto), ma questo libro mi ha ricordato molto un vecchio speciale uscito per la rivista Ciak in occasione dell’uscita del film Le due torri che, sebbene indugiasse ancora sulla discussione se Tolkien fosse di destra o di sinistra (molto in voga a quei tempi), risultava un prodotto decisamente ben fatto e gradevole. Leviamoci subito il dubbio: può questo libro essere indicato per tutti quei fanatici che vogliono sapere in anteprima cosa ci sarà nel film con un certo livello di dettaglio? La risposta è semplicissima: no. Tutto il libro, che presenta molte belle fotografie, è un gigantesco dietro le quinte che racconta la genesi e la realizzazione del film attraverso le parole del regista Peter Jackson (inizialmente avrebbe dovuto dirigerlo Guillermo Del Toro) e la presentazione degli attori e dei loro personaggi, passando per le scenografie (ispirate dai geniali illustratori Alan Lee e John Howe), i costumi, il trucco, i combattimenti e le armi, tanto che sembra di assistere agli extra di un DVD. Non si parla della trama, se non molto genericamente (si desume che Bilbo Baggins, lo hobbit protagonista, ha la casa invasa da un plotone di nani guidati dal mago Gandalf, parte con loro per un’avventura formidabile e che lungo la strada i nostri eroi incontreranno tre troll e un esercito di orchi, tutte cose molto generiche per chi non ha mai letto il libro), ma capisco che non si potesse raccontare molto di più, un po’ per mantenere desta l’attenzione per l’uscita del film, un po’ per non portare via potenziali clienti dagli altri libri ufficiali in questi stessi giorni (a cominciare da Il racconto del film di Jude Fisher). Inoltre, Brian Sibley parte sempre dal presupposto che i film de Lo Hobbit siano ancora due, mentre in realtà lo stesso Peter Jackson ha dichiarato qualche mese fa che il materiale girato è talmente tanto che i film sarebbero stati tre (da più parti è sorto il dubbio che quella dei tre film fosse sempre stata l’idea iniziale). Dove il volume si rivela interessante è nella spiegazione dello sviluppo dei personaggi, con gli sceneggiatori (lo stesso Peter Jackson insieme a Fran Walsh e Philippa Boyens) impegnati a spiegare come e perché hanno deciso di puntare molto sulla caratterizzazione dei tredici nani, ognuno con le proprie caratteristiche e con un proprio background socioculturale di appartenenza (si scopre anche che il personaggio di Ori è stato immaginato sulla base del provino dell’attore Adam Brown), per via della necessità di dotarsi di un variegato gruppo di personaggi scarsamente caratterizzati nell’originale e, per forza di cose, obbligati a rivaleggiare con i carismatici componenti a tutto tondo della Compagnia dell’Anello. Insomma, si intuisce la bontà dell’operazione compiuta, anche a dispetto delle critiche degli integerrimi puristi dell’opera tolkieniana che non mancheranno di recarsi al cinema muniti di matita rossa e blu per appuntare tutti gli errori e le discrepanze rispetto al romanzo originale (si è già registrata una petizione online a Peter Jackson perché eliminasse la scure piantata in fronte che si ritrova nel film il nano Bifur). Per il resto, grande atmosfera sul set, un cast adorante (ormai la trilogia cinematografica del Signore degli Anelli si è consolidata come parte integrante della nostra vita), una troupe di professionisti encomiabili, un grande fervore creativo e un’incredibile consapevolezza di stare realizzando un capolavoro. Due capitoli infine sono dedicati al 3D e alla ripresa digitale ad alta definizione a 48 fotogrammi al secondo, tecnica rivoluzionaria che sembra destinata a far risaltare ancora di più e in tutta la sua bellezza ogni singolo particolare dell’arredamento.

sabato 1 dicembre 2012

Neil Gaiman - Nessun dove

Inserito spesso tra autori più rappresentativi del cosiddetto gusto postmoderno, nel senso di una commistione audace e consapevole tra cultura “alta” e “di massa”, tra sublime e volgare, e tra registri, simboli e stili diversi all’interno della stessa opera, il geniale Neil Gaiman fornisce un’ulteriore prova della sua incredibile poliedricità di autore, narratore e sceneggiatore con questo Nessun dove, appartenente al filone dell’urban fantasy e basato sulla sceneggiatura dell’omonima serie televisiva (intitolata in originale Neverwhere) andata in ombra sulla BBC in sei puntate. Nell’introduzione lo stesso Gaiman spiega di aver voluto parlare di coloro che sono caduti in disgrazia e sono stati defraudati di tutto, trasfigurandoli attraverso lo specchio della fantasia: è così che egli si immagina un mondo sotterraneo, la Londra di Sotto, abitato da tutta quella categoria di persone che spesso sono chiamate come “invisibili” (e infatti del tutto invisibili alle persone di superficie) ma dove finiscono anche quegli abitanti della Londra di Sopra che cadono nelle pieghe e negli intervalli tra i due mondi. Per farlo racconta la storia del suo antieroe, Richard Mayhew, in tutto e per tutto l’uomo medio che all’inizio conduce una vita normale, vagamente stressata, con un lavoro e una fidanzata che cerca di portarlo ancora di più nella normalità: lui in realtà non è nemmeno nativo di Londra, ma ci si è trasferito per lavorare e il prologo del romanzo è proprio la sua festa d’addio, che si svolge nel pub di una cittadina qualsiasi. Il lato oscuro della città irrompe invece nella sua vita quando egli compie un gratuito atto di cavalleria, soccorrendo una ragazza. Questa, che si chiama Porta ed è in possesso della capacità di aprire qualunque porta o cancello, si rivela in realtà un’abitante della Londra di sotto ed è inseguita da due sicari (Mr Croup e Mr Vandemar) da quando è sfuggita a un complotto in cui le è morto il padre, un influente Lord di quel mondo che come estremo atto d’amore le ha lasciato un videomessaggio  con istruzioni cruciali per la sopravvivenza dell’unica figlia rimasta. Richard inizia così con lei un viaggio allucinante che è una sorta di iniziazione a questa vita sotterranea che si snoda lungo le fermate della metropolitana, che nella Londra di sotto assumono un significato letterale rispetto alla Londra di Sopra: Knightsbridge è pronunciato nightsbridge (ponte della notte) ed è avvolto da una misteriosa oscurità che esige un pedaggio; a Earl’s Court si entra davvero nella corte rinascimentale del Conte, situata in un vagone delle metropolitana con tanto di dignitari e buffone di turno; a Blackfriars ci sono davvero i Frati Neri e Richard deve superare una prova resistendo a subdole istigazioni al suicidio cui viene sottoposto dal suo doppio alla fermata della metropolitana. Anche se non mancano escursioni in superficie come a Embankment, sulla nave Belfast sul Tamigi e soprattutto da Harrod’s, in una memorabile riedizione cenciosa del mercato di Knightsbridge (il Mercato Fluttuante è un luogo di scambio a scadenza fissa in cui vige la tregua, figura centrale in Gaiman dal momento che si ritrova anche in Stardust). Nel loro viaggio Richard e Porta sono accompagnati da Hunter, la guardia del corpo cacciatrice che sogna di uccidere un giorno la Bestia di Londra (una leggenda metropolitana che, alla stregua del re alligatore delle fogne di New York e del grande orso di Berlino, da lei già affrontati e sconfitti, risulta vera come qualsiasi altra cosa nel mondo sotterraneo), dallo stralunato allevatore di uccelli Old Bayley (nome del tribunale di Londra), che vive sui tetti della città, e soprattutto dall’indimenticabile marchese De Carabas (che deve il suo nome al Gatto con gli stivali di Charles Perrault), raffinato, ambiguo e astuto, in grado di tenere in pugno gran parte del mondo sotterraneo con una rete di scambi di favori e ricatti, ma sempre benevolo e ironico nei confronti di Richard. È grazie al loro aiuto che i due giungono a scoprire che l’angelo Islington (per chi non se ne intendesse troppo di Londra, è bene specificare che nel sobborgo di Islington c’è appunto un quartiere chiamato Angel), presso il quale Porta sperava di trovare salvezza, si rivela il capo della cospirazione e che, in un drammatico e serrato confronto finale, precipita in un non-luogo illudendosi di ritornare in Paradiso. Quanto a Richard, colui che ha sconfitto la bestia e, di goffaggine in goffaggine, è divenuto l’eroe del mondo di sotto, grazie all’incredibile vittoria ottiene il cavalierato dalle mani del Conte e la possibilità di rientrare nella Londra di Sopra, ma riabituarsi alla routine quotidiana è impossibile e, dopo una breve parentesi, sceglie di tornare sotto terra, accolto e scortato dall’inappuntabile marchese De Carabas. Non ha imparato niente dall’esperienza della Londra di Sotto, se non la voglia di tornare a viverci e a emozionarsi nonostante abbia più volte rischiato la pelle, come capita a chiunque si innamori di una meravigliosa fiction. Con uno stile neutro, impermeabile e impassibile alle emozioni, che lascia accadere senza turbamenti fatti inspiegabili, associazioni imprevedibili, contrasti e sensazioni assurde, Gaiman ci conduce nei meandri di questo mondo oscuro ma poetico, capace di combinare e assemblare i pezzi della vita vera in un universo kitsch e postmoderno, che risulta veramente imperdibile per chi ama Londra o chi ci ha vissuto. Molti sono i riferimenti al mondo delle fiabe (Mr Croup e Mr Vandemar sono l’equivalente orrorifico del Gatto e la Volpe di Pinocchio, tanto che Richard quando li incontra avverte in loro un’aria feroce da volpe e da lupo, ma non bisogna dimenticare che quando Richard, parlando dell’angelo Islington, dice: «così lui racconterà a Porta della sua famiglia e dirà a me come tornare a casa», Lamia gli risponde scherzando: «E a te darà un cervello e a me un cuore», con ovvia allusione al Mago di Oz) e le citazioni abbondano, a partire dalle due guardie del British Museum che citano La maschera della Morte Rossa di Edgar Allan Poe, per arrivare al momento shakespeariano quando Richard cita il Macbeth con un «Allora, forza, Macduff» e poi tira i chiavistelli e oltrepassa una porta misteriosa senza sentire la chiosa colta dell’Abate dei Frati Neri: «Veramente è ‘in guardia, Macduff’. Ma non ho avuto il cuore di correggerlo. Sembra un così bravo giovane».