mercoledì 5 febbraio 2014

Alex Ferguson - La mia vita

Stagione 1991-92: la scoperta del campionato inglese su Tele+2 (all’epoca in chiaro, ma durerà poco) irrompe nella mia vita di studente di prima media come un fulmine a ciel sereno. Non esco più di casa per seguire le partite, la lettura degli articoli del mitico Roberto Gotta sul “Guerin Sportivo” fa il resto. Divento un fanatico. Il Manchester United (squadra che ha vinto la Coppa delle Coppe la stagione precedente sconfiggendo inaspettatamente l’odioso Barcellona) domina a lungo il campionato ma perde il campionato con una sconfitta a Liverpool per 2-0 lasciando via libera al Leeds United: una squadra folle, con tutte le carte in regole per piacermi. Da allora, ho sempre tifato per il Manchester United, assistendo a una lunga serie di trionfi, tutti legati a un’unica, insostituibile e leggendaria figura: lo scozzese Sir Alex Ferguson. In 27 anni alla guida dei Red Devils (vero e proprio fenomeno di longevità) è stato capace di vincere 13 Premier League, 5 FA Cup, 4 League Cup, 10 Charity/Community Shield, 2 Champions League, una Coppa delle Coppe, 2 Supercoppe Europee, una Coppa Intercontinentale e un Mondiale per Club. Antipatico, scorbutico, incazzoso e spocchioso (celebre il suo chewing-gum perennemente masticato a bordocampo), dotato di un’incrollabile volontà di vittoria e di un inesauribile sentimento di rivincita (aveva già deciso di ritirarsi al termine della stagione 2001-02 ma l'essere rimasto a secco di titoli quell’anno lo fece desistere dal proposito), capace di prendere una nobile decaduta di mezza classifica e di portarla ai vertici del calcio mondiale rimanendoci per oltre vent'anni e cambiando quattro generazioni di giocatori. Da quando ha annunciato il suo ritiro definitivo, al termine della stagione 2012-13, il mondo non è più stato lo stesso. Il suo sostituto alla guida del club, il povero David Moyes, ha sinora raccolto solo delusioni e incontrato incredibili difficoltà, e non poteva essere altrimenti: sostituire il carisma di Sir Alex sarebbe stato impossibile per chiunque. Intendiamoci: anche Ferguson si è dimostrato umano. Ha commesso molti errori, ha vinto ma anche perso molto (tre finali di FA Cup, tre di League Cup, ma soprattutto due di Champions League contro il Barcellona), ha litigato con molti dei suoi giocatori (David Beckham, Roy Keane e Ruud Van Nistelrooy), ne a lasciati andare altri per poi pentirsi amaramente (Jaap Stam), ha sbagliato qualche acquisto (Kleberson e Djemba-Djemba). Sir Alex è però stato un professionista vero, assorbito totalmente dal lavoro, ha preso gente come Wayne Rooney e Cristiano Ronaldo, ha lanciato Paul Scholes, David Beckham e Ryan Giggs (l’incredibile generazione del ’92), è stato un padre per i suoi giocatori e un instancabile programmatore del futuro, capace di rifondare ciclicamente la squadra mantenendo la stima di dirigenti e tifosi e accettando che qualche stagione andasse storta (una cosa che sarebbe impossibile in Italia, dove c'è troppa fretta di vincere qualcosa e quindi di cambiare per poi non vincere niente). Tutte caratteristiche che emergono anche dalla lettura di questa autobiografia, scritta insieme a Paul Hayward del “Daily Telegraph” e indicativa per capire la totale identificazione tra Ferguson e Manchester United: dell’Aberdeen (altra squadra di cui è stato allenatore e con cui ha vinto addirittura una Coppa delle Coppe contro il Real Madrid) viene infatti detto pochissimo, e tutto è incentrato sul suo periodo allo United, soprattutto dal Nuovo Millennio in poi, per intenderci quello successivo al mitico Treble del 1998-99 (quando i Red Devils vinsero in un colpo solo campionato, FA Cup e Champions League). Organizzata per aree tematiche e non in ordine cronologico (e per questo più interessante), con alcune ripetizioni ma piena zeppa di aneddoti (molti dei quali spassosi e raccontati con un tono bonario e indulgente), racconta una vita fatta di panchine, spogliatoi, allenamenti infrasettimanali, sedute con la squadra per studiare gli avversari, riunioni con gli osservatori per decidere le prossime mosse di mercato, conferenze stampa prima e dopo le partite, strette di mano a bordo campo. Ma c’è anche tantissimo della vita privata del leggendario allenatore: gli amici (Bobby Robson, Carlos Queiroz, Harry Redknapp), i rivali (Arsène Wenger), i nemici (Rafa Benitez, reo di aver trasferito la loro rivalità su un piano personale), gli hobby (vini, cavalli e le biografie, soprattutto di John Fitzgerald Kennedy), le simpatie politiche (il partito laburista e i premier Tony Blair e Gordon Brown), i rapporti con i media (spesso difficili) e i trucchi per destabilizzare gli avversari (le conferenze stampa e il famoso gesto di guardare l’orologio a un quarto d’ora dalla fine delle partite). Sir Alex racconta anche la sua ammirazione per Gianfranco Zola, ha parole di stima per José Mourinho, ricorda gli errori arbitrali che gli sono costati delle sconfitte e i litigi a bordocampo con gli altri allenatori, polemizza ancora ad anni di distanza con la Federazione inglese per le squalifiche comminate a Eric Cantona (che ha preso a calci un tifoso del Crystal Palace) e Rio Ferdinand (che ha saltato l’antidoping a sorpresa), e svela di aver smesso di allenare perché non avrebbe più potuto sopportare di perdere un campionato all’ultimo minuto come nel 2011-12 (a vantaggio del Manchester City) e in seguito alla morte della cognata Bridget. La sua personalità è perfettamente espressa dalla sua spiegazione del perché il Manchester City non è riuscito a vincere di nuovo il titolo dopo averlo sottratto allo United nel 2011-12 (il momento peggiore in assoluto), vero concentrato di spocchia e fiero attaccamento alle tradizioni: “Non avevano potuto contare su giocatori che capivano il significato di vincere un campionato per la prima volta dopo quarantaquattro anni. Evidentemente per alcuni di loro era stato sufficiente battere lo United in una corsa al titolo e si erano rilassati, si erano lasciati andare”. Logico che chi non ha dimestichezza con l’argomento leggendolo possa un po’ perdersi, soprattutto alla luce del provincialismo che caratterizza il calcio italiano, ma io che giocavo in casa (tutti gli episodi da lui raccontati li ho vissuti in prima persona, settimana dopo settimana, per vent’anni) ho ricavato la stessa magica sensazione di un nipotino seduto sulle ginocchia di un nonno che gli raccontava la Storia. Unico appunto, la quantità di errori: sono tonnellate, soprattutto a livello di date sbagliate (debutti, addii, vittorie), anche nelle didascalie delle foto. Pare sia un problema dell’edizione originale inglese, ne sono stati contati 45: un’attenzione maggiore non avrebbe guastato.

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