lunedì 29 aprile 2013

Daniel Falconer - Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato. Cronache dal set

L’uscita di un kolossal del calibro de Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, film di Peter Jackson atteso dai fan di Tolkien e della Terra di Mezzo per quasi dieci anni dopo la realizzazione dell’ultimo capitolo della saga del Signore degli Anelli, è coincisa con la pubblicazione di tutta una serie di opere a esso connesse volte a spiegarne e a celebrarne la realizzazione. Dopo la meritevole guida ufficiale al film di Brian Sibley, ecco giungere tra le mie mani questo fantastico volume di formato orizzontale, realizzato da Daniel Falconer, Senior Concept Designer della Weta Workshop, che va al di là del semplice “dietro le quinte” e contiene oltre mille immagini tra bozzetti, fotografie e illustrazioni eseguite dagli artisti che hanno lavorato alacremente per ridare vita alla Terra di Mezzo, non solo per quanto riguarda le scenografie e gli ambienti, ma anche e soprattutto per la caratterizzazione dei personaggi, con prove di acconciature, trucchi e abiti, con commenti e aneddoti sulla lavorazione. In apertura e in chiusura troviamo due bellissime sorprese, la mappa di Thorin in grandi dimensioni con tanto di rune naniche in inchiostro che brilla al buio e una copia ripiegata, anch’essa in grande formato, del contratto sottoscritto da Bilbo con i nani. Da ogni particolare traspare la cura maniacale per i dettagli che è stata riversata nel progetto, la stessa attenzione che, già durante la preparazione delle riprese della trilogia del Signore degli Anelli, fece sì che i lavori sul sito di Hobbiton (Hobbiville in italiano) iniziassero un anno prima, per permettere che i cambiamenti apportati al terreno si assestassero e le piante potessero mettere radici, dando così un aspetto appropriato e autenticamente “vissuto” alla cittadina hobbit. Per la scena con Frodo e Bilbo anziano che si vede a inizio film, per esempio, Jackson voleva che gli spettatori vedessero qualche oggetto e lo riconoscessero come un ricordo che lo hobbit aveva portato con sé dai suoi viaggi, e perciò Alan Lee (Concept Art Director del film, insieme all’altro grande illustratore tolkieniano, John Howe) ha disegnato un oggetto che poteva essere un dente, un artiglio o uno sperone, che faceva pensare a qualcosa di proveniente da un drago. Non solo: tutti i nani hanno i loro bicchieri, piatti e posate personali, alcuni disegnati in modo da dare l’impressione di oggetti trovati lungo qualche viaggio, con una loro età e una loro storia, a volte tenuti insieme provvisoriamente con un cordino, a suggerire il carattere errante della compagnia. Per non parlare delle armi: tutti coloro che hanno visto Il Signore degli Anelli si aspettavano che i nani portassero solo asce, ma nello Hobbit si è deciso di allargare il campo a tanti tipi di armi adatte ai diversi tipi di personaggi, tutte rigorosamente diverse e personalizzate, di forma, foggia e peso diversi, con scritte in lingue tolkieniane per conferire spessore e storicità alla vicenda, esattamente come accaduto per la vecchia trilogia. Anche qui, come nel libro di Sibley, si spiega la volontà di Jackson e dei suoi collaboratori (consapevoli del fatto che portare tredici nani anonimi tutti insieme sullo schermo non si sarebbe rivelata un’idea vincente) di dare una caratterizzazione definita a ciascuno dei tredici nani per renderli immediatamente riconoscibili anche dagli spettatori che non conoscono il romanzo originario, cosa non facile se si considera che, nel libro, gran parte dei nani è definita in modo vago e nominata solo sporadicamente, mentre il pubblico cinematografico conosce già l’aspetto dei nani dopo aver visto Gimli nel Signore degli Anelli, unico nano in una compagnia di molte razze e quindi fortemente caratterizzato (anche in senso macchiettistico e ironico, essendo l’unico compagno a prestarsi a incarnare il ruolo di spalla comica per sdrammatizzare molte situazioni). Forse non tutti lo giudicheranno un esperimento riuscito, ma basti pensare che per ognuno dei nani è stato costruito un background e uno stile ben preciso (basti pensare alla geniale barba di Bombur, a forma di cerchio ininterrotto, che riprende la silhouette sferica del personaggio): un esempio per tutti, per i fratelli Dori, Nori e Ori è stata inventata una storia in cui Nori ha lasciato la sua città per evitare guai e Ori, il cocco di mamma, lo ha seguito (e questo si concretizza visivamente nel suo taglio di capelli a scodella fatta ai figli dai genitori e nella barba a ciuffetti, tipica dei giovani); Dori, il più vecchio dei tre, è quello che si preoccupa per tutti e in realtà si è unito al gruppo soltanto per proteggere il fratello più piccolo, del quale si prende cura come una madre (e questo si rispecchia nel suo costume, il cui viola è un colore un po’ da vecchia signora, e nell’acconciatura estremamente complicata della sua barba, in accordo con la sua personalità estremamente pignola). Personalmente ho trovato fantastica la caratterizzazione di Thror, Re sotto la Montagna, reso come un sovrano monolitico e personificazione della montagna stessa, con motivi triangolari sulla barba e sulle vesti basate sull’inclinazione della montagna. È lampante lo sforzo fatto per mostrare cosa erano un tempo i nani della Terra di Mezzo e far capire perché Thorin sia così ansioso di riavere quello che gli spetti di diritto, e non si può non dare ragione a John Howe quando afferma che, come capitato con gli elfo del Signore degli Anelli che hanno contribuito a cambiare in modo decisivo il nostro immaginario collettivo al riguardo (nel senso che quando oggi noi pensiamo agli elfi pensiamo a quella cosa lì del Signore degli Anelli, non certo alle fiabe dell’epoca vittoriana), con la trilogia dello Hobbit Peter Jackson sta facendo la stessa cosa con i nani, costruendo per loro una cultura e una storia complete, oltre a una presenza che non hanno mai avuto in precedenza: «Il vagabondaggio a cui è costretto Thorin, i suoi ricordi della gloria passata, le ballate commoventi e nostalgiche ne fanno un popolo a sé, completo in ogni suo aspetto. Non è certo il gradevole mondo di Biancaneve ed è assai più antico dei Nibelunghi. I nani non saranno mai più quelli di una volta». Un lavoro pazzesco a mio avviso è stato fatto anche nella laida caratterizzazione del Grande Orco, al quale si è voluto aggiungere un leggero tocco di carisma e di magnetismo animale, «qualcosa che sta tra il proprietario-schiavista di una fiaba dickensiana e una rockstar alcolizzata in declino». Il libro ripercorre inoltre tutti i luoghi di questo primo film, illustrando le aggiunte apportate a casa Baggins (la sala da pranzo, la dispensa, la camera da letto, il mobilio), la casa di Radagast e Rhosgobel (un luogo stravagante e personale come del resto il suo abitatore, dichiaratamente simile a quella di Merlino nella Spada nella Roccia della Disney), i nuovi ambienti di Gran Burrone, le scale sull’abisso della città degli orchi e la Carrock, l’alta roccia sporgente che spunta dal terreno e sorge al confine delle terre di Beorn sulla quale giungono i nostri eroi trasportati dalle aquile alla fine del film e che, da un certo angolo, è modellata come il profilo di un orso (ricordiamo che è stata creata da Beorn, che è un uomo-orso). Scopriamo infine che è stata girata (e quindi verrà inclusa nell’Extended Edition del film in DVD) una scena il giorno del mercato all’esterno della Locanda del Drago Verde con spettacoli, bancarelle e hobbit che fanno picnic, oltre a quella del primo incontro di Gandalf e Bilbo con sua madre Belladonna e i Vecchi Hob, Gammidge e Tuc in occasione della festa di quest’ultimo mentre stanno chiacchierando davanti a un bicchiere di birra sotto una tenda all’aperto, con tanto di spettacolo di burattini e fuochi d’artificio: Gandalf fa un piccolo trucco magico e tira fuori dalla manica un drago, con tutti gli altri bambini che scappano via spaventati mentre Bilbo è l’unico a rimanere incuriosito dal drago, dando così allo stregone l’impressione di essere un piccolo hobbit particolarmente coraggioso. Immagino che queste scene non faranno per nulla piacere a quanti hanno già trovato l’inizio del film troppo lento, lungo e dispersivo a causa degli eccessivi flashback e prologhi, ma allo stesso modo non vedo come le stesse persone potrebbero essere interessate a comprare l’Extended Edition, che è piuttosto qualcosa per fan irriducibili e fanatici (come me). Inoltre, scopriamo che ci sarà uno scambio di battute tra Gloin e Legolas in cui l’elfo chiede qualcosa tipo “Chi è questo orrore?” guardando un suo medaglione e Gloin gli risponde si tratta di sua moglie (le donne nane hanno la barba, come ci si ricorderà da quanto detto nelle Due Torri da Gilmi, che di Gloin è per l’appunto figlio), mentre non ho capito se sarà compresa nell’Extended Edition o bisognerà aspettare l’uscita del secondo capitolo la scena della discesa di Gandalf e Radagast nelle cripte delle High Falls, dove si trovano le tombe entro cui gli uomini del passato hanno sigillato i resti dei morti servitori di Sauron, i Nazgul, dove nessuno avrebbe mai dovuto mettere piede. Insomma, a prescindere del giudizio di ognuno sul film, questo è il classico libro che non fa altro che confermare quanto lavoro ci sia alle spalle nella realizzazione di un film (e che film!) e quanto affascinante sia il lavoro dei creativi.

giovedì 11 aprile 2013

Marina Fiorato - La ladra della Primavera

Forse non tutti sanno che io, Marina Fiorato, l’ho intervistata. È successo due anni fa, per un articolo che è finito sulle due pubblicazioni NYC.IT e La Rivista di Venezia della Mazzanti Editori, per la quale lavoravo come redattore. Senza aver mai letto un suo romanzo, ma avendo scoperto che i suoi libri erano vendutissimi all’estero, cercai di contattare questa signora inglese mezza veneziana con la fissa per l’Italia e per il Rinascimento (come ogni brava inglese che si rispetti) al punto da sposarsi a Venezia, scoprendo con piacere quanto gentili riescono a essere gli stranieri quando li si contatta per chiedere un piacere: entrambe le sue due case editrici si dimostrarono celerissime e disponibilissime a fornirmi i contatti necessari, per non parlare della stessa Fiorato che accettò di rilasciarmi un’intervista senza sapere neanche chi fossi o aver mai sentito nominare l’editrice per cui lavoravo. Insomma, proprio un altro mondo. L’intervista in questione (disponibile QUI, per chi ne fosse interessato) fu fatta quindi con una serie di domande canoniche, desunte spulciando la rete alla ricerca di informazioni nel più breve tempo possibile. Alla fine, non venne neanche male, considerando la destinazione dell’articolo e lo spazio a disposizione. Ovviamente, sono sempre rimasto grato a questa scrittrice per quanto era riuscita a donarmi in quell’occasione, e mi sono sempre ripromesso di leggere un suo libro. Ecco quindi che, una volta trovato un suo romanzo tradotto in italiano, mi sono visto costretto a colmare una lacuna, in evidente debito di riconoscenza. Mal me ne incolse. La ladra della primavera è un libro terrificante. Senza esagerare, lo metto nella mia personale classifica dei peggiori orrori letterari che mi sono mai capitati tra le mani. Narra la storia di tal Luciana Vetra (che nel nome, che significa “nata dalla luce del vetro”, reca già impressa la sua origine veneziana), la cortigiana/prostituta più ambita nella Firenze del 1482 («abituata a essere scopata almeno cinque o sei volte al dì», chiarisce presentandosi) che si dice ignorante ma cita la Divina Commedia di Dante (chiamandola per l’appunto Divina nel 1482, quando questo aggettivo divenne di uso comune solo dalla metà del Cinquecento in poi grazie a Ludovico Dolce, quini non so se lo strafalcione sia da attribuire alla traduzione italiana o direttamente alla Fiorato, cosa che non ritengo improbabile), orina nell’Arno, ha espressioni da far invidia a un portuale e ha pochi ma ben radicati concetti di vita (si dice convinta che «la Chiesa non è altro che un grosso imbroglio» e che «persino chi ha risposto alla vocazione è capace di accantonare il Signore per quindici minuti e deliziarsi l’uccello»). Questo campione di finezza e fascino si ritrova per puro caso a fare da modella per il famoso quadro La primavera di Botticelli. Sembrerebbe questa la sua grande occasione, invece lui non solo si rifiuta di pagarla, ma dopo un violento litigio causato da alcune sue inconsapevoli parole, per giunta, la caccia dallo studio. Per vendicarsi dell’affronto, la giovane ruba uno dei disegni preparatori del dipinto (d’altra parte, chi in casa d’altri non aprirebbe un pannello di legno apparentemente sconnesso e ci ruberebbe qualcosa da dentro?), ma purtroppo per lei questo gesto si rivelerà il più sconsiderato e funesto della sua vita: in breve la sventurata si rende conto di essere diventata l’obiettivo di un gruppo di uomini potenti e senza scrupoli, naturalmente disposti a tutto (leggi: a uccidere) pur di recuperare il prezioso disegno o, nel peggiore dei casi, di chiudere la bocca a Luciana. In breve le vengono assassinati (sempre in un lago di sangue) la compagna di appartamento e il facoltoso amante, tanto che non le resta altra via che chiedere aiuto a un giovane ardimentoso e aspirante frate francescano, Guido, che tanto l’ha colpita per la sua bellezza e che ha invano provocato senza ottenere effetto («Se i suoi pedi erano così grandi, chissà il pisello…», maligna beffarda). Così si reca nella chiesa di Santa Croce («Persino una troia come me rimase a bocca aperta», ammette a malincuore al suo interno) ma anche lì i misteriosi sicari colpiscono senza pietà (questa volta a farne le spese è il povero frate bibliotecario) e costringono Luciana e Guido (ben consapevoli che soltanto svelando il mistero del quadro potranno avere salva la vita) a lasciare di corsa Firenze e a cercare riparo a Pisa, dove risiede la ricca e nobile famiglia di lui (suo zio è nientemeno che Sua Signoria Silvio della Gherardesca della Torre) e dove arrivano proprio in occasione del Gioco del Ponte (un po’ di folklore locale non fa mai male). Mostrano al nobile zio il disegno e lo condannano così a morte certa: viene infatti avvelenato nello spazio di una notte proprio quando la nostra Luciana si sta illudendo di poterlo sedurre («Non ero abituata a restare senza uccello per così tanto tempo», precisa nel suo solito stile), mentre la Signoria passa nelle mani del suo debosciato e malefico figlio Niccolò (un tipetto davvero a modo che si presenta in scena mentre si sta facendo praticare una fellatio da un bambino di colore). I due scappano ancora, si trovano prigionieri su una nave, sfuggono a un naufragio e approdano nel regno di Napoli dove Guido si spaccia per suo cugino Niccolò presso la corte di re Ferrante. Ed è qui che scoprono (attraverso le solite modalità tipiche di questi romanzi un po’ storici e un po’ thriller, vale a dire una via di mezzo tra le avventure grafiche alla Broken Sword e le caccie al tesoro intraprese in giro per il mondo da Zio Paperone con Archimede, Paperino e Qui, Quo e Qua) nientemeno che un complotto tra varie signorie d’Italia per uccidere Lorenzo il Magnifico, complotto che vede in prima linea papa Sisto IV che intende vendicare la fallita congiura dei Pazzi e che intende utilizzare in suo favore le nozze di Pierfrancesco de’ Medici con Semiramide Appiano (neanche sto a spiegare che, ovviamente, tutti gli elementi sono contenuti nella Primavera di Botticelli, basta essere in possesso della giusta chiave per decifrarli). Purtroppo per loro le cose non stanno nemmeno così: Guido viene arrestato (ma tornerà; ne potevamo forse dubitare?), mentre Luciana scopre di essere la figlia abbandonata alla nascita del doge Giovanni Mocenigo, di essere promessa a Niccolò della Torre (quello della fellatio) e che sua madre, la Dogaressa, è un’algida bastarda che le spiega nei minimi dettagli come tornare vergine (basta una piccola quantità di gelatina di maiale che, inserita nel suo organo femminile la notte prima delle nozze, è in grado di formare, nel giro di qualche ora, una nuova pelle pronta a essere rotta) e fa scorrere i due lati di una lama assaporando il sangue di un uomo a cui ha appena fatto tagliare i testicoli e gli occhi (è bene chiarire che la moglie di Giovanni Mocenigo, Taddea Michiel, morì di peste nel 1479 e non si macchiò mai, per quanto ci è dato sapere, di simili nefandezze). A questo punto la storia deraglia definitivamente in un epico tour de force dell’assurdo che scorre i personaggi famosi dell’epoca (Poliziano, Leonardo da Vinci e Cristoforo Colombo, quest’ultimo addirittura cartografo del doge e istruttore di Luciana!) e tocca tutti i centri del Rinascimento italiano: oltre alle già citate Firenze, Pisa e Napoli (abbandonata durante un grandioso terremoto), ci sono Roma con Castel Sant’Angelo e la Cappella Sistina nuova di zecca, Venezia con la basilica di San Marco, Bolzano con un castello medievale interamente affrescato, Genova con la Lanterna. A Milano Luciana sarà invece prigioniera in una torre del Castello Sforzesco, visiterà la cripta di Sant’Ambrogio e vedrà il Nehustan, che per molto tempo è stato considerato come l’autentico bastone di Mosè mutatosi in serpente. Il tutto per scoprire che il misterioso complotto celato nel dipinto di Botticelli è volto a riunire, proprio su iniziativa di Lorenzo de’ Medici, tutta l’Italia (senza le isole ma compresa la Valle d’Aosta, come si evince chiaramente da una mappa presente a un certo punto nel testo!) sotto un’unica bandiera e un unico grande stato, con una propria moneta, una propria flotta e un proprio esercito, capace di rinverdire i fasti dell’impero romano e a dare alla penisola il suo giusto spazio internazionale. Da veneziano, mi piange il cuore nel vedere definito il Corno Ducale un “cappello cazzuto”, mentre è assolutamente risibile che nel 1492 Luciana Vetra si riferisca alla scoperta di Cristoforo Colombo come a “un nuovo continente”. L’unica parvenza d’idea da parte dell’autrice è cercare di descrivere la contraddizione di un’epoca che mescolava con ardore e ostentazione raffinatezza e sporcizia, bellezza formale e miseria, cosa che, almeno nelle intenzioni, si riflette nei due protagonisti fuggiaschi («Napoli era il luogo dei contrasti, una città stracolma di feccia e di fede in ugual misura. Come fratello Guido e io: il fedele e la feccia, uniti dal caso, che tiravamo insieme come meglio potevamo»), ma è proprio questa velleitaria pretenziosità a rendere ancor più ridicolo il tutto. Ovviamente l’ininterrotto dialogo tra i due ci accompagna lungo tutto il libro e dai loro scambi di battute emergono le differenti personalità: lui precisino e devoto che argomenta sempre in maniera colta, accademica e fine (risultando pedante), lei che invece si pone in modo istintivo, diretto e volgare. Talebano tutto d’un pezzo come novizio francescano, lui si dimostra integralista e monolitico anche quando, deluso dalle malefatte del papa e della Chiesa, rinuncia alla sua fede come un Magdi Allam qualsiasi. Forse la cosa più interessante è l’inquietante presenza di Ciriaco Melanchthon, ex membro del Sant’Uffizio e confessore della famiglia Medici che ora è consumato dalla lebbra, va in giro bendato e si è guadagnato la fama di sicario più spietato e affidabile del mondo: ecco, la sua dipartita ha causato in me un qualche motivo di tristezza. Mai, però, quanto la lettura di questo romanzo.

domenica 7 aprile 2013

Irène Némirovsky - Il malinteso

Secondo romanzo della Némirovsky per me, questa volta il suo primo, scritto quand’era ventitreenne e stupefacente proprio per questo, per la sua acutezza psicologica e la sua sensibilità nello scandagliare il pensiero e l’animo umano. È la storia di un amore adulterino, quello tra Yves e Denise: il primo un giovane scapolo reduce dalla guerra, la seconda una giovane madre sposata con un uomo a cui è legata da un affetto tiepido e un po’ annoiato. Quando il marito Jessaint glielo presenta sulla spiaggia di Hendaye (sulla costa basca) come vicino di branda nell’ospedale militare, Yves le appare come un giovanotto elegante e raffinato e, dal momento che alloggia nel suo stesso albergo, crede che sia ricco quanto il marito: in breve il marito viene richiamato a Londra da affari urgenti e Denise, per la prima volta in vita sua, scopre l’amore, anzi, da quel momento non c’è stato che Yves nella sua vita. La seconda parte del romanzo coincide con il ritorno a Parigi e il brusco risveglio: qui la vita (la vacanza è finita) presenta il conto e la differenza di ceto tra i due amanti emergono con chiarezza. Denise scopre che Yves non è affatto ricco, anzi, lui che è cresciuto in un’epoca in cui «c’erano ancora persone che potevano permettersi di non fare niente», dopo la guerra si è reso conto di aver perduto tutto ed è stato costretto a trovare un impiego che lo avvilisce e lo mortifica condannandolo a una serie di doveri, pratiche e conti da pagare, oltre che alla compagnia di colleghi che, diversamente da sé, sembrano sempre felici. Oltre alla differenza di ceto tra i due amanti si alzano inoltre barriere fatte di giornate diverse, stati d’animo differenti e desideri e bisogni discrepanti: Denise cerca la passione, l’amore assoluto, il bisogno della conferma continua, la complementarietà a tutti i costi, mentre Yves in lei cerca il riposo e la serenità dei sentimenti, in quanto, a differenza degli uomini della generazione precedente (che avevano bisogno di emozioni, come suo padre sciupafemmine che s’innamorava ogni volta «per sempre» e che credeva di cogliere «il senso della vita negli occhi delle amanti»), i reduci di guerra («Per chi ha visto lo sguardo dei moribondi […] la donna non ha né misteri né segreto né attrattive») chiedono all’amore sicurezza e relax. Dal buon senso pratico e borghese della madre (che le dice candidamente: «L’amore, mia cara, è un sentimento di lusso!») Denise dovrebbe imparare che l’eccesso di amore può soffocare, ma la soluzione che lei trova a questo “eccesso”, il tradimento, è diversa e funesta. Struggenti la descrizione della pena della protagonista che aspetta l’amato facendo le peggiori congetture, quella della scoperta del tradimento da parte di Yves a cui crolla il mondo addosso e il finale in cui Denise si rende conto di cosa sia la felicità solo quando questa, ormai, è cosa già passata.

mercoledì 3 aprile 2013

Franz Xavier Weiser - Luce delle montagne

Ne ho curato l’edizione ormai tre mesi fa (e per scriverne ne ho aspettato la pubblicazione), ma questo breve romanzo di formazione per ragazzi scritto nel 1947 da tale sconosciuto Franz Xavier Weiser (gesuita austriaco trasferito negli Stati Uniti con un particolare occhio di riguardo per i più giovani) ha lasciato in me sensazioni abbastanza buone. La trama vede il sedicenne Fritz terrorizzato alla notizia che il cugino Hans verrà a Vienna dal Tirolo per vivere a casa sua, dal momento che lo considera un rozzo montanaro bigotto e noioso, che gli rovinerà senz’altro la reputazione di fronte ai compagni di scuola. E il comportamento di Hans non fa che confermare i suoi peggiori sospetti: il cugino sembra infatti interessato solo a seguire in tutto gli insegnamenti di Cristo per divenire un giovane forte ed eroico, capace di portare avanti, a ogni costo, le sue convinzioni religiose e di mantenersi puro senza cedere alle tentazioni dell’adolescenza, dritto lungo la via che lo condurrà (secondo lui) alla vocazione sacerdotale (cosa che lo rende libero anche di fronte all’amore di una ragazza). Così facendo, non solo Hans fronteggia vittoriosamente un professore in malafede e resiste alle terribili insidie architettate dai malvagi compagni di classe (in particolare l’anima nera Kurt Berner), ma soprattutto fornisce una testimonianza per ricondurre Fritz e suo fratello Otto alla fede. Si tratta di un racconto piuttosto all’antica e forse leggermente didascalico (per non parlare del finale tragico e leggermente scontato, specie se letto alla luce della fede eroica concepita dell’autore), capace però di parlare agli adolescenti nella loro realtà quotidiana e concreta, in famiglia e a scuola: se la personalità di Hans è un po’ tagliata con l’accetta, quella di Fritz è invece ondivaga e fragile, tanto che egli vorrebbe affrancarsi dalla nefasta influenza dei compagni ma non riesce mai a rompere con la pornografia. Certo oggi fa un po’ effetto una vicenda nella quale i ragazzi non passano il tempo a messaggiare al telefonino, ma Weiser è molto attuale nel parlare di classi dove gli studenti costituiscono gruppi politici sul modello del mondo degli adulti e di famiglie nelle quali i figli sono lasciati totalmente a se stessi (è così nella famiglia di Fritz e Otto, con il padre che appare sì e no due volte, ma anche in quella snob e alto-borghese di Berner), tanto che il contrasto con la famiglia tirolese di Hans (montanara e non cittadina, e ancora attenta ai valori e alla religione) è stridente.

lunedì 1 aprile 2013

Irène Némirovsky - L'affare Kurilov

Irène Némirovsky va molto di moda. I suoi libri occupano gli scaffali più in vista delle librerie e vengono distribuiti coi quotidiani. È bene chiarire però che non si tratta di una new sensation editoriale, anzi: questa scrittrice, ucraina di nascita e di religione ebraica, poi convertitasi al cattolicesimo e attiva in Francia, prima di venire deportata dai nazisti e trovare la morte ad Auschwitz, è considerata una delle più grandi scrittrici dello scorso secolo. Personalmente non la conoscevo e ho deciso di cominciare con questo romanzo ambientato nella Russia dei primi anni del Novecento, in cui il regime zarista cominciava crollare sotto le istanze dei rivoluzionari. Dopo una breve introduzione ambientata in un caffè di Nizza, l’azione si sposta trent’anni indietro e comincia con il racconto in prima persona di Lev M., orfano di due rivoluzionari russi, allevato in Svizzera a spese del partito e cresciuto con l’idea che «una rivoluzione sociale fosse inevitabile, necessaria», al quale viene affidata la missione di eliminare, Valerican Aleksandrovič Kurilov, l’odiato ministro della Pubblica Istruzione del regime zarista. Nel gennaio 1903 Lev, all’epoca ventiduenne, assume dunque la falsa identità del dottor Marcel Legrand con l’obiettivo di entrare nella cerchia di quello che gli studenti universitari hanno chiamato il Pescecane (perché è «feroce e vorace» e non esita a far sparare sugli studenti, né a farli arrestare, processare e giustiziare), conquistarne la fiducia e infine ucciderlo in mezzo alla folla, nel modo più spettacolare possibile, il 3 ottobre 1903, in occasione della visita a Pietroburgo di un importante capo di Stato straniero. Quando finto dottore viene chiamato con grande urgenza, a notte fonda, perché il ministro è in preda a dolori insopportabili, è chiaro che le cose prenderanno subito una piega diversa da quanto teorizzato: dal primo sguardo, il volto di Kurilov gli sembra «più molle, più fragile, più vulnerabile» e presto capisce che il ministro (un uomo grasso, con il ventre enorme, gli occhi dilatati e la carnagione giallastra) è anche gravemente malato di cancro al fegato. Vivendo costantemente al suo fianco e prestandogli le sue cure, Lev M. ne diventa quasi il confidente. Scopre che il ministro si è reso responsabile di uccisioni di studenti durante le rivolte di piazza, ma anche che quegli studenti sono stati sobillati da rivoluzionari che avevano tutto l’interesse nello spargere sangue per alzare la tensione. Kurilov è un malato orgoglioso che rifiuta di arrendersi: disprezza personalmente lo zar ma si sente chiamato al compito ingrato e necessario di servirlo per mantenere l’ordine e servire la Russia; adora il potere ma quasi non si accorge di metterlo in pericolo pur di aiutare una vedova ebrea, e finisce per rinunciare senza esitazioni alla poltrona di ministro quando Nicola II, seguendo i consigli del perfido barone Dahl, lo mette di fronte all’alternativa: le dimissioni o il divorzio dalla sconvenente seconda moglie Marguerite Eduardovna, una ex cocotte francese  che i sovrani si rifiutano di ricevere. Lev M., cresciuto nella convinzione che l’assassinio del ministro fosse legittima e che l’ideale della sua missione lo assolvesse, comincia a provare pietà per quel vecchio arrogante e ferito vittima degli intrighi di corte e di rende conto che, morto un Kurilov, ne arriverà un altro, che anzi già preme per prenderne il posto. Chiede così al capo dell’organizzazione terroristica di rinunciare, ma la risposta di questi è agghiacciante: «Non uccidiamo l’uomo, ma il regime». Di fronte all’esautorazione del ministro, Leon si sente sollevato perché, se il Pescecane non è più tale, lui non dovrà procedere all’attentato: e invece, una serie di coincidenze e un colpo di scena finale riportano Kurilov di nuovo alla guida del ministero zarista, condannando lui a subire e il rivoluzionario ad attuare l’assassinio politico. L’autrice affronta così il classico e fin troppo abusato tema del rapporto tra vittima e carnefice (qui accumunati dalla malattia, il ministro afflitto dal cancro, Lev M. dalla tubercolosi), ma lo fa dal punto di vista umano, con la convinzione che le cose e gli uomini sono più complicati di quanto appaiono. Non è però buonismo: Kurilov non smette mai di essere quello che è davvero, cioè un politico interessato solo al potere personale e ai propri interessi (perché il potere è l’ossessione che lo tiene in vita), e le ragioni della politica non si fermano davanti a niente (né da parte del ministro, né da quella dei rivoluzionari, pronti a sacrificare tutto, anche gli uomini innocenti della scorta, in nome di un’ideale). Decisamente consigliato.