mercoledì 30 luglio 2014

Neil Gaiman - Odd e il gigante di ghiaccio

Neil Gaiman ha già affrontato la mitologia norrena in Sandman e American Gods, ovviamente nel suo stile ironico, colto e spiazzante, e ritorna sull’argomento con questo breve Odd e il gigante di ghiaccio che è il suo contributo al World Book Day, la manifestazione a carattere annuale creata nel Regno Unito per incoraggiare la lettura tra i più giovani. Racconta la storia di Odd, un giovane vichingo particolarmente sfortunato: ha perso suo padre, boscaiolo e carpentiere, morto molto poco gloriosamente durante una spedizione in mare per recuperare dei pony caduti da un drakar (un nave vichinga). Inoltre, per aver voluto tentare di usare l’ascia di suo padre, si è fratturato una gamba e gira con una stampella; come se non bastasse, il nuovo marito di sua madre non vuole perdere tempo a occuparsi di un figliastro sciancato. Un giorno, Odd si imbatte in una volpe, un’aquila con un solo occhio e un orso rimasto incastrato sotto un albero: dopo aver liberato l’orso, viene seguito dagli animali nella capanna di suo padre dove si rende ben presto conto che sono in grado di parlare. A dire il vero, i tre non sono esattamente animali, ma nientemeno che il dio Odino (l’aquila), il dio Thor (l’orso) e il dio Loki (la volpe), esiliati dalla natia Asgard da un gigante di ghiaccio che con l’inganno si è impossessato del martello di Thor per conquistare la bella dea Freya. Odd si offre di aiutarli a riconquistare ciò che è loro e di impedire che Midgard, il regno degli uomini, soccomba in un inverno perenne. Fiaba nordica con tocchi di malinconia e di ironia (in linea con la produzione per l’infanzia dell’autore), splendidamente assistita nell’edizione italiana dalle illustrazioni (dal tratto essenziale e quasi abbozzato) di Iacopo Bruno, Odd e il gigante di ghiaccio è Gaiman allo stato puro, con un eroe in cerca di sé e di una collocazione nel mondo, una quest epica e iniziatica che verrà ricompensata (quando Odd tornerà al suo villaggio sarà quasi irriconoscibile e saprà cosa fare, per sé e per sua madre), una compagnia bizzarra costituita da dei nordici che battibeccano (l’insaziabile Thor, il mellifluo ma maldestro Loki, la linguacciuta Freya) e un antagonista (il gigante di ghiaccio) senza nome ma in cui si cela un fondo di gentilezza. Per quanti vogliono tornare alla dimensione magica e nostalgica delle fiabe.

Neil Gaiman - Il figlio del cimitero

Ogni libro di Neil Gaiman stupisce sempre di più, grazie alla capacità del suo autore di costruire delle storie che sono un concentrato di fantastico a partire da elementi quotidiani e nascosti. Non fa eccezione questo The Graveyard Book, pubblicato in Italia con il titolo de Il figlio del cimitero, una sorta di Libro della giungla in chiave dark che narra di un bambino a cui sono stati uccisi i genitori e la sorellina per mano di un misterioso assassino chiamato Jack, che riesce a salvarsi e a trovare rifugio in un cimitero dove viene allevato dai fantasmi di quelli che lì sono sepolti. Viene adottato dai signori Owens, suoi nuovi papà e mamma, e riceve il nome di Nobody (“Nessuno”), anche se poi viene chiamato con il diminutivo di Bod, perché non assomiglia a nessuno se non a se stesso. Le sue due uniche amiche saranno una bambina (che poi Bod ritroverà e sarà la causa involontaria del compiersi della storia) e lo spirito di una strega bruciata da ragazzina e sepolta in una zona sconsacrata del cimitero: farà qualche incursione (e di conseguenza qualche brutta esperienza) nel mondo reale ma non può lasciare il cimitero perché l’assassino della sua famiglia ha ricevuto l’ordine di finire il lavoro uccidendo anche lui. Nel frattempo, viene istruito da un tutore di nome Silas (che, essendo un non-morto, è l’unico a poter andare e venire dal cimitero) e dalla signora Lupescu (un lupo mannaro) a sviluppare quei poteri speciali che lo aiuteranno al momento del confronto finale con la Confraternita dei Jack del mazzo. Gaiman, nel suo consueto stile, mescola e scombina realtà e fantasia (il suo protagonista vive a metà tra la vita e la morte) e realizza un romanzo di formazione per ragazzi (come Coraline) che tratta temi delicati e adulti come la crescita, la ricerca di un’identità, il confronto con i propri simili e l’affrontare le proprie paure, con una semplicità trasognata e fantastica che ha dell’incredibile. Inoltre, partendo dall’intuizione della non paura della morte che hanno i bambini (Gaiman dice di aver tratto l’ispirazione per scrivere il libro avendo visto suo figlio che, un giorno, correva con il triciclo tra le lapidi di un cimitero), costruisce un’ambientazione che è il vero valore aggiunto del romanzo: un po’ sulla scia de La sposa cadavere di Tim Burton, il mondo dei morti (con i suoi non è qualcosa di brutto e di negativo di cui avere paura, ma una realtà tranquilla, serena e positiva, che ha ancora qualcosa da dare al mondo dei vivi. Per tutte queste ragioni gli si perdonano alcuni difetti, come il poco spazio dedicato allo sviluppo dell’antagonista o all’approfondimento di Silas (problema questo già presente in Stardust: sembra quasi che la quantità di trovate sia esorbitante in relazione alla lunghezza del libro). Il capitolo della Macabradanza che vede i deceduti riunirsi ai vivi per una notte soltanto è semplicemente straordinario. Tra le chicche spassose, scopriamo che Harry Truman e Victor Hugo sono due ghoul.

martedì 29 luglio 2014

Natalia Sanmartin Fenollera - Il risveglio della signorina Prim

Siete convinti che la società moderna faccia schifo e che vivere in un’oasi del passato sia la soluzione migliore? Allora Il risveglio della signorina Prim può essere il libro che fa per voi, a patto che vi piacciano libri leggeri come una colata di cemento e piacevoli come una mazzata sui denti, in cui tutti dicono cose estremamente assennate e dove anche i bambini parlano come saggi centenari e ci conducono sulla strada della virtù e della conoscenza. L’idea di Natalia Sanmartin Fenollera è carina ma per niente originale: la signorina Prudencia Prim, plurilaureata e alla ricerca di una sua collocazione nel mondo (e di un luogo che le consenta di sfuggire al rumore assordante della sua mente), risponde a un annuncio lavorativo sul giornale dallo stile molto retrò che fa richiesta di una bibliotecaria per un gentiluomo nella cittadina di Sant’Ireneo d’Arnois, piccola colonia di persone stanche della vita caotica della modernità che hanno deciso di ristabilire le priorità della propria vita nei piccoli gesti quotidiani (c’è solo il giornale locale, che esce di pomeriggio, e le femministe del posto propugnano le necessità che tutte le donne si sposino). Arrivata sul posto, scopre il gentiluomo in questione (chiamato “l’uomo dello scranno” e di cui non sapremo mai il nome) alle prese con l’educazione di alcuni bambini (i suoi nipoti) che citano classici latini, scrivono romanzi a puntate e dipingono icone di Rublëv: inutile dire che l’uomo, risolutamente contro la modernità, la sociologia, la pedagogia e qualsivoglia grillo salti per la testa di una giacobina come la  nuova bibliotecaria, insegna ai bambini secondo un metodo tutto suo in opposizione alla scuola tradizionale. Ed ecco il colpo di genio dell’autrice che, forte del recente revival di Jane Austen, impronta i dialoghi sul modello di quelli tra Mr. Darcy ed Elizabeth Bennet in Orgoglio e pregiudizio (modello espressamente citato). Ma se vi aspettate i dialoghi brillanti e ironici della Austen vi sbagliate di grosso: quelli tra l’uomo dello scranno e la bibliotecaria sono l’apoteosi dell’intellettuale, del filosofico, del letterario fine a se stesso, finendo per risuonare falsi e artefatti dopo poche pagine. E meglio non va con quelli tra la signorina Prim e gli abitanti del villaggio, che riflettono un po’ le stesse coordinate stilistiche («Ai tempi era solo un giovane professore, taciturno e discreto, che leggeva Husserl con devozione, praticava la scherma e insegnava tedesco». «Non glielo raccomando, conosco il tipo». Chi, chi può conoscere un tipo del genere?). Tenendo conto che la nostra acida e petulante protagonista è già segnata dal primo istante e quindi ideale per la comunità di Sant’Ireneo (all’inizio dice di essere «vittima di un fatale errore storico», cioè di vivere «con la costante sensazione di essere nati nel tempo e nel luogo sbagliati»), come possiamo non pensare che la bibliotecaria, alla fine, troverà l’amore della sua vita? Passi la convinzione più volte espressa che la felicità sta solo nella tradizione e che la modernità sia il male («La tradizione non ha età, è la modernità a invecchiare»; «L’intelligenza cresce nel silenzio e non nel rumore»), laddove il libro toppa clamorosamente è nella caratterizzazione dei personaggi, soprattutto in quella dell’uomo dello scranno, in possesso di una fede dogmatica e ideologica che farebbe scappare perfino lo stesso San Tommaso d’Aquino (di cui si dice seguace). Agghiacciante il finale in Italia con la protagonista che parte per un gran tour di mesi in un Bel Paese da cartolina, con tanto di chicca di quella che cita Dante in un albergo di Norcia: è proprio vero che, quando parlano di noi, tutti danno il peggio del peggio. Da leggere per scoprire che Jane Austen era decisamente un’altra cosa.

lunedì 14 luglio 2014

Quentin Tarantino, Reginald Hudlin, R.M. Guera, Denys Cowan, Aijel Zezelj, Jason Latour - Django Unchained

Credo che tutti, ormai, conoscano Django Unchained, o che almeno se ne siano fatti un’idea. Come sempre, il film di Tarantino ha esaltato gli uni e schifato gli altri, mandato in visibilio i suoi sostenitori e contemporaneamente infastidito i suoi detrattori (soprattutto i critici). Soprattutto, ha deluso chi si aspettava una variazione del genere spaghetti western dei tempi che furono (di cui Tarantino è un fan, tanto da averci pure fatto una retrospettiva al Festival di Venezia) e i fan del Django di Corbucci (con Franco Nero), spiazzati dal trovarsi di fronte a quello che non è né un sequel né un remale. In realtà, Django Unchained è il classico film di Tarantino, che prende gli stilemi del cinema di genere partendo da un punto di vista spiazzante (un protagonista western nero) e li mescola con mille altri spunti (e generi) per trasformare la materia in qualcos’altro, alla faccia di chi sostiene che le sue opere sono solo dei mosaici postmoderni ricavati da frammenti di altre pellicole. Anzi, questo è anche il più politicamente impegnato tra i film di Tarantino, quello che tratta a modo suo il tema del razzismo (la vicenda è ambientata nel 1858, due anni prima della Guerra di Secessione americana) e ribaltando ruoli e situazioni in un crescendo lento, drammatico e barocco, tra scoppi di violenta efferata e dialoghi ironici, sadici e taglienti come da scuola tarantiniana. Per chiunque avesse voglia di approfondire l’argomento, Bompiani ha fatto ora uscire la versione italiana della graphic novel basata sul film e originariamente divisa in cinque capitoli sulla base della prima sceneggiatura originale, qui adattata dallo scrittore Reginald Hudlin (anche produttore del film) includendo tutti quei dettagli che, per ragioni di spazio, Tarantino è stato costretto a tagliare dal film (e solo questo dovrebbe bastare a rendere l’opera un must). La trama è quindi quella del film: il dottor Schultz, uno strano dentista tedesco dai modi aulici e la parlata ricercata, ma che in realtà è un cacciatore di taglie, libera lo schiavo nero Django per aiutarlo a riconoscere tre ricercati trasformati in custodi di schiavi. Non solo Django lo aiuta ma tra loro nasce un sodalizio lavorativo e umano che sfocia in un’amicizia sincera. A questo punto l’azione si sposta dal Texas al Mississippi, quando i due si mettono alla ricerca della donna amata da Django, Broomhilda (già una schiava nera con il nome di un’eroina della mitologia germanica è tutta un programma!), di proprietà del più razzista dei più razzisti degli Stati del Sud, Calvin Candie, un perfetto villain da fumetti, uno che allena mandingo per combattimenti all’ultimo sangue e dà i fuggiaschi in pasto ai cani (ben assistito, bisogna riconoscerlo, dagli altri schiavisti presenti nell’opera, spietati e sanguinati, che violentano le donne e scorticano la schiena degli schiavi neri a suon di frustate): sarà nella piantagione di Candy che Django e Schultz si troveranno di fronte un nemico di non minor livello, il subdolo maggiordomo nero Stephen, collaborazionista e razzista quanto se non più del suo padrone. Molto riuscito è il flashback che è stato aggiunto in cui appare Scotty Harmony, goffo padrone di Broomhilda, che serve per introdurre la storia della donna e il personaggio di Candie. Lo stile di Tarantino, d’impatto dal punto di vista visivo e fortemente evocativo, si presta moltissimo a un riadattamento fumettistico, e i colori caldi usati sono adattissimi allo scopo; dal punto di vista prettamente fumettistico, però, l’opera spiazza perché i vari numeri sono stati affidati a disegnatori diversi (il serbo Rajko Milosevic in arte R.M. Guera, Denys Cowan, Aijel Zezelj e Jason Latour) e, in qualche caso, passare da uno all’altro si avverte decisamente. Vale purtroppo la solita regola per prodotti del genere: non potrà mai e poi mai sostituire in qualche modo la visione del film, ed è un handicap notevole. Nell’introduzione al volume lo stesso Tarantino spiega le ragioni che stanno dietro il progetto e confessa la sua passione per i fumetti western che più lo hanno ispirato, serie dei primi anni Settanta come TomahawkBat LashKid Colt OutlawRawhide KidYang e Reno Jones and Kid Cassidy Gunhawks: un tassello in più per cercare di ricostruire la sua enciclopedica e irregolare formazione di cineasta e narratore.

venerdì 11 luglio 2014

Wu Ming - L'armata dei sonnambuli

«Adunchi come becchi di rapaci, arrossati dal gelo del mattino, bitorzoluti e tumefatti dal bere. Schiacciati da un colpo di piatto ricevuto servendo la patria o celebrando il Dio Bacco. Storti da un pugno ben piazzato in una rissa tra cani che si contendono un osso, una moneta o la fessura d’una donna. Mozzati dal fendente di un creditore o di un assassino maldestro. Larghi e rubizzi, con narici enormi e cavernose». Questo il folgorante incipit del nuovo e acclamato romanzo del collettivo Wu Ming L’armata dei sonnambuli, questa volta ambientato nella Rivoluzione francese e in particolare durante il Terrore. In qualche modo anticipata dal lungo naso della maschera di Scaramouche che campeggia in copertina, questo incipit mette subito le cose in chiaro: della Rivoluzione i Wu Ming raccontano la mostruosità, la violenza e la carnalità, ma anche il fascino, la complessità, la contraddittorietà e il conflitto (di classe e di genere), proseguendo il ragionamento sulla rivolta e la rivoluzione (in questo caso la Rivoluzione per antonomasia, con la maiuscola) iniziato ai tempi del formidabile Q, quando il collettivo si chiamava ancora Luther Blissett (forse sono l’unico a pensarlo, ma la maschera di Scaramouche posta in copertina è curiosamente uguale alla Q della copertina di Q). Per farlo, adottano quello che loro chiamano uno “sguardo obliquo”, in grado di entrare nel mito rendendo giustizia alla complessità del reale, con una serie di storie dal basso che sono altrettanti punti di vista e modi di raccontare le tante rivoluzioni collegate alla Rivoluzione maggiore: la rivoluzione della psichiatria, del mesmerismo, del teatro, del ruolo della donna nella società. Ovviamente lo fanno nel loro stile, complesso e stratificato, postmoderno per il gusto citazionista e la contaminazione di generi (il cinema, il fumetto, la musica, il romanzo d’appendice), non come gioco fine a se stesso ma come vero e proprio motore di narrazione, facendo rivivere la storia e intervenendo su di essa grazie a delle invenzioni straordinarie degne di un Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino. Costruito come un’opera teatrale, con una overture e cinque atti a loro volta suddivisi in scene, inframmezzati da documenti d’archivio (articoli di giornale, parti di discorsi, estratti di libri e cronache dell’epoca), il romanzo mescola cinque linee narrative (un po’ come avvenuto in 54) e cinque voci e arriva a un quinto atto che addirittura contamina le fonti storiche con la narrativa e addirittura fa entrare gli autori e il loro lavoro nel testo, espediente che annulla definitivamente il confine tra realtà e finzione. L’arco temporale raccontato dal romanzo prende avvio dalla decapitazione di Luigi XVI, il 21 gennaio 1793, e arriva, dopo la caduta di Robespierre il 27 luglio 1794, alla sconfitta finale del popolo di Parigi nella primavera del 1795. Il primo personaggio è Orphée d’Amblanc, giacobino ed ex soldato in America, medico seguace di Mesmer (la cui voce tedesca risuona nella sua testa come guida nei momenti cruciali e di sbandamento) e delle sue teorie sul magnetismo animale, che riceve la visita dell’ufficiale Chauvelin (lo stesso della Primula rossa della Baronessa Orczy!) che lo chiama a condurre una sorta d’indagine medica su quello che sta accadendo in una regione ribelle, l’Alvernia, in una provincia rurale ancora fortemente legittimista, dove la rivoluzione fa fatica ad arrivare e dove si abusa della credulità popolare per scopi reazionari (si imbatte in un uomo-cinghiale licantropo affetto da satiriasi, in un’indemoniata, in una bambina che vede la Madonna che istiga gli abitanti del villaggio a uccidere sindaco e parroco, infine in un ragazzo selvaggio regredito allo stato di natura). Il secondo personaggio è Marie Nozière, una magliara del foborgo di Sant’Antonio (il più rivoluzionario di Parigi), vedova (suo marito è morto a Valmy) e madre (ha un figlio di cui non si prende cura), con un passato doloroso che le ritorna sempre davanti agli occhi (ha subito violenza dal padrone di cui è rimasta incinta) e un presente difficile con cui fare i conti (i problemi concreti del mandare avanti una casa). È una donna libera in prima fila in tutte le lotte rivoluzionarie («La rivoluzione è proprio questo: fare pagare tutti, senza più privilegi»): nella prima scena compare mentre sta assistendo alla decapitazione del sovrano, nella seconda sta facendo un esproprio insieme ad altre donne ai danni dei cosiddetti accaparratori per un abbassamento del prezzo delle derrate. Il suo personaggio inizia però a vivere un’evoluzione quando si accosta al club delle donne rivoluzionarie di Claire Lacombe e Pauline Léon, molto diverse da lei per cultura ed estrazione sociale: sono vestite da amazzoni (qualcuna ha addirittura la sciabola), partecipano alle sedute della Convenzione e combattono attivamente non per il calmiere sul prezzo delle derrate ma per i diritti delle donne (la Rivoluzione francese non è stata particolarmente favorevole alle donne, anzi, ha perseguitato quelle che hanno cercato di cambiare le cose). Il terzo personaggio è Léo Modonnet, un mediocre attore italiano, anzi bolognese (vero nome Leonida Modonesi), giunto a Parigi sulla scorta del grande Carlo Goldoni (caduto in disgrazia e morto proprio a Parigi un mese dopo Luigi XVI) con una grande considerazione di sé e l’idea di fare fortuna: la rivoluzione lo fa riflettere sul concetto di rappresentanza («“Rappresentare il popolo” significava agire per suo conto, ma significava pure “metterlo in scena”»), perché non solo la Rivoluzione ha adottato il teatro (i deputati alla Convenzione prendono lezioni di retorica perché, come dice Claire Lacombe, «Io sono un’attrice e ti dico che questi politici si alzano sui banchi per i loro discorsi come un attore calcherebbe le scene. Per loro il popolo è un pubblico, nient’altro»), ma perché soprattutto la Rivoluzione gli offre un palcoscenico: «Era quella, si disse, la forma di rappresentanza più genuina, altro che elezioni, mandati e lunghe sedute fra quattro mura. Non era un caso se la rivoluzione aveva concesso agli attori il sacrosanto diritto di essere eletti». Decide quindi di difendere il popolo per via teatrale e, siccome il popolo vuole la morte degli accaparratori (quelli che nascondono le risorse per accumulare e rivenderle a un prezzo più alto), diventa un supereroe che indossa una maschera della commedia dell’arte, quella di Scaramouche. Sulle prime, però, non può nulla contro la ghigliottina, capace di rappresentare il popolo molto meglio di lui, «un’attrice al cui cospetto ci si poteva solo inchinare. Un’attrice talmente grandiosa da potersi permettere una spalla di prim’ordine: il boia Sanson». Sarà solo con la caduta del governo giacobino che Léo rivestirà la sua maschera nel tentativo di difendere il popolo dai nemici della Rivoluzione, in particolare i muschiatini, «gecchi tutti pomponnati che lezzano di muschio», giovani reazionari che si vestono e si comportano imitando i nobili dell’Ancien Régime e parlano omettendo la lettera r (quella di rivoluzione), che lui perseguita con la sua arma, un bastone chiamato “lo spirito di Marat”. Una specie di Batman ante litteram, pesantemente contaminato però dal protagonista mascherato di V for Vendetta al punto che qui, invece di cominciare le parole con la lettera v, Léo usa esageratamente la r proprio perché i muschiatini non la usano (e ancora di più se pensiamo che nell’Atto Quinto si dice che la maschera di Scaramouche fu adottata da alcuni rivoluzionari contro la monarchia di Luigi Filippo d’Orléans e che durante l’insurrezione contro Carlo X comparve la scritta «Scaramouche siamo noi»). C’è poi un quarto personaggio, il cattivo, Laplace, o cavaliere d’Yvers, che cambia nome tante volte (come è tradizione nei romanzi dei Wu Ming) e che non è un cattivo qualunque, ma un villain coi controfiocchi, vera arma in più del romanzo. Nella prima scena prende parte al tentativo di liberare Luigi XVI sulla strada che lo porta alla ghigliottina, ma poi persegue con coerenza un suo progetto personale che lo porta a distaccarsi dagli altri monarchici e controrivoluzionari: capisce che la controrivoluzione non è reazione ma la rivoluzione portata alle sue estreme conseguenze («La controrivoluzione è a sua volta una rivoluzione, oppure non è nulla») e si convince della necessità della Rivoluzione per la salvezza della Francia. Non vuole restaurare l’Ancien Regime, ma distruggere il mondo attuale e andare molto più indietro, a un passato più antico per realizzare un ordine nuovo. Si interna volontariamente nel manicomio di Bicêtre, vera e propria città nella città e specchio deformato della Francia («Bicêtre era la Francia: infermi di mente impegnati in discorsi più grandi di loro»), dove gli alienati riproducono e mettono in scena episodi della vita reale come le sedute della Convenzione o i funerali di Marat. Proprio l’evoluzione rivoluzionaria gli offre lo spunto per agire («Sino ad allora, aveva ritenuto Bicêtre il luogo in cui si inverava la natura parodica dell’ordine rivoluzionario. (...) Ora, invece, era il mondo esterno a somigliare a Bicêtre»): anche Laplace, infatti, è un mesmerista, più bravo di d’Amblanc, e ha compreso come orientare la volontà degli individui durante il sonno mesmerico. Mettendo alla prova le sue facoltà crea una squadra di sonnambuli che invia a seminare il terrore nei foborghi popolari per realizzare il suo progetto e rapire poi il Delfino. Nel romanzo il mesmerismo è in qualche modo un elemento fantasy ma assolutamente reale, che adombra due diverse visioni del mesmerismo e del potere: il mesmerismo “etico” e “democratico” di d’Amblanc, che può essere praticato da tutti e vuole curare le persone rispettandone la volontà («Non esistono i magnetisti, solo il fluido magnetico. Grazie a esso, tutti possono diventare terapeuti, se lo vogliono. Ma da quel che ho visto in Alvernia, c’è una cosa che alcuni sono in grado di fare, sempre grazie al fluido: limitare la libertà degli individui, forzarne la volontà, spingersi oltre le loro difese naturali, fino a dove non sappiamo»), si contrappone al mesmerismo "totalitario" di Laplace che mira invece al controllo della mente e all’annullamento della volontà altrui («Ciò che si poteva ottenere da quegli esseri segnati era renderli docili, ed era un’operazione della Volontà. Quando la cura pareva riuscire, in sostanza non si trattava che di questo: folle o non folle, un uomo ha la mente fatta di cera. se la volontà di un essere superiore, di un uomo nobile e forte si imprime con decisione in tale duttile materia, allora ecco apparire un risultato. Non una rivoluzione, ma la volontà dell’uno che piega la volontà dell’altro»). Senza dimenticare altri personaggi non principali ma sicuramente riuscitissimi come il ciabattino e commissario di polizia Treignac (che fa da padre al figlio di Marie, Bastien) e La Corneille, l’anima dannata (e senza naso) di Laplace, nel romanzo c’è poi una quinta voce, che in qualche modo è anche un quinto personaggio, collettivo questa volta, la voce della plebe del foborgo di Sant’Antonio, che si rivolge al lettore al plurale e gli offre una panoramica (con funzione di raccordo) di quello che sta succedendo («Te lo si conta noi, com’è che andò»), dal basso e senza filtri, esattamente il contrario del coro della tragedia greca che invece era schierato dalla parte degli dei e dell’autorità. A suon di idiomi come “soquanti” e “sbrisga”, insulti come “gianfotti” e “pierculi”, e imprecazioni come “negoddio” e “svitoddio”, questa voce cerca di mantenere i coloriti modi di dire popolari del linguaggio sanculotto dell’epoca traducendoli in italiano/emiliano con effetto straniante o italianizzando parole francesi (“garzo” per “garçon”, “gecco” per “Jacques”) e nomi di luoghi (“le Tuilleries” diventano “le Tegolerie”, il “foubourg” diventa “foborgo”, “Notre Dame” diventa “Nostra Dama”, “Saint Honoré” diventa “Sant’Onorio”, il “Pont Neuf” diventa “Pontenuovo”, “Place de Grève” diventa “piazza della Grava”), e ottiene l’effetto di risultare vitale e frizzante nonostante sia fittizia e artificiale. Inoltre non è limitata solo alla voce della plebe, perché caratterizza tutti i dialoghi dei personaggi popolari (uno tra tutti, Marie) e invade letteralmente tutto il testo, contaminandolo. L’attenzione al registro linguistico è poi talmente alta che anche nelle parti ambientate in Alvernia la lingua parlata dai locali è diversa ed è stata ottenuta con una specie di dialetto piemontese. Leggetelo, e Parigi non vi sembrerà più la stessa.

venerdì 4 luglio 2014

Miles Hyman, Matz, David Fincher, James Ellroy - Dalia Nera

Il romanzo Dalia Nera di James Ellroy è un capolavoro del noir (ne ho parlato QUI), per la sua capacità di trasformare un barbaro fatto di cronaca (il ritrovamento del corpo smembrato di un'attricetta di film a luci rosse) in una vera e propria discesa agli inferi della Hollywood di fine anni Quaranta e di raccontare un'ossessione che è anche una ricerca della coscienza dal punto di vista di un poliziotto con molti scheletri nell'armadio, vittima e specchio di una società malata (come la grande tradizione noir insegna). Dopo il film di Brian DePalma (risalente ormai a otto anni fa), ecco ora giungere l'immancabile graphic novel, questa volta firmata dal disegnatore Miles Hyman (disegnatore per Le MondeNew York Times e New Yorker) e dallo sceneggiatore di videogiochi Alexis Nolent in arte Matz. In più, come si legge nell'introduzione, oltre all'approvazione di Ellroy, si avvale della consulenza nientemeno che del regista David Fincher e in particolare del suo abortito progetto di un film da tre ore con Tom Cruise basato proprio sulla Dalia Nera, e il ritmo del fumetto è quindi volutamente cinematografico. La sceneggiatura, estesa e intricata, utilizza i dialoghi di Ellroy e il commento in soggettiva del protagonista Bucky Bleichert, mentre le tavole dividono generalmente la pagina in tre strisce (con qualche occasionale variazione all’interno delle singole strisce); i disegni sono molto fisici, con uomini dalle mascelle squadrate e donne enigmatiche, e i colori (sullo sfumato) presentano tonalità sul rosso-arancione-marrone, scelta perfetta per la sezione ambientata in Messico, ma lontana da chi si immaginava tinte più fosche. Ovviamente, in nessun modo l'opera sostituisce il romanzo di Ellroy, ma è comunque meritevole di lettura. Trattandosi di un’opera per adulti, ci sono parecchie scene di sesso.