domenica 7 settembre 2014

Angelo Maria Ripellino - Praga magica

Non credevo fosse possibile imbattersi in un’opera del genere dedicata a una città, folle parto delle geniale mente di Angelo Maria Ripellino, poeta palermitano innamorato di Praga al punto da dedicarle un ritratto che è allo stesso tempo una reinvenzione letteraria (“Ora che ne sono lontano, forse per sempre, mi chiedo se Praga esista davvero o se piuttosto non sia una contrada immaginaria come la Polonia di Re Ubu”) e un autoritratto di se stesso. Lo fa in maniera dottissima ed erudita, con una cultura ciclopica e stordente (con innumerevoli citazioni di autori locali quali Karel Hynek Macha, Jaroslav Hasek, Jiri Orten, Alfred Kubin, Vladimir Holan), attraverso una lingua ricercatissima e barocca, da vero poeta letterato, piena di termini arcaici e desueti, che stordisce e affascina allo stesso tempo. A chiarire però che cos’è Praga magica ci pensa lo stesso Ripellino: “Questo non è, signori, un Baedeker. [...] Non farò l’accompagnatore saccente, che caca le sue imparaticce parole come un graziano. Questo mio dittamondo praghese è un libro sconnesso, sbandato, a frastagli, scritto nell’insicurezza e nei mali, con disperaggine e compentimenti continui, con l’infinito rimorso di non conoscere tutto, di non stringere tutto, perché una città [...] è una dannata, sfuggente, complicatissima cosa”. La sua Praga è quanto di più lontano dalla cartolina turistica, un “antico in-folio dai fogli di pietra”, “vivaio di fantasmi, arena di sortilegi”, “trappola che, se afferra con le sue brame, con le sue male arti, col suo tossicoso miele, non lascia più, non perdona”, una “città-libro” composta da tre anime simbiotiche (la ceca, la tedesca, l’ebraica) in equilibrio precario, rappresentate emblematicamente da Franz Kafka: un equilibrio che è divenuto spesso conflitto, a causa di frequenti conflitti, ma che allo stesso tempo è stato motivo di vitalità e creatività per le diverse parti. Da una parte gli ebrei che, uscendo dal ghetto, erano attratti dagli slavi ma sceglievano la lingua e la cultura tedesca (pur essendone estranei), ligi alla causa imperiale dal momento che gli Asburgo li proteggevano, e per questo vennero osteggiati dai cechi fautori dell’indipendenza; dall’altra parte i tedeschi che, sulla scorta dell’espressionismo, hanno guardato la città come una “malfattura chimerica” e ne hanno fatto una “metropoli occulta, irreale”, in cui “tutte le immagini tendono a deformarsi spasmodicamente, ad assumere facce grottesche e spettrali”, simbolo del comune presentimento del crollo dell’impero asburgico e, quindi, “segnacolo di agonia e tramonto” in quanto “cuore di un popolo che non condivideva il loro anelito di affraternamento”. Sul piano storico e politico, Praga è l’altro volto dell’impero asburgico, è l’anti-Vienna, il rifiuto dei valori monarcici, la sconfessione dell’idillio gaudente da operetta della capitale austriaca. L’invito di Ripellino al lettore è quello di farsi pellegrino, “l’eroe precipuo della dimensione magica di Praga” mutuato da un romanzo di Josef Capek, che continua a sentirsi ostinatamente e gioiosamente chiamato alla vita nonostante l’infermità fisica e l’essere fuori dai giochi, nel proprio silenzio, “sfuggendo così alla gabelliera inquisizione di chi vorrebbe sequestrargli il pensiero”: lacerato da un profondo senso di estraneità e alterità, il pellegrino si rifiuta di conformarsi al mondo ed è alla ricerca di un rifugio interiore, testimone e ospite che, “pur trovandosi in mezzo al rovinio della storia, non potrà mai mutare le sorti di quel labirinto né mitigarne l’insania”. Ripellino pensa a se stesso come un personaggio calato nelle varie epoche (storiche, artistiche ma soprattutto letterarie di Praga), attraverso un cammino le cui stazioni sono le bettole, i vicoli, i laboratori arcani degli alchimisti, le chiese gotiche, le sinagoghe del Ghetto, il Ponte Carlo con le sue statue, il Castello e la corte di Rodolfo II. Proprio a questo originale imperatore, che proprio a Praga spostò la capitale dell’impero alla fine del Cinquecento, è dedicata una cospicua parte del libro: malinconico e depresso, tollerante per non dire insensibile alle questioni religiose del tempo, grande collezionista e appassionato di magia, astrologia e cabala (tanto da dare udienza al rabbino Löw, il creatore del Golem), si chiuse nel Castello dove si dedicò quasi esclusivamente ai propri studi preferiti e alle proprie ossessioni fino alla fine dei suoi giorni. Alla sua corte prosperava una nutrita schiera di personaggi stravaganti: scienziati (Tycho Brahe, astronomo dal naso d’oro posticcio che si dice morto per aver trattenuto troppo a lungo lo stimolo di orinare durante un banchetto, e Keplero, perseguitato altrove per la sua fede evangelica), alchimisti, distillatori, cabalisti, chiromanti, maghi (John Dee ed Eduard Kelley, dalle orecchie mozze per aver fabbricato dei documenti notarili, accusati anch’essi di essere degli imbroglioni o, peggio, delle spie al soldo di Elisabetta I d’Inghilterra), botanici, astronomi, astrologhi, artisti (l’Arcimboldo, artefice di folli ritratti dedicati alle stagioni e agli elementi) e, insieme a questi, ciarlatani e imbroglioni (come Geronimo Scotta da Parma). A seconda dell’umore volubile del sovrano, potevano acquisire cariche onorifiche o finire relegati nelle più profonde segrete, e qualche volta anche sul patibolo. Ripellino si sofferma poi a lungo sul Ghetto, sulla sua storia fatta di persecuzioni, pogrom e ricatti e sulla sua atmosfera tenebrosa e spettrale, filtrata dall’espressionismo tedesco e ben rappresentata da famoso cimitero, che “confinava in antico con bordelli e baracche di boia, di reietti, di accalappiacani e fogne di nitro e capanne di salnitro”, e che per mancanza di spazio ha richiesto la costruzione dodici strati di tombe una sull’altra. Senza però dimenticare le leggende: fantastica quella secondo cui sotto una lapide del cimitero giacerebbe un prete cattolico transfuga dall’ebraismo che volle essere sepolto accanto all’ebrea amata nella giovinezza, e che ogni notte verrebbe traghettato da uno scheletro attraverso la Moldava fino alla Cattedrale di San Vito perché possa suonare all’organo salmi di penitenza. Oppure la leggenda famosissima del Golem, nella sua versione tradizionale e nelle sue declinazioni letterarie (specie quella esoterica di Gustav Meyrink), e quella (prosperata dalla propaganda della Controriforma) di Šimon Abeles, ragazzo martoriato e ucciso dal padre e da un complice per aver abiurato la fede ebraica e farsi cattolico: il padre si suicidò in carcere prima che lo squartassero e gli cavassero il cuore, il complice fu misericordiosamente giustiziato con un sol fendente per aver accettato di cambiare fede, mentre la salma del ragazzo venne esposta per un mese intero al municipio della Città Vecchia e le folle lo visitavano intingendo il fazzoletto nelle fontane di vivo sangue sgorganti dalle sue ferite. Testimone della durissima repressione della Primavera di Praga da parte dei soldati sovietici nel 1968 (veri e propri Golem senz’anima), Ripellino fa continuamente confluire presente e passato, con ostinati legami e richiami che ne fanno l’uno immagine e specchio dell’altro, nella convinzione che nella storia di Praga ci sia un marchio antico e indelebile, la battaglia della Montagna Bianca del 1620: da quella disfatta (disfatta dei protestanti e vittoria dei cattolici) la città ha conosciuto l’emarginazione, la decadenza e l’oppressione straniera, un processo culminato con la degradazione del Castello, sotto Giuseppe II, a caserma d’artiglieria, e che ha portato all’affermazione del barocco, “arte di ammansimento e di propaganda, aggressivo segnacolo della Controriforma, pungolo di sudditanza agli Asburgo, e quasi scherno ostentato dalla Chiesa trionfante sull’agonia dell’indocile nazione sconfitta”. Una decadenza solo in parte mitigata dalla rinascita stilistica del tardo barocco del XVIII secolo, che ha visto riaffermarsi un nuovo verticalismo trascendente capace di riprendere lo slancio del gotico e di abbandonare “l’autocrate orizzontalismo” e “la scorrucciata rigidità da quaresima”. Alla battaglia della Montagna Bianca è legata anche la brutale esecuzione dei 27 nobili cechi che non avevano lasciato la città e che si opponevano all’imperatore Ferdinando II: la loro carneficina (avvenuta il 21 giugno 1621) fu lunga e spietata (quattro ore), con tre impiccagioni e 24 decapitazioni, realizzate dal boia con un solo colpo ognuna e utilizzando quattro spade ben affilate. Le teste mozzate furono poste per dieci anni sulla Torre della Città Vecchia come ammonimento e si dice che, ancora oggi, gli spiriti dei nobili giustiziati tornino sulla Piazza ogni anniversario della loro decapitazione per controllare il funzionamento del famoso orologio astronomico e assicurarsi che tutto vada bene per la città. Logico che se siete stati a Praga questo libro lo apprezzerete di più, ma non è una condizione necessaria: Praga magica è un’opera d’arte che si nutre di questa città ma soprattutto del genio letterario di uno scrittore che ne ha trasfigurato ogni metro attraverso la sua erudizione e la sua sensibilità. Uno di quei pochi libri che trasportano in un altrove autenticamente magico, popolato di fantasmi e sogni più reali della realtà.

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