mercoledì 10 settembre 2014

Tom Shippey - J.R.R. Tolkien autore del secolo

Antimoderno, tradizionalista, reazionario, contrario alla laicità, apologeta del cattolicesimo conservatore: dall’epoca in cui fu rifiutato dalla sinistra e adottato dalla destra (politica, ma anche cattolica e neopagana), Tolkien in Italia è sempre stato considerato così, e ancora oggi quelli che lo hanno portato nel nostro Paese (a cui dobbiamo tutti comunque essere riconoscenti) lo rivendicano come loro. Guai a chi cerca di rileggere Tolkien: l’autore del Signore degli Anelli è così e basta, quasi fosse una questione di bandiera. Posizioni e polemiche ridicole e irrimediabilmente provinciali che vengono spazzate via da questo bellissimo, completissimo, rigoroso e divulgativo studio del famoso filologo allievo di Tolkien, Tom Shippey, che restituisce l’autore a se stesso e al suo tempo, non a caso provocatoriamente intitolato J.R.R. Tolkien autore del secolo (orrenda la copertina italiana): autore del secolo nel senso di diffusione e apprezzamento a livello globale, dal momento che in tutti i sondaggi è tra gli autori più amati dell’epoca contemporanea (tanto che la Terra di Mezzo è ormai diventata un fenomeno culturale e parte del bagaglio mentale di molte persone), ma anche e soprattutto perché Tolkien è a tutti gli effetti un autore del XX secolo, profondamente inserito nelle dinamiche di questo secolo al punto da scrivere per rispondere alle tematiche e alle ansie della sua epoca, soprattutto al problema del male. Tolkien fa parte infatti di quella schiera di scrittori fantastici “traumatizzati” dagli orrori della guerra (Orwell, Golding, Vonnegut) che, nell’impossibilità di trovare spiegazioni nella letteratura dei periodi precedenti, proprio nel fantastico hanno trovato la via maestra per esprimere le loro inquietudini e i loro turbamenti, nella profonda convinzione di essere venuti a contatto con qualcosa di irrimediabilmente malvagio nella natura dell’uomo. Come se non bastasse, Tolkien (che aveva combattuto alla Somme, la più sanguinosa battaglia della storia dell’umanità) cercò anche di dare delle risposte personali al problema, e questo lo rese inviso a nichilisti alla moda e a modernisti condannati alla decostruzione e all’impredicabilità, dando origine a un pregiudizio che continua tuttora. Se all’epoca i critici legati al circolo di Bloomsbury ne decretarono subito frettolosamente il tramonto, giudicando la sua opera insulsa e indirizzata a un pubblico infantile, il canone della critica letteraria accademica ha continuato a rifiutarlo e a disprezzarlo, dimostrando una totale ignoranza in merito e facendo pensare che le ragioni del disprezzo abbiano molto a che fare con quelle del successo: Tolkien ha sfidato l’autorità degli stessi letterati, e questa è una cosa imperdonabile. Tanto più che, da grande e raffinato filologo, la sua teoria della letteratura è totalmente antiletteraria, cioè nasce dal linguaggio, e crede che le storie nascano dalle parole. Ma come è stato per lui possibile creare un classico, di massa e per tutti i linguaggi, accessibile a tutti e con diversi livelli di lettura, nonostante sia apparentemente un libro lungo, difficile, con un gran numero di appendici, pieno di citazioni, di lingue sconosciute spesso nemmeno tradotte? Grazie a un lavoro maniacale su tutti gli aspetti del testo, del retroterra culturale, della mappa, della cronologia: Tolkien si dedicò al suo universo immaginario per tutta la vita, perché iniziò a scrivere i primi racconti nel 1917 ancora durante la Prima Guerra Mondiale e alla sua morte nel 1973 queste opere non erano ancora compiute, tanto che Il Silmarillion è stato composto postumo dal figlio Christopher. La Terra di Mezzo si distingue dalle sue molte imitazioni per la sua ricchezza e sovrabbondanza: per esempio, quando Tolken tracciava le sue mappe e vi includeva dei nomi, non sentiva la necessità di farli entrare tutti, perché questi servivano solo per suggerire che al di fuori della storia esisteva un mondo di cui la storia era solo un estratto. C’è però un’altra chiave di lettura del successo di Tolkien, ed è l’invenzione (straordinariamente moderna) degli hobbit. Questi esseri bassi e dai piedi pelosi sono più simili per atteggiamento, sentimenti e modi di vita (hanno il sistema postale e usano i fiammiferi, tutte cose molto recenti) alla middle class vittoriana o edoardiana che all’antico mondo dei guerrieri e delle saghe nordiche. Per questo gli hobbit un totale anacronismo nella Terra di Mezzo e rappresentano un espediente che diminuisce il divario tra l’epoca scelta dall’autore e la moderna consapevolezza dei lettori, che attraverso di loro hanno uno specchio per sapere cosa si proverebbe a vivere in quel mondo: Bilbo Baggins è una persona moderna, o quanto meno una persona del XX secolo che sembra sempre fuori posto nel mondo arcaico ed eroico nel quale viene trascinato. Infatti, nel vasto e non romanzesco corpus di scritti postumi che andranno a comporre Il Silmarillion, gli hobbit non ci sono e gli elfi, gli uomini e i nani sono immersi pienamente nei valori etici dell’antichità e del Medioevo. Questo anacronismo si rivela poi nel linguaggio e nel registro stilistico, e Shippey è bravissimo a metterlo in luce nelle varie situazioni: da grande scrittore, Tolkien conosceva benissimo le implicazioni dello stile e del linguaggio, facendolo aderire con grande flessibilità alle origini profonde dei personaggi e, quindi, facendo rimanere saldamente ancorato lo stile alla narrazione. Shippey affronta poi il paradosso del Tolkien cattolico devoto e praticante il cui capolavoro è un’opera cristiana che però non contiene alcun riferimento diretto alla religione: il fatto che le radici di Tolkien siano cattoliche non implica che il racconto si esaurisca in esse. Utilizzò valori e simbologie cristiane ma non fece teologia attraverso la narrazione e, soprattutto, non compose un’allegoria cristiana (anzi, odiava dichiaratamente le allegorie): suo interesse principale era riconciliare aspetti apparentemente incompatibili come il cristianesimo e il paganesimo (o sarebbe meglio dire il pre-cristianesimo), facendo confluire tutte le istanze epico-cavalleresche di quel mondo pre-cristiano che lui amava. Inoltre, i miti della Terra di Mezzo rifiutano con determinazione qualsiasi senso di estrema salvezza: anche coloro che vincono sembrano essere sull’orlo di una situazione di disperazione esistenziale, anche se ben bilanciata dall’abilità di Tolkien di dosare accettazione, ottimismo e buon umore. Lo stesso Silmarillion non replica la Genesi biblica, ma offre un punto di vista alternativo sul peccato originale, non dovuto al desiderio della conoscenza del bene e del male ma al desiderio di creazione, controllo e potere. Allo stesso modo, molti hanno tentato di sovrapporre gli eventi del Novecento agli eventi del romanzo, vedendo parallelismi Hitler-Sauron e Stalin-Saruman o identificando l’Anello con le armi atomiche, ma anche in questo caso bisogna rifuggire dalle allegorie: il male di Tolkien è quello storico, morale, che si trova nel mondo ma soprattutto dentro di sé. Un solo appunto per l’autore dell’introduzione all’edizione italiana Franco Manni: laddove dice che generalmente il critico ostile considera Tolkien autore fantasy o heroic fantasy o sword and sorcery e lo confonde con “la pletorica massa degli scrittori dello stesso genere come Terry Brooks, Robert E. Howard, Michael Moorcock, Marion Zimmer Bradley, Gary Gigax e tantissimi altri, scrittori poveri di cultura, spesso non originali nell’ispirazione, stereotipi nell’invenzione, prevedibili nell’intreccio, mediocri nello stile”, dimostra di cadere nello stesso tranello e di considerare il fantasy un unico enorme calderone privo di qualità. Oltretutto, Marion Zimmer Bradley non è assolutamente heroic fantasy o sword and sorcery, e non credo si possano liquidare così frettolosamente e superficialmente il fulgido eroismo barbarico di Robin E. Howard e il fantasy barocco e lisergico di Michael Moorcock (autore che, tra l’altro, ha sempre cercato di smarcarsi dichiaratamente e polemicamente da Tolkien), autori molto poliedrici che Manni evidentemente non conosce.

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