martedì 16 giugno 2015

Sophie Kinsella - Dov'è finita Audrey?

Primo romanzo young adult per Sophie Kinsella che, con Dov’è finita Audrey, ci regala un bellissimo e freschissimo sguardo sui problemi degli adolescenti (soprattutto in relazione al mondo degli adulti) creando una protagonista quattordicenne, Audrey, che vive il dramma degli attacchi di panico e d’ansia perché è stata oggetto di bullismo a scuola: porta sempre dei grandi occhiali scuri per nascondersi da tutti, non può guardare le persone negli occhi (gesto che per lei significa entrare in intimità), fugge da tutto e tutti ed è prigioniera nella sua casa. Come parte della terapia deve riprendere con una telecamera la sua famiglia (la dottoressa dice che, attraverso una telecamera, dovrebbe riuscire a guardare gli altri negli occhi) e le scene da lei registrate (che possiamo “vedere” attraverso degli script stile sceneggiatura) ci mostrano uno spaccato familiare assolutamente schizzato: una madre iperprotettiva e ossessionata dalle rubriche di consigli del “Daily Mail”, un padre assente che passa il tempo a guardare le Alfa Romeo su Google, un fratello maggiore fissato con i videogiochi (punta a partecipare al torneo internazionale di Land of Conquerors, premio 6 milioni di dollari) che vede (letteralmente) volare il suo computer dalla finestra perché la madre glielo butta giù. Solo grazie all’amicizia (e all’amore) con il nerd poetico Linus, amico del fratello, Audrey inizierà il suo percorso di guarigione acquistando progressivamente fiducia in se stessa, ma anche la famiglia riveste un ruolo importante (non solo Audrey è aiutata dal fratello ma, curiosando tra le mail del padre, scopre di essere al centro delle preoccupazioni dei genitori). Come sempre mai banale, la Kinsella affronta problemi tristi e seri utilizzando il suo tradizionale stile brillante e umoristico, riuscendo più volte a strappare una risata e, soprattutto, a portarci a vedere le cose dal punto di vista della sua sensibile e vulnerabile protagonista (il romanzo è narrato in prima persona, con il linguaggio esagerato degli adolescenti). Cosa che riesce solo ai grandi scrittori.

mercoledì 10 giugno 2015

Lindy Woodhead - Mr. Selfridge. Shopping e seduzione

Due anni fa ho scoperto la serie televisiva Mr. Selfridge, uno dei prodotti migliori e più frizzanti che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi (e per questo sospetto di nessun successo in Italia), incentrata sulla vita del visionario imprenditore Americano Harry Gordon Selfridge, fondatore dei grandi magazzini Selfridges di Oxford Street e capace di trasformare e plasmare lo stesso concetto di negozio (sino ad allora ritenuto volgare) grazie alla sua incrollabile convinzione che lo shopping fosse un’esperienza eccitante e appagante. Incredibilmente la Vallardi ha pubblicato il libro biografico da cui questa serie è stata tratta, Shopping, Seduction & Mr. Selfridge, scritto da Lindy Woodhead in italiano diventato semplicemente Mr. Selfridge. Shopping e seduzione, più simile al titolo della serie (e infatti in copertina campeggiano il protagonista Jeremy Piven e Frances O’Connor che interpreta la moglie Rose). I feroci moralisti che demonizzano la società dei consumi dovrebbero starne alla larga, ma io ne caldeggio ugualmente la lettura in quanto non solo (come diceva Oscar Wilde) «viviamo in un’epoca in cui il superfluo è la nostra unica necessità», ma anche perché si tratta di un contributo importante (e di facile lettura) per capire come è cambiata la società attraverso lo shopping, di quanto i grandi magazzini sono stati uno dei motori che hanno impresso un cambiamento e uno dei mezzi attraverso cui si sono realizzate le istanze di rinnovamento sociale nel corso della prima metà del Novecento. I grandi magazzini portarono infatti una vera e propria rivoluzione nel commercio: erano fondati sull’idea di vedere a “clienti di ogni classe” (assolutamente aliena ai commercianti britannici dell’epoca), accettavano pagamenti in contanti e prevedevano sistemi di credito mensili solo per alcuni clienti selezionati. Nessuno come Selfridge riuscì a comprendere il concetto di consumo come intrattenimento sensuale, e nessuno fu maggiormente portatore di un esuberante anticonformismo rispetto a una società resistente e compassata come quella edoardiana (l’“Anglo-Continental Magazine” osservò, con tono molto puritano: «Selfridge usa ogni artifizio per adescare l’elemento femminile e spingerlo verso quegli eccessi che portano rovina e miseria nelle nostre case»), in un’epoca in cui le donne incominciavano a sperimentare un nuovo senso di libertà e modernità (di stile, sessuale ma anche politica, e non a caso questi sono gli anni delle suffragette): per la prima volta, le donne poterono “varcare il confine”, avventurarsi nei luoghi pubblici per comprare cose per se stesse ed essere osservate mentre si godevano le compere senza peraltro che questo mettesse a repentaglio la loro reputazione. Dopo un’esperienza maturata da Marshall & Field di Chicago, ma soprattutto dopo aver visto da vicino il grande magazzino Au Bon Marché di Parigi (il primo a vendere un assortimento infinito di merce, a garantire la sostituzione dei pezzi o un rimborso e l’entrata libera senza obbligo di pagare), Selfridge fu il primo a posizionare il reparto profumi e cosmetici subito oltre l’ingresso principale, a promuovere promozioni e sfilate all’interno degli spazi di vendita, a fare dell’allestimento delle vetrine una forma d’arte (erano realizzate come se fossero quadri), a provocare la morale tradizionale (lanciò una pubblicità per il ristorante con l’immagine di una coppia che si guardava in modo seducente al di sopra delle posate, in un’epoca che prevedeva che uomini e donne non venissero mai mostrati insieme) e a inventare le offerte (lo “scantinato delle occasioni”, da dove i clienti potevano servirsi e portare a casa quel che avevano comprato, cosa inaudita perché di norma gli acquisti in tutti gli altri reparti venivano recapitati a casa). Capace di rinnovarsi senza snaturarsi («Un negozio dev’essere come una canzone di cui non ci si stanca mai», soleva ripetere), attento alle esigenze del cliente (all’apertura regalò a tutti delle chiavi d’argento perché si sentissero a casa, e notava di voler installare più ascensori perché far aspettare troppo le persone non andava bene), dotato di un’energia maniacale (aveva sempre l’orologio cinque minuti avanti «per avere cinque minuti in più da vivere» e riceveva le persone girando una clessidra da quindici minuti sul tavolo), capace di valorizzare e spronare il proprio personale (pur sempre vedendo di cattivo occhio i sindacati), megalomane ed eccentrico (era un convinto assertore dell’idea che il suo negozio fosse la terza attrazione della città, dopo Buckingham Palace e la Torre di Londra), estremamente attento all’innovazione tecnologica (considerava qualunque forma di telecomunicazioni, per quanto embrionale, strumento essenziale per gli affari, e ospitò la prima dimostrazione della televisione a opera di John Logie Baird nel 1925), fu anche il primo a intuire le possibilità offerte dal mezzo pubblicitario attraverso operazioni pionieristiche e spericolate: per esempio, ospitò nel negozio l’aereo di Louis Blériot, il primo uomo che sorvolò la Manica su un biplano nel 1909, e fu il primo imprenditore a volare per affari fino a Dublino per trattare l’acquisto di un noto negozio della città, dichiarando alla stampa: «Basta questo a mostrare quali possibilità il trasporto aereo ad alta velocità offra agli uomini d’affari che non hanno tempo da perdere». Il libro, che (non dobbiamo dimenticarlo) è una biografia, prende in esame anche gli aspetti più intriganti e oscuri della vita privata di Selfridge: era felicemente sposato ma seduttore incallito, capace di dilapidare fortune al gioco e in regali alle amanti (nei ruggenti anni Venti fu uno dei migliori clienti dei più sfarzosi casinò francesi e si accompagnava alle famigerate Dolly Sisters), e come tutti gli uomini vincenti si rifiutava di invecchiare (all’età di 64 anni si recò a Vienna per sottoporsi a dei trattamenti anti-invecchiamento con ghiandole di scimmia). Incappò in una serie di investimenti finanziari sbagliati tanto da trovarsi del tutto impreparato allo scoppio della Grande Depressione dopo la Crisi del ’29 e a essere costretto a lasciare il suo negozio, finendo la sua vita in povertà. Senza sapere che, nello scantinato del bellissimo palazzo edoardiano da lui fatto costruire per il suo negozio, gli Alleati avevano installato il centro di un sistema di telecomunicazioni top-secret d’avanguardia, in quanto ritenuto uno dei luoghi più sicuri di Londra.

lunedì 8 giugno 2015

Wu Ming 1 - Cent'anni a Nordest

“Bentornati, fantasmi della diserzione”. Con questa potentissima frase di rivolta Wu Ming 1 chiude questo suo saggio militante e in pieno stile Wu Ming sul Nordest e la Grande Guerra, madre di molte rimozioni storiche e di mitologie tossiche artefatte che non cessano di parlare al presente. L’ho letto da veneto (veneziano), senza particolari pregiudizi, e l’ho apprezzato moltissimo. Anzi, devo ammettere che è talmente efficace da avermi fatto vergognare per aver covato sentimenti autonomisti, e scusate se è poco. Wu Ming 1 è riuscito, da sinistra, a fotografare in maniera impietosa tutte le contraddizioni della mia terra, ma soprattutto è riuscito a rendere la Storia qualcosa di vivo e di attuale, scavando negli innumerevoli strati e nelle molteplici incrostazioni di un Paese che non fa mai i conti con il suo passato e le cause dello sfacelo attuale. L’oggetto della sua analisi è il territorio del Nordest (Veneto, Trentino, Alto Adige, Friuli, Venezia Giulia), che comprende tre regioni di cui due a statuo speciale (la terza, il Veneto, vorrebbe diventarlo) e che un tempo era indicato con il termine “le Tre Venezie” (grazie all’espressione coniata nell’Ottocento dal linguista genovese Graziadio Isaia Ascoli), poi divenuto “Triveneto” e infine “Nordest”. Una zona irregolare dal punto di vista fisico, che contiene territori e paesaggi diversissimi, zone sviluppate e zone depresse, ma anche zona liminare, di confine, frontiera di mondi e culture, multilingue e meticcia, fra Italia e impero austroungarico, ma anche tra romanità e barbarie slava, «un mix di memorie rimosse, tensioni culturali, incertezze identitarie ed eredità inconfessate». Qui si parlano, oltre all’italiano e al dialetto veneto (nelle sue diverse declinazioni), il tedesco in diverse varianti, lo sloveno in tre o quattro forme, e lingue retroromanze come il ladino e il furlano. In meno di quarant’anni, questa terra è passata dalla miseria di una società contadina al boom economico della piccola impresa familiare e paternalistica (con il culto del lavoro), boom affrontato senza anticorpi e adeguati contrappesi che hanno portato il Veneto a essere la regione più cementificata d’Italia, con sempre nuovi e più ambiziosi progetti (VenetoCity, Città della Moda, Polo Logistico di Giare) nonostante i ripetuti scandali su corruzione e Grandi Opere (culminati nella tristissima vicenda del MOSE), e a essere attraversata da rigurgiti indipendentisti (la Lega, ma anche il Fronte Furlan e il Movimento Trieste Libera) che vedono nella chiusura e nella xenofobia l’unica via per combattere la crisi e i problemi del nostro tempo, tra idilliache nostalgie asburgiche e nuove venerazioni per Putin (mitologico eroe delle autonomie locali, difensore della tradizione, della famiglia eterosessuale e di una società ordinata). Oggi, proprio in occasione del centenario della Grande Guerra, questi luoghi sono tornati a essere oggetto di appropriazioni ideologiche e di iniziative turistiche a scopo di lucro: qui infatti c’era il fronte e scorreva il Piave (anzi, “la Piave”, ma diventato maschile in quanto fiume dell’eroismo nazionale), qui ebbero luogo le grandi mattanze, la ritirata post-Caporetto e la controffensiva vittoriosa, di cui si conservano ancora le memorie grazie a una distesa di cimiteri di guerra, sacrari, ossari, mausolei e monumenti. Un territorio che fu scoperto dal resto dell’Italia proprio durante la Grande Guerra, che conteneva Trento e Trieste, nominate sempre insieme tanto che tutti credevano fossero vicine nonostante i 200 chilometri di distanza in linea d’aria (il poeta Umberto Saba la descrisse come le “diastole e sistole” del battito cardiaco), terre irredente che facevano parte dell’Austria. Ma qui ci sono anche le montagne, utilizzate in chiave nazionalista e irredentista contro l’odiata Austria grazie all’instancabile opera del CAI prima e del Touring Club poi. Dal 1918 queste zone subirono decenni di italianizzazione forzata e un’operazione di cosmesi della Grande Guerra resa necessaria per rendere accettabile ed eroico qualcosa che di accettabile e di eroico non aveva nulla (massacri insensati nel fango e negli escrementi); lo stesso culto dei caduti era legato a doppia mandata alla conquista delle terre ex irredente e al primato della razza italiana su quella slava. Nella Venezia Giulia ai tempi di D’Annunzio si facevano discorsi fascisti ben prima che il fascismo fosse inventato, e non a caso il generalissimo Cadorna (uno dei massimi responsabili della mattanza) dava la colpa alle cospirazioni giudaiche. Quest’operazione di cosmesi ha poi contagiato anche i simboli sacri della Grande Guerra, come gli Alpini, e li ha ridotti a oleografia cancellandone le zone d’ombra (come per esempio i crimini di guerra da loro compiuti durante l’occupazione nazifascista della Jugoslavia e la loro adesione alla repressione antipartigiana), per non parlare dei carabinieri, che durante la guerra erano disposti alle spalle dei soldati durante gli assalti alla trincee nemiche ed erano incaricati di sparare a chi indietreggiava o semplicemente esitava ad andare al macello. Non desta meraviglia che si sia continuato a tacere delle decimazioni, del fatto che quasi un decimo dei mobilitati subì indagini disciplinari, delle 4.000 condanne a morte per insubordinazione, un dato che non trova riscontro negli altri eserciti (alleati o nemici che fossero). Quello che stupisce è che ancora oggi si persegua la stessa retorica patriottarda, che si continuino a silenziare le voci fuori dal coro (ancora nel 1996 l’Associazione Nazionale Alpini ha diffidato i suoi iscritti dal partecipare a iniziative di riabilitazione di quattro alpini fucilati per insubordinazione, rei di aver proposto un piano alternativo a una missione inutile e suicida), «perché diserzione e disobbedienza non sono “acqua passata sotto i ponti”, ma domande poste al presente, a chi vuole la guerra oggi», e una messa in discussione della retorica del “leader” (più che mai vera in questi tempi di renzismo dilagante), «dell’uomo solo al comando, dell’uomo della provvidenza di turno, di colui che se ne frega dei dissensi e tira diritto».

domenica 7 giugno 2015

Roberto Saviano - Gomorra

Scoprire Gomorra nove anni dopo la sua pubblicazione, mentre nel frattempo sono arrivati il successo globale, i milioni di copie vendute, la scorta a Saviano, le polemiche, un film e una serie televisiva. Sembrerà strano, ma è come se il sottoscritto fosse vissuto su Marte. E alla fine l’ho letto, in due giorni, in una specie di weekend allucinato, lasciandomi trasportare e conquistare. Ricordo che al master in editoria da me fatto c’era un editor che disse che Saviano era stato frettoloso e che Gomorra sarebbe potuto essere più curato e, quindi, migliore. Chi può dirlo. Forse Saviano voleva talmente denunciare il sistema-camorra della sua terra da fare uscire il libro il più in fretta possibile. Però è proprio questo il suo fascino: Gomorra è un oggetto narrativo non identificato, un ibrido che presenta un materiale magmatico di diversa provenienza (atti giudiziari, istruttorie, ricostruzioni storiche, testimonianze dirette) e che procede non in ordine cronologico ma per tematica, come una vera propria inchiesta, ma allo stesso tempo intermezza il tutto con una narrazione in soggettiva che coincide solo in parte al narratore Saviano e che assomiglia più a un “io collettivo” che comprende molti voci, come se Saviano avesse voluto diventare il megafono per molte esperienze diverse, tutte personali. Da questo emerge un’idea di narrazione molto forte e autorale (cosa che un giornalista che scrive un libro di inchiesta non avrà mai) che trasforma il libro in una vera e propria mazzata sui denti e in un grido di rivolta contro una situazione che sembra immutabile (la gente continua a morire giorno dopo giorno nella più totale assuefazione). Saviano fornisce un lucido spaccato della situazione dell’hinterland campano, talmente complessa e stratificata da poter essere veramente compresa solo da chi la vive: analizza i meccanismi di potere, gli innumerevoli tentacoli con cui la camorra è penetrata nella società, i legami familiari, la guerra di Secondigliano, i numeri degli omicidi (la camorra è quella che fa più morti di tutte le varie mafie), le ramificazioni nel Nord Italia e a livello internazionale (i casalesi vendevano armi all’Argentina durante la guerra delle Falklands e al generale Arkan durante nei Balcani), l'antropologia rituale (come vengono messi in scena i funerali dei camorristi), la cultura della morte e delle armi da fuoco (il kalashnikov!), lo smaltimento dei rifiuti tossici (la famigerata Terra dei Fuochi), i modelli di stile di riferimento (quasi sempre provenienti dal cinema hollywoodiano e la musica neomelodica), la necessità di parlare un linguaggio comune per ottenere riconoscimento e rispetto. Lo scrittore si spinge ancora più in là e fa della camorra una parte fondante del business contemporaneo e delle teorie ultraliberiste che governano il mondo occidentale (i boss vengono arrestati ma il sistema perdura, cambiando e trasformandosi continuamente), giungendo a identificarla completamente con l’imprenditoria (non sono i camorristi a inseguire gli affari, ma gli affari a inseguire i camorristi, e non è la camorra ad avere bisogno della politica, ma la politica ad avere bisogno della camorra): non a caso le inimicizie tra i boss non sono semplice folklore, ma il motore economico di un’intera regione e di logiche addirittura nazionali. Gomorra però è anche un commovente e impietoso spaccato sulla manovalanza del crimine, quelle generazioni di giovani senza speranza per cui l’affiliazione a un clan è il primo passo per entrare nella società, che sognano di diventare imprenditori e di raggiungere il successo mondano come Briatore, che sognano la bella morte onorevole ma si scontrano con una realtà direttamente opposta, fatta di brutali regolamenti di conti, imboscate e morti inattese.