mercoledì 15 gennaio 2014

Alan K. Baker - L'ambasciatore di Marte alla corte della Regina Vittoria

Un po’ sulla falsariga del secondo volume della Lega degli straordinari gentlemen, questo romanzo (ambientato nel più classico degli scenari steampunk, la Londra di fine XIX secolo) di Alan K. Baker riprende l’idea dell’invasione aliena della Terra ma questa volta modificando la variante marziani: gli abitanti del pianeta rosso, infatti, sono in questo caso civili e pacifici, e hanno stabilito con i terrestri relazioni diplomatiche e scambi di tecnologia (tripodi wellsiani con funzione di trasporto pubblico, per esempio, e cure ringiovanenti per la regina Vittoria). Quest’insolita alleanza è però messa in pericolo dall’omicidio dell’ambasciatore marziano a Londra, soffocato dalla presenza di acari nel suo respiratore (obbligatorio dal momento che l’atmosfera terrestre è velenosa per gli abitanti di Marte), un delitto che sembra per giunta collegarsi all’infezione che centinaia di migliaia di anni prima ha quasi sterminato la popolazione marziana. Questo dà il via a un’avventura che vede i protagonisti Thomas Blackwood e Lady Sophia Harrington (i quali danno il nome alla serie di romanzi Blackwood & Harrington Mystery, di cui questo è il primo capitolo), il primo agente speciale dell’Ufficio Affari Clandestini di Sua Maestà, la seconda segretaria della Società per la Ricerca Psichica, avviare un’indagine per scongiurare una guerra planetaria e rinsaldare l’alleanza tra la Terra e Marte contro terribili nemici (i venusiani) celati nelle paurose profondità dello spazio che ricordano immediatamente i Grandi Antichi di Lovecraft. Pieno di arguzia e di mestiere nel rielaborare le fonti più o meno dichiarate (H.G. Wells, E.R. Burroughs e C.A. Smith), il romanzo ha alcune trovate indubbiamente ingegnose e divertenti, soprattutto a livello di ambientazione: Londra si prepara a celebrare la costruzione del Nuovo Crystal Palace e un prossimo viaggio sulla Luna in pieno Verne-style; i Cavalieri Templari sono utilizzati come forza di polizia; le indagini si avvalgono delle facoltà medianiche di sensitivi in grado di esplorare altri pianeti con le loro menti; esseri fatati lavorano all’interno dei cogitatori, l’equivalente dei nostri moderni computer (anch’essi infettati da virus, in questo caso da un potente spirito jinn), in grado di accedere a una specie di internet alternativo, un archivio magico (i Registri Akashici) posto oltre i confini del pianeta; il palazzo del governo marziano corrisponde al volto osservato dalla sonda Viking I e il celebre esperimento di Michelson e Morley, nell’universo alternativo di Baker, non ha dimostrato l’inesistenza dell’etere ma anzi ha confermato il suo contrario, così che si stanno costruendo i primi dirigibili eterici per viaggiare nello spazio. Ci sono poi elementi più fantastici come la presenza del popolo delle fate, guidato da Oberon e Titania, che funzionano meno. Il romanzo quindi diverte nella misura in cui il lettore accetta di stare al gioco, ma non riesce a sfruttare fino in fondo le potenzialità offerte dall’ambientazione e finisce per incardinarsi sui binari del prevedibile e del buonista, con acclusa morale ecologista sul progresso consapevole e della paura del diverso (che persiste e torna prepotentemente quando subentra il dubbio). I personaggi sono classicamente buoni o cattivi e la narrazione procede spedita affidandosi spesso ai dialoghi, fino al classico finale fracassone che assomiglia paurosamente a una versione steampunk di un film di James Bond. I due protagonisti (qualcuno nutre dei dubbi sul fatto che nei prossimi capitoli si innamoreranno?), più che Sherlock Holmes e Watson (giusto perché in copertina campeggia la scritta “un mistero alla Sherlock Holmes”), ricordano John Stead ed Emma Peel, gli agenti speciali della serie The Avengers, e forse non a caso il loro riferimento governativo si chiama “il Nonno”. Non manca il cattivo logorroico che, per rispettare il suo topos letterario, snocciola alla bella eroina tutti i suoi piani nel più minimo dettaglio, con acclusa risata maniacale, e si accompagna a uno scherano turpe e orribile a vedersi, il venusiano Indrid Cold, famoso come Jack il Saltatore (il buon vecchio Spring-heeled Jack), creatura del folklore inglese del periodo vittoriano ed eroe negativo della letteratura popolare insieme a Varney il vampiro. Per quanto mi riguarda, un’occasione sprecata.

domenica 12 gennaio 2014

Alan Moore, Kevin O'Neill - La lega degli Straordinari Gentleman Vol. 2. Luglio 1898

Secondo volume per il geniale parto della mente di Alan Moore La lega degli straordinari gentlemen, la cui vicenda si innesta esattamente dove avevamo lasciato i nostri eroi (Mina Murray da Dracula di Bram Stoker, Allan Quatermain dal famoso ciclo di romanzi di H.R. Haggard di cui è protagonista, il Capitano Nemo da Ventimila leghe sotto i mari e L’isola misteriosa di Jules Verne, Dr. Jeckyll/Mr. Hyde di Stevenson e l'Uomo Invisibile di Wells) alla fine della prima avventura, cioè alle prese con inquietanti sfere di fuoco che piovono dal cielo, e precisamente da Marte, come ampiamente prefigurato nel corso di tutto il precedente racconto: sono gli alieni della Guerra dei Mondi di H.G. Wells che intendono conquistare la terra. Dopo alcuni tentativi di fermare (o almeno circoscrivere) l'invasione, e soprattutto dopo il tradimento dell’Uomo Invisibile, il gruppo dei nostri si scinde: da una parte il Capitano Nemo e Mr. Hyde che fanno di tutto per arrestare gli alieni, e dall'altra Allan Quatermain e Mina Murray, che vengono mandati a cercare l'arma che potrà distruggere gli alieni, prodotta dal mitico Dottor Moreau inventato sempre da Wells (quello che sognava di umanizzare gli animali attraverso la scienza della vivisezione e gli innesti chirurgici). Ovviamente, la formula non cambia: ottimamente assistito dai disegni di Kevin O’Neill, Moore prende moltissimi personaggi della storia della narrativa e assume l’universo letterario come reale, cosicché i protagonisti dell’immaginario collettivo possono coesistere tutti allo stesso tempo e interagire tra loro in maniera del tutto credibile (c’è anche Prendrick, il naufrago dell’Isola del Dottor Moreau che alla fine, unico sopravvissuto dall’eccidio degli animali ibridi, è creduto da tutti pazzo, oltre ad alcune cavie e un omaggio al Signor Rospo del Vento tra i salici di Kenneth Grahame, che qui guida l’automobile sull’isola; nel prologo appaiono inoltre gli eroi terrestri gli eroi terrestri di adozione marziana John Carter di Edgar Rice Burroughs e Gullivar Jones di Edwin Lester Arnold, e già bastano queste poche pagine per rendere il tutto più affascinante rispetto al piattissimo film John Carter di Marte della Disney di qualche anno fa). Il gioco citazionista non è però sterile e fine a se stesso, perché Moore reinterpreta e stravolge le citazioni a suo uso e consumo: per esempio, mentre nel romanzo di Wells gli alieni muoiono a causa di malattie terrestri a cui non sono abituati, qui il virus è un prodotto del governo britannico, un’arma batteriologica che viene sparata contro gli alieni con l’artiglieria, e i civili morti vengono spacciati per vittime dei marziani. Allo stesso modo i personaggi non restano le controparti letterarie in uno scenario diverso, ma evolvono in maniera coerente e credibile: basti pensare a Hyde, che mostra una sadica e cinica ironia per tutta la storia («So che aspetto hanno i bambini, Nemo. Ne ho grattati via spesso dagli stivali») ma giunge a liberarsi dell’Uomo Invisibile per vendicare Mina e a sacrificarsi per dare tempo ai suoi compagni. Resta la struttura da (finto) libro di avventure a puntate per ragazzi di fine Ottocento, con le solite sardoniche massime di spirito inneggianti all’ardimento («Non mancate di comprare il nostro numero conclusivo, a meno che, ovviamente, non siate una checca, un codardo, o una ragazza») e alla moralità vittoriana («Guardate, bambini, gli infelici fornicatori nel loro triste letto di peccato, e imparate dal loro vergognoso esempio. Se questa squallida lezione non vi inducesse a una vita di astinenza, non temete, ci sarà un’altra analoga istruzione nel nostro prossimo, moralizzante numero», il tutto dopo aver mostrato un amplesso tra Allain Quatermain e Mina Murray), per non parlare delle spassosissime finte pubblicità (come quella della “macchina sfoglia-oscenità” per evitare il tormento dei volta-pagina), la favola di ammonimento, la cartolina piccante da inizio XX secolo e dei giochi da rivista di enigmistica (il disegno da colorare senza uscire dai bordi, le indicazioni su come costruire il proprio Nautilus di carta, la pagina in cui ritrovare gli animali perduti del Dottor Moreau). Come accaduto nel primo volume per il racconto Allan e il velo lacerato, anche qui in conclusione è posto un contributo in prosa, questa volta ancora più ardito e ambizioso: si tratta de L’almanacco del nuovo viaggiatore, una relazione sui vari continenti della Terra scritta da Mina Murray a partire dalle esperienze sue e dei suoi compagni della Lega, una sorta di guida turistica di luoghi del tutto inesistenti ma creati dalla fantasia di scrittori e letterati di ogni epoca e paese, un geniale concentrato di cultura che mescola folklore e tradizione (occidentale e orientale), leggende arturiane e La tempesta di Shakespeare, l’Odissea e Alice nel paese delle meraviglie, i romanzi d’avventura e quelli gotici, Arsenio Lupin e Lovecraft, il paese di Bengodi (e l’elitropia che rende invisibili) e Zenda (quella del famoso Prigioniero), Thule e Shangri-La, Iperborea e Xanadu, Sleepy Hollow e Arkham, Saturnino Farandola (quello di Albert Robida) e Laputa, Twin Peaks (dal telefilm di Lynch) e le due regioni rivali di Freedonia e Sylviania (dal film La guerra lampo dei Fratelli Marx), Aurie Goldfinger (uno dei più famosi nemici dell’Agente 007) e il Grande Lebowski (dal film dei fratelli Coen). Veramente imperdibile.

martedì 7 gennaio 2014

Alan Moore, Kevin O'Neill - La lega degli Straordinari Gentleman Vol. 1. Maggio 1898

Pessimamente servita una decina di anni fa da uno dei più mediocri film della storia del cinema, quel La leggenda degli uomini stroardinari che ha sancito la fine della carriera cinematografica del mitico Sean Connery, la saga a fumetti di Alan Moore (testi) e Kevin O’Neill (disegni) rivive in questa fantastica edizione della Bao Publishing in cartonato con sovraccoperta (che presenta una cover diversa dalla copertina). A differenza della profondità delle altre opere del geniale Moore, non si mette in crisi (reinventandolo) il ruolo dei supereroi come in Watchmen, non si indaga il mistero del male come in From Hell, non si esalta lo spirito anarchico contro una dittatura spersonalizzante come in V For VendettaLa lega degli Straordinari Gentlemen è un’opera più leggera concepita come un (finto) romanzo avventuroso a puntate di fine Ottocento per ragazzi, che riprende ed esalta il gusto citazionista del suo autore al punto di configurarsi come un pastiche letterario postmoderno un po’ sulla falsariga di Anno Dracula i Kim Newman e una versione vittoriana della Justice League che prende vari protagonisti della letteratura popolare del periodo e li mette in un team di supereroi per conto del servizio segreto inglese nella Londra del 1898 in chiave steampunk: Mina Murray, l’eroina del Dracula di Bram Stoker, Allan Quatermain, protagonista dei libri di avventure di Henry Rider Haggard (di cui il più famoso è Le miniere di re Salomone) qui reso da Moore tossicodipendente dall’oppio, il Capitano Nemo con il suo sommergibile Nautilus da Ventimila leghe sotto i mari e L’isola misteriosa di Jules Verne, l’Uomo Invisibile di Herbert George Wells e il dottor Jekyll (con annesso Mr. Hyde) di Robert Louis Stevenson. La loro missione è recuperare una materia speciale inventata da uno scienziato chiamata cavorite (nell’opera di H.G. Wells I primi uomini sulla Luna questa materia inerte annulla la gravità e permette a grandi macchine di potersi librare nell’aria) che è stata rubata da un misterioso personaggio chiamato “il dottore” e che è un cinese, non specificato per motivi di copyright ma che è evidentemente Fu Manchu, il genio del male inventato da Sax Rohmer, che intende creare una sua corazzata volante per poter distruggere il West End. Spetta al gruppo di supereroi governativi recuperare la cavorite e consegnarla al loro portavoce, un personaggio che di cognome fa Bond, Campion Bond, inventato appositamente come richiamo alla letteratura della celebre spia inventata da Ian Fleming. A sua volta Bond risponde al capo dei servizi segreti che è M, esattamente come nella serie di 007, ma questo M è James Moriarty, la celebre nemesi di Sherlock Holmes che si credeva morto nel celebre scontro delle cascate di Reichenbach in Svizzera ma che in realtà è vivo e lavora come capo del servizio segreto ed è intenzionato a distruggere l’East End. Tutta l’opera è grondante di riferimenti e citazioni, non solo nei personaggi principali: in una scena ambientata a Parigi compare un invecchiato Auguste Dupin, il celebre investigatore inventato da Edgar Allan Poe che rimanda al più celebre dei racconti di cui è protagonista, I delitti della Rue Morgue; c’è l’ispettore Donovan, creato da Joyce Emmerson Preston Maddock; sul Nautilus si imbarca l’Ismaele di Moby Dick di Melville; compaiono la dominatrice Rosa Coote e il suo collegio, Olivia Chancellor da Le bostoniane di Henry James, una Pollyanna adolescente che l’Uomo Invisibile cerca di stuprare, Fagin e la sua compagnia di giovani ladri da strada direttamente dall’Oliver Twist di Dickens. La maestria di Moore si vede nell’assoluto rispetto per le figure di riferimento: il capitano Nemo è un principe indiano ribellatosi all’impero britannico, proprio come spiegato nell’Isola misteriosa di Verne, mentre Mister Hyde è ritratto come un gigante animalesco dalla forza sovrumana, vero responsabile dei delitti della Rue Morgue, e il suo dualismo con il gentile Jeckyll richiama quello tra Bruce Banner e l’incredibile Hulk, ispirato tra l’altro proprio alla storia di Stevenson. Il tutto, con una grande gestione dei personaggi (soprattutto nelle loro interazioni, tenendo conto che si tratta di fieri individualisti dall’ambiguo passato) e un sarcasmo tipicamente british, splendidamente assistito dai disegni di Kevin O’Neill, a metà tra il realismo e la caricatura, rispettosi dell’iconografia tradizionale dei personaggi e perfetti per rappresentare una Londra onirica e allo stesso tempo ultratecnologica: è possibile, però, che chi non possiede la cultura del suo autore o non ne condivida il gusto citazionista possa smarrirsi, perché richiede una buona dose di complicità da parte del lettore per essere apprezzata in pieno. In chiusura, oltre a finti opuscoli enciclopedici, ritratti da colorare e perfino il gioco-labirinto di Allan Quatermain da rubrica o settimanale di enigmistica, è posto il racconto (sempre di Moore) Allan e il velo lacerato che, con uno stile arcaico e compiaciuto e tramite le visioni di un Quatermain sotto l’effetto di una “droga temporale”, connette le premesse delle vicende dei gentlemen alle minacce cosmiche di Lovecraft ai viaggi wellsiani nel tempo, alla mitologia del John Carter di Marte di Burroughs e all’Aleph di Borges.

sabato 4 gennaio 2014

Brian Sibley - Lo Hobbit - La desolazione di Smaug. La guida ufficiale al film

Non si può negare che il secondo capitolo della trilogia de Lo Hobbit di Peter Jackson abbia fatto discutere e dividere gli spettatori. C’è chi lo ha trovato noioso, chi invece eccessivamente tonitruante per aver insistito sulle sequenze spettacolari da videogioco, chi l’ha accusato di ogni possibile efferatezza per aver modificato la storia originale e tradito lo spirito di Tolkien (soprattutto per la presenza dell’elfa Tauriel, personaggio più simile alla Uma Thurman del tarantiniano Kill Bill che a un personaggio tolkieniano, ma anche per la platonica storia d’amore tra questa e il nano Kili e il confronto tra i nani e il drago Smaug nel ventre della montagna), chi ha lamentato la mancanza di questa o quella scena a cui è affezionato (una per tutte, la presentazione dei nani a Beorn), una rappresentazione del drago Smaug diversa dalla tipologia di drago che aveva in mente Tolkien (ma qui ci addentriamo in territori pericolosamente nerd) e, soprattutto, il cliffhanger conclusivo, terribile e oltraggiosa prova di come le leggi della serialità televisiva americana abbiano ormai irrimediabilmente contagiato anche il cinema. C’è addirittura chi, come l’autorevole critico Paolo Mereghetti, ha addirittura esteso il suo furore distruttivo contro l’originale tolkieniano, definendolo (nell’ultima edizione del suo Dizionario dei film, sotto la voce Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato) «un romanzetto sia per lunghezza sia per rilevanza letteraria», ulteriore prova che Tolkien non piace alla critica nonostante il “romanzetto” in questione sia un classico dal 1937 e siamo ancora qui tutti a parlarne. C’è però anche chi il film l’ha apprezzato come il sottoscritto, che al cinema (e in 3D) l’ha visto ben quattro volte e che, come chi si arroga il diritto di criticarlo, intende difenderlo, ricordando come Peter Jackson ha realizzato non tanto un adattamento fedele alla lettera, quanto un prequel della sua altra trilogia, quella del Signore degli Anelli, capace di inserirsi, con passione e coerenza, in quella mitologia e in quella poetica. Proprio a questo capitolo del film è dedicata questa guida ufficiale scritta da Brian Sibley, piena di fotografie e capace di rendergli un buon servizio illustrando l’enorme livello di dettaglio con cui sono stati gestiti l’adattamento e la messa in scena: ogni singolo elemento (dentro e anche fuori dall’inquadratura) è stato curato nel minimo particolare, inclusi i dettagli e le scritte nelle varie lingue della Terra di Mezzo, per non parlare del lavoro artistico curato dagli illustratori John Howe e Alan Lee, di quello sugli accenti (basti pensare che i nani sono stati divisi in gruppi linguistici familiari per rafforzare la loro parentela) e di quello sui costumi (per quelli degli abitanti della Città del Lago è stato pensato un retroscena culturale a cui nel film non viene fatto riferimento esplicito con un culto evolutosi nel concetto di due gruppi religiosi diversi: il gruppo blu che venera il lago e il gruppo rosso che venera la Montagna). A chi ha criticato la presenza di set digitali al posto dei modelli in miniatura scolpiti della trilogia del Signore degli Anelli, la guida spiega che con Lo Hobbit le esigenze del 3D e dei 48 fotogrammi al secondo avrebbero richiesto, per ottenere i dettagli necessari, modelli enormi, che in quanto tali avrebbero a loro volta necessitato di sound stage giganteschi in cui riprenderli; a livello di sceneggiatura, invece, viene ricordato quanto importante fosse (soprattutto nel primo film) fornire a ognuno dei tredici membri della compagnia dei nani delle caratteristiche individuali per permettere agli attori di immedesimarsi nel loro ruolo e al pubblico di conoscerli via via nel corso del viaggio, lasciando emergere tensioni e diverbi ma anche un legame reciproco impossibile da spezzare. È però interessante notare come Peter Jackson abbia colto la rivoluzione rappresentata dal personaggio dello hobbit Bilbo Baggins, forzato a uscire di casa e mandato allo sbaraglio in un mondo di eroi e guerrieri, un uomo ordinario (ma per molti versi straordinario) rappresentante di quel “noi” che sono i lettori dei libri di Tolkien e gli spettatori dei film ambientati nella Terra di Mezzo, perché reagisce come reagiremmo nella stessa situazione, se avessimo a che fare con troll, ragni giganti e lupi mannari. Il libro analizza quindi tutti gli aspetti della preparazione del film, dalle acconciature al cibo da preparare, dal trucco agli effetti sonori (si scopre che le grida di Smaug sono il risultato dei versi di un maiale affamato, degli alligatori della Florida e della figlia del sound designer David Farmer!), e si presenta poi come un viaggio attraverso luoghi e personaggi che vediamo in questo secondo capitolo: la casa di Beorn, descritta da John Howe come una «costruzione maori realizzata dai vichinghi nel Pacific Northwest del Canada: un armonioso mix di diverse culture ottenuto con tecniche di costruzione primitive» (Alan Lee spiega che era difficile far servire a tavola lui e i suoi ospiti da camerieri animali, ma che hanno voluto che sul set fosse presente l’aspetto di fiero protettore degli animali e difensore del mondo naturale attraverso la presenza di sculture e grandi colonne totemiche, oltre a un set di scacchi intagliato a mano dalle fattezze animali); la fortezza di Dol Guldur, concepita da John Howe come costruita a partire da enormi blocchi di pietra tenuti insieme da sostegni e punte di ferro vecchio e arrugginito, con molte pendenze, linee diagonali e angoli acuti per risultare oppressivi e inquietanti, ma allo stesso tempo coperto di vegetazione da sembrare nascosta e stagliarsi di netto all’orizzonte come un rudere in cui ci si imbatte quasi per sbaglio, e con un interno pensato da Alan Lee come un labirinto di gabbie, prigioni e strumenti di tortura; Bosco Atro, un labirinto di piante e ragnatele dal set psichedelico e dai colori accesi, dovuti al fatto che le luci utilizzate, abbinate all’effetto del 3D, li avrebbe sbiaditi non poco; la Città del Lago, concepita come una Venezia celtica invernale e decadente e costruita in un enorme set all’interno di un bacino pieno d’acqua per mostrare come la città stia lentamente affondando nel lago (Peter Jackson spiega di aver voluto dare un peso maggiore alla città, sia al luogo sia ai personaggi, rispetto al libro di Tolkien, in modo che, quando Smaug attaccherà, questi siano maggiormente radicati nella storia); gli elfi di Bosco Atro, che sono più intolleranti e meno leggiadri di quelli incontrati nel Signore degli Anelli, vivendo in una foresta usurpata da un male esterno e avendo per questa ragione chiuso le porte e rinunciato a quanto c’è fuori; il loro re Thranduil, che preferisce difendere il suo regno e stare in disparte lasciando che il mondo faccia il suo corso, e il cui desiderio di impossessarsi di ciò che spetta alla sua razza supera il desiderio del bene; Bard, leader di natura che è costretto a essere un eroe che, se chiamato dal destino, può ancora compiere un’impresa che origina da un passato lontano; il laido e avido Governatore della Città del Lago, politicante di professione e pronto a tutto pur di tenere il potere, e il suo tirapiedi Alfrid, la cui presenza è stata pensata perché il Governatore interagisse con un altro personaggio piuttosto che rimuginasse da solo in una camera. Purtroppo, non viene mostrata alcuna immagine del drago Smaug, e questo probabilmente per tenere alta la tensione e non rovinare la sorpresa prima della visione del film (ricordiamo che la guida è uscita qualche settimana prima della data di lancio de Lo Hobbit – La desolazione di Smaug); non si può però non provare ammirazione e rispetto per l’attore Benedict Cumberbatch che a Smaug ha dato la voce e si è candidato direttamente presso il regista perché quando era piccolo suo padre gli leggeva il racconto di Tolkien («È stato il primo libro a entrarmi in testa come mondo immaginario, e ha svolto un ruolo di rilievo nel quadro della mia vita. E questo non perché lo avessi letto ma perché mi è stato tramandato oralmente, portato in vita da mio padre»). Per i più fanatici, si possono desumere delle scene tagliate che, con ogni probabilità, finiranno nell’edizione estesa del film: Bard che spacca la legna, la figlia di Beorn che serve in tavola i nani e Bilbo che dice a Beorn sulla strada della Città del Lago che il suo primo errore è stato lasciare Casa Baggins e che nella Contea c’è il detto «Mai avventurarsi a est!».

mercoledì 1 gennaio 2014

Henning Mankell - I cani di Riga

Secondo romanzo delle indagini del commissario Wallander, creato dalla penna dello scrittore svedese Henning Mankel. Questa volta, a Ystad, città portuale della Scania dov’è ambientato, due contrabbandieri si imbattono di notte in un canotto abbandonato con dentro due cadaveri, ma non chiamano la polizia temendo l’arresto e lo spingono verso la spiaggia dove viene ritrovato. A investigare viene chiamato Wallander, che si ritrova davanti a un bell’enigma: i due cadaveri, senza documenti, sono vestiti di tutto punto in giacca e cravatta e sono stati torturati e uccisi con un colpo di pistola al cuore. Non sono svedesi, ma, grazie alla collaborazione dei servizi segreti esteri e dell’Interpol, si scopre che sono lettoni e coinvolti nel traffico della droga, e quindi viene chiamato un investigatore dalla Lettonia, Liepa, per affiancarsi a Wallander nelle indagini, fino a quando il governo lettone non decide di occuparsi del caso in proprio, se non che, dopo qualche giorno, Liepa viene trovato morto. Dal momento che l’investigatore lettone ha parlato molto bene di lui, Wallander si ritrova così invitato a Riga, in Lettonia, a collaborare alla risoluzione del caso. Il romanzo è più lento rispetto al precedente Assassino senza volto e, specie nella seconda parte, si rivela un thriller più che un giallo tradizionale, con elementi da spy story (politica, corruzione, attentati, pedinamenti) negli anni dell’indipendenza delle ex repubbliche sovietiche. A suo beneficio, un personaggio come Wallander dall’estrema umanità, pieno di problemi (è sfortunato con le donne, ha sempre un padre con la demenza senile e una figlia con cui non va d’accordo) ma che non riesce a sopportare le ingiustizie e il dolore degli altri, si pone problemi sul grado di indifferenza e isolazionismo della ricca Svezia  da cui proviene e che si mette in prima persona a difendere persone che non ha mai visto.