giovedì 9 ottobre 2014

Paul Féval - Il cavaliere di Lagardère

 
Uno dei miei crucci più grandi è che molti bellissimi romanzi sono del tutto assenti dal mercato. Per anni sono andato a caccia di Scaramouche di Rafael Sabatini senza trovarlo finché non l’ha ripubblicato (non so con quali esiti) la Donzelli, cosa che mi ha regalato momenti di pura felicità ed ebbrezza, ma Le bossu di Paul Féval (un romanzo del 1858) ha continuato clamorosamente a mancare. E così mi sono detto: “Perché non contribuire a farlo ripubblicare?”. Detto fatto. Esce per Gondolin Il cavaliere di Lagardère, titolo italiano con cui Le bossu è stato conosciuto in Italia, primo titolo di una serie di romanzi del passato che vorrei riportare alla luce anche dalle nostre parti, nella triste certezza che simili iniziative non abbiano praticamente mercato (si sa che romanzi d’avventura, feuilleton e cappa e spada sono considerati noiosi, fuori dal tempo o, ancora peggio, “per ragazzi”, insomma non adatti alla complessità della nostra epoca e alla profondità di chi fa Letteratura vera). Certo, Il cavaliere di Lagardère è il classico esempio del genere cappa e spada, ambientato in Francia, con un protagonista sempre pronto a duellare di lama e a compiere una missione per salvare una dama in pericolo, contro un nemico spietato e risoluto e una variegata schiera di bravi e tagliagole prezzolati, con il corredo di briganti smargiassi e spacconi (in questo caso un guascone e un normanno, i leggendari Cocardasse e Passepoil) ma dal valore cristallino e dal cuore d’oro. È un romanzo sull’amicizia, la vendetta, l’amore e la gelosia, ma soprattutto è capace di far riemergere la memoria di un’epoca in cui gli uomini mettevano in gioco la vita per la difesa dell’onore (parola che in una società allo sbando come la nostra sembra sempre più anacronistica). Narra infatti la storia di un giovane spadaccino rubacuori e scavezzacollo, Henri de Lagardère, che nel 1699, in una regione dei Pirenei francesi, si ritrova al centro di un complotto ordito dal principe di Gonzaga per uccidere il duca di Nevers, sposarne la vedova e impossessarsi della fortuna della neonata figlia Aurore. Lagardère giura al morente Nevers di prendersi cura della figlia e al suo misterioso assalitore di vendicarsi («Se tu non verrai da Lagardère, Lagardère verrà da te»), quindi scappa con la piccola Aurore e la alleva facendole credere di essere suo padre. Lo ritroviamo 19 anni dopo a Parigi, durante la scintillante reggenza di Philippe d’Orléans: travestito da gobbo, è pronto a conquistarsi la fiducia di Gonzaga (il malvagio assassino e usurpatore) e di realizzare la sua vendetta. Ovviamente, la realizzazione della stessa è resa possibile grazie al colpo segreto posseduto da Lagardère, la botta di Nevers, una micidiale stoccata in mezzo agli occhi che non lascia speranza a chi la riceve: Féval descrive il procedimento per metterla in atto con dovizia di particolari, attingendo alla terminologia della scherma, cosa che gli riuscì unicamente in virtù del suo grande talento di scrittore dal momento che, come ebbe poi a confessare suo figlio, egli ignorava del tutto simile arte bellica (miracoli della letteratura). Divisa in sei parti, la narrazione non è così ovvia e lineare come si potrebbe pensare: tutta la terza parte corrisponde alla rievocazione dell’infanzia di Aurore e delle sue avventure per sfuggire ai sicari di Gonzaga grazie alla protezione di Lagardère attraverso il diario che la fanciulla scrive rivolgendosi alla madre sconosciuta, ed è quindi interamente in prima persona; dalla quarta alla sesta parte, invece, è messo in scena l’ingegnoso intrigo attraverso cui il gobbo riesce a smascherare pian piano Gonzaga agli occhi del reggente, con la frequente variazione dei punti di vista tra Lagardère, Aurore e sua madre. Inoltre, l’introduzione del personaggio del gobbo permette all’autore di ampliare di molto il suo raggio di azione: se i cattivi ci sono e sono memorabili (il malefico Gonzaga e il suo lugubre scherano Peyrolles), il protagonista non sarebbe lo stesso se rimanesse sempre e solo Lagardère. L’eroe, per forza di cose, in romanzi come questi non può che essere retto, puro, onesto, eroico, pronto a dare la vita, e infatti Henri de Lagardère è tutto questo, se non di più: addirittura, non osa confessare ad Aurore il suo amore per lei nonostante sappia di essere ricambiato dalla fanciulla. Il fatto che Féval lo faccia travestire da gobbo rappresenta un espediente narrativo di incredibile efficacia: il gobbo è, per sua natura, un personaggio liminare, di confine, a cavallo tra la normalità e il bizzarro. È grottesco, sardonico, volgare, a volte anche brutale («“Io voglio che mi si ami,” disse con accento di sincera ferocia, “tanto peggio per quelle che non ci riescono!”»), e viene accettato dalla società (e sempre fino a un certo punto) solo in quanto infido, intrigante e utile per uno scopo sinistro e malvagio. Infine, una parola sull’ambientazione storica: Féval non si limita a prendere la Francia del Seicento/Settecento come in tutti gli altri romanzi del genere cappa e spada, ma immerge tutta la seconda parte della vicenda in un periodo molto particolare e poco conosciuto, quello della Reggenza di Philippe d’Orléans: questi, succeduto a Luigi XIV approfittando della minore età di Luigi XV, ha infatti iniziato un’abile politica economica e ha dato vita a un sistema finanziario moderno, con tanto di borsa e di banche private. «Fu il regno dell’orgia e l’oro fu Dio», dice Féval parlando di quell’epoca: tutti gli speculatori del periodo spendono cifre astronomiche per garantirsi una fetta della torta e a corte si organizza perfino un gran ballo con spettacoli pirotecnici per celebrare il credito e le speculazioni coloniali, cose che mettono la Francia a capo di tutte le nazioni del mondo e sanciscono la fine di carestie, miserie e guerre. Una specie di riflessione amara sulle illusioni della finanza e di una ricchezza che garantisce l’impunità, tanto che il perfido Gonzaga, ricco quanto se non più del reggente, dichiara spavaldo: «Ho sufficienti milioni per comperare tutta la giustizia della terra». Ed è così che il nostro Lagardère, travestito da gobbo che affitta la sua gobba ai commercianti di azioni, diventa il giustiziere di un mondo corrotto e soffocato dal denaro.

3 commenti:

  1. Per via dell'età non posso che essere felice di questa iniziativa.Possiedo alcuni volumi del genere che tengo carissimi e che potrei prestare perchè siano letti e goduti come è stato per me.

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  2. Ho letto e riletto questo libro...è meraviglioso. La prima volta ero appena adolescente e rimasi colpito dall'amore romantico che pulsa tra le righe del romanzo. Merita un'attenzione mai ricevuta, sono dunque grato per questo articolo.

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  3. Da ragazzino ce lo contenevano, io e mia sorella (di tre anni più "vecchia") e dopo averlo letto e riletto, ce lo raccontavamo a vicenda, scambiandoci le impressioni e amandolo sempre più. E quando per televisione passava il vecchio film "La spada degli Orleans" con Jean Marais, lo costavano felici e poi tornavano a leggere il libro, che poco a poco, perdeva le pagine! Oggi, a distanza di più di 40 anni, l'ho ritrovato e acquistato, per farne un regalo a mia figlia che presto festeggerà il suo compleanno! Chissà, magari un giorno saranno i miei nipotini, che oggi hanno 6 e 3 anni, a leggerlo e commentarlo, come decenni fa fecero il loro nonno e la prozìa! Lo spero, perché in fondo in fondo, un bel libro è sempre un compagno di vita!

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