venerdì 25 aprile 2014

Reed Albergotti, Vanessa O'Connell - Il texano dagli occhi di ghiaccio

Più si sale in alto, più la discesa è fragorosa e dolorosa. Una morale spesso abusata, ma mai così vera come nel caso del più grande inganno sportivo mai perpetrato, quello di Lance Armstrong, l’alieno (texano, per l’appunto) che è guarito dal tumore e che, per sette anni consecutivi (dal 1999 al 2005), ha vinto (anzi, stravinto) il Tour de France grazie al sistema di doping più sofisticato della storia senza mai farsi scoprire, paradigma di tutte le narrazioni tossiche legate allo sport come redenzione e del campione buono simbolo di riscatto di cui si nutrono i media, con il relativo finto scandalo moralista del giorno dopo, quando il truffatore è stato smascherato e tutti si sentono in qualche modo defraudati di qualcosa e in dovere di attaccarlo. A questo scandalo è dedicato questo bellissimo libro Il texano dagli occhi di ghiaccio, il cui titolo italiano allude (con scarsa fantasia) all’omonimo film di Clint Eastwood ma che in realtà corrisponde a Wheelman, volumone scritto da due giornalisti del “Wall Street Journal”, Reed Albergotti e Vanessa O’Connell: magari non dice niente di nuovo sull’argomento ma, attraverso il contributo di oltre cento persone intervistate e un accurato lavoro di ricostruzione e contestualizzazione, arriva piuttosto a mettere la pietra tombale definitiva sulla truffa dell’invincibile ciclista americano. Una truffa che, tra l’altro, è stata candidamente ammessa dallo stesso Armstrong, in un’intervista televisiva con Oprah Winfrey, nonostante anni passati a professare innocenza (un atleta sopravvissuto al cancro, che era stato vicino alla morte, non si sarebbe mai dopato), dopo che l’USADA (l’agenzia antidoping statunitense) e aveva già provveduto a inchiodarlo e l’UCI (l’Unione ciclistica internazionale) gli aveva cancellato tutte le vittorie, sancendone la damnatio memoriae. Personalmente, da grande appassionato di ciclismo, ho sempre detestato visceralmente il texano, anche quando tutti lo acclamavano come esempio per i giovani, l’atleta capace di vincere nello sport e nella vita, di sconfiggere il cancro e di tornare a trionfare in pista, con coraggio e tenacia, mentre pochissimi detrattori ricordavano che Armstrong, prima del tumore del 1996, era un ottimo corridore da classiche ma non era mai stato competitivo nelle grandi gare a tappe, né in salita né a cronometro. Il copione era sempre lo stesso: Armstrong tramortiva gli avversari a cronometro, li controllava nelle tappe più insidiose con l’auto della squadra più forte del lotto e li finiva sugli arrivi in salita staccandoli inesorabilmente. Vinceva il Tour, poi scompariva fino all’anno seguente. Si tratta di una storia indubbiamente triste, soprattutto considerando che il texano era diventato effettivamente un simbolo nella lotta contro il cancro, aveva aperto una propria fondazione (la Livestrong, abbondantemente sponsorizzata dal suo fornitore Nike) e aveva infuso coraggio in molti malati, rispondendo a messaggi con mail personali e consigli pratici, spesso con la specifica indicazione di quali medici consultare e interventi diretti presso gli specialisti per far ottenere un appuntamento. Il problema non è il doping in sé, visto che nel ciclismo sono tutti drogati (e lo dico senza paura di sembrare qualunquista) e che al principio olimpico dell’importante è partecipare non ha mai creduto nessuno (né ci hanno mai creduto gli antichi greci, figuriamoci), quanto l’agghiacciante falsità di un ambiente marcio fino al midollo che fa della corruzione e dell’omertà la sua unica ragion d’essere, una vera e propria multinazionale dell’imbroglio con ramificazioni ovunque, dal campo medico fino a quello economico-mediatico, capace di nascondere casi positività conclamata (nel caso di Armstrong, al Tour 1999 e al Giro di Svizzera 2001) e di schiacciare chiunque osasse insinuare dei dubbi. Oltretutto, nel 1999, cioè un anno dopo lo scandalo Festina (l’edizione del Tour vinta da Pantani, con ciclisti arrestati e portati in gendarmeria come criminali), la favola del reduce dal cancro in maglia gialla aveva salvato il ciclismo e la sua corsa più importante, diventando ogni anno più ricca, di retorica e soprattutto di denaro, non solo per Armstrong ma per tutto l’indotto a due ruote (emerge tra l’altro che tutte le compagne e amanti di Armstrong, compresa la rockstar Sheryl Crow, erano a conoscenza del suo utilizzo di sostanze dopanti, tanto che la prima moglie Kristin ricevette 15 milioni di dollari per non rivelare nulla). I due autori si domandano perché compagni di squadra, allenatori, sponsor e sostenitori finanziari abbiano collaborato alla menzogna, e rispondono che «la credulità della società di fronte all’evidenza sempre più lampante ha probabilmente qualcosa a che fare con il suo bisogno di un certo tipo di eroe. In quest’ottica, Lance è il prodotto inevitabile della nostra cultura e dell’intero mondo sportivo, tanto affamato di denaro da essere orma fuori controllo. Viviamo nell’Età dell’Oro della frode, in un’epoca segnata da una generale disponibilità a ignorare e giustificare i misfatti dei ricchi e potenti, con il risultato di ingigantire ogni menzogna e ampliarne il cammino distruttivo». Per fortuna, lentamente, il muro di gomma ha iniziato a cedere e i testimoni hanno cominciato a parlare, a cominciare dagli ex gregari Tyler Hamilton e Floyd Landis, quest’ultimo vincitore del Tour 2006 e radiato per doping qualche giorno dopo l’incoronazione sui Campi Elisi, quindi reo confesso e testimone decisivo nel raccontare una sordida storia (quella della U.S. Postal, la squadra di Armstrong) fatta di autotrasfusioni clandestine, cerotti al testosterone e siringhe di EPO. E, siccome la vita non perdona, dall’agiografa scritta dal vincitore a colpi di ottimismo e buoni sentimenti, si è passati all’accurata e chirurgica distruzione del perdente, cosa che questo libro fa benissimo, donando, a chi come me odiava il personaggio in questione, un certo qual piacere sadico. I due autori non si limitano infatti solo a ricostruire questo squallido spaccato di sport criminale (il racconto delle trasfusioni dei ciclisti sdraiati sul pullman è agghiacciante), ma aggiungono il ritratto dell’Armstrong uomo, già da ragazzino (promessa del triathlon) egoista e assetato di soldi, sesso e potere, conseguenza di una personalità disturbata, amorale, cinica e bara, incapace di accettare la sconfitta o l’ombra di qualcun altro e sempre pronto a litigare con i compagni di squadra e il patrigno. Un atteggiamento proseguito anche in seguito, quando il texano si è trasformato, più che in uno sceriffo, in un caporione della mafia, autore di minacce, intimidazioni e ritorsioni ai danni dei suoi nemici (cose che lo rendevano odioso anche quando si pensava fosse pulito), come avvenuto nel caso del nostro Filippo Simeoni, reo di aver rotto il muro di omertà sul doping e di aver connesso Armstrong al giro del tristemente famoso dottor Michele Ferrari: durante il Tour del 2004, il corridore italiano tentò la fuga di tappa ma la maglia gialla americana lo inseguì riacciuffandolo anche se non rappresentava una minaccia, mimando poi alle telecamere il gesto di cucire le labbra. Per non parlare delle querele fatte piovere su quanti osavano mettere in dubbio la sua onestà e i suoi tentativi di distruggere Greg Lemond, l’altro americano vincitore di tre Tour e da sempre accusatore di Armstrong e del sistema doping: proprio su Lemond e nel continuo tentativo di farlo passare come il campione “normale” che vince nello sport (nella fattispecie tre Tour de France) ma che, come le vittorie, conosce anche le sconfitte e capisce che per continuare a vincere dovrebbe doparsi e per questo si ritira, il libro appare meno convincente: magari è vero e Lemond è sempre stato un signore, ma ormai nel ciclismo, anche grazie ad Armstrong, non si crede più a niente.

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