
“Bentornati, fantasmi della diserzione”. Con questa potentissima frase di rivolta Wu Ming 1 chiude questo suo saggio militante e in pieno stile Wu Ming sul Nordest e la Grande Guerra, madre di molte rimozioni storiche e di mitologie tossiche artefatte che non cessano di parlare al presente. L’ho letto da veneto (veneziano), senza particolari pregiudizi, e l’ho apprezzato moltissimo. Anzi, devo ammettere che è talmente efficace da avermi fatto vergognare per aver covato sentimenti autonomisti, e scusate se è poco. Wu Ming 1 è riuscito, da sinistra, a fotografare in maniera impietosa tutte le contraddizioni della mia terra, ma soprattutto è riuscito a rendere la Storia qualcosa di vivo e di attuale, scavando negli innumerevoli strati e nelle molteplici incrostazioni di un Paese che non fa mai i conti con il suo passato e le cause dello sfacelo attuale. L’oggetto della sua analisi è il territorio del Nordest (Veneto, Trentino, Alto Adige, Friuli, Venezia Giulia), che comprende tre regioni di cui due a statuo speciale (la terza, il Veneto, vorrebbe diventarlo) e che un tempo era indicato con il termine “le Tre Venezie” (grazie all’espressione coniata nell’Ottocento dal linguista genovese Graziadio Isaia Ascoli), poi divenuto “Triveneto” e infine “Nordest”. Una zona irregolare dal punto di vista fisico, che contiene territori e paesaggi diversissimi, zone sviluppate e zone depresse, ma anche zona liminare, di confine, frontiera di mondi e culture, multilingue e meticcia, fra Italia e impero austroungarico, ma anche tra romanità e barbarie slava, «un mix di memorie rimosse, tensioni culturali, incertezze identitarie ed eredità inconfessate». Qui si parlano, oltre all’italiano e al dialetto veneto (nelle sue diverse declinazioni), il tedesco in diverse varianti, lo sloveno in tre o quattro forme, e lingue retroromanze come il ladino e il furlano. In meno di quarant’anni, questa terra è passata dalla miseria di una società contadina al boom economico della piccola impresa familiare e paternalistica (con il culto del lavoro), boom affrontato senza anticorpi e adeguati contrappesi che hanno portato il Veneto a essere la regione più cementificata d’Italia, con sempre nuovi e più ambiziosi progetti (VenetoCity, Città della Moda, Polo Logistico di Giare) nonostante i ripetuti scandali su corruzione e Grandi Opere (culminati nella tristissima vicenda del MOSE), e a essere attraversata da rigurgiti indipendentisti (la Lega, ma anche il Fronte Furlan e il Movimento Trieste Libera) che vedono nella chiusura e nella xenofobia l’unica via per combattere la crisi e i problemi del nostro tempo, tra idilliache nostalgie asburgiche e nuove venerazioni per Putin (mitologico eroe delle autonomie locali, difensore della tradizione, della famiglia eterosessuale e di una società ordinata). Oggi, proprio in occasione del centenario della Grande Guerra, questi luoghi sono tornati a essere oggetto di appropriazioni ideologiche e di iniziative turistiche a scopo di lucro: qui infatti c’era il fronte e scorreva il Piave (anzi, “la Piave”, ma diventato maschile in quanto fiume dell’eroismo nazionale), qui ebbero luogo le grandi mattanze, la ritirata post-Caporetto e la controffensiva vittoriosa, di cui si conservano ancora le memorie grazie a una distesa di cimiteri di guerra, sacrari, ossari, mausolei e monumenti. Un territorio che fu scoperto dal resto dell’Italia proprio durante la Grande Guerra, che conteneva Trento e Trieste, nominate sempre insieme tanto che tutti credevano fossero vicine nonostante i 200 chilometri di distanza in linea d’aria (il poeta Umberto Saba la descrisse come le “diastole e sistole” del battito cardiaco), terre irredente che facevano parte dell’Austria. Ma qui ci sono anche le montagne, utilizzate in chiave nazionalista e irredentista contro l’odiata Austria grazie all’instancabile opera del CAI prima e del Touring Club poi. Dal 1918 queste zone subirono decenni di italianizzazione forzata e un’operazione di cosmesi della Grande Guerra resa necessaria per rendere accettabile ed eroico qualcosa che di accettabile e di eroico non aveva nulla (massacri insensati nel fango e negli escrementi); lo stesso culto dei caduti era legato a doppia mandata alla conquista delle terre ex irredente e al primato della razza italiana su quella slava. Nella Venezia Giulia ai tempi di D’Annunzio si facevano discorsi fascisti ben prima che il fascismo fosse inventato, e non a caso il generalissimo Cadorna (uno dei massimi responsabili della mattanza) dava la colpa alle cospirazioni giudaiche. Quest’operazione di cosmesi ha poi contagiato anche i simboli sacri della Grande Guerra, come gli Alpini, e li ha ridotti a oleografia cancellandone le zone d’ombra (come per esempio i crimini di guerra da loro compiuti durante l’occupazione nazifascista della Jugoslavia e la loro adesione alla repressione antipartigiana), per non parlare dei carabinieri, che durante la guerra erano disposti alle spalle dei soldati durante gli assalti alla trincee nemiche ed erano incaricati di sparare a chi indietreggiava o semplicemente esitava ad andare al macello. Non desta meraviglia che si sia continuato a tacere delle decimazioni, del fatto che quasi un decimo dei mobilitati subì indagini disciplinari, delle 4.000 condanne a morte per insubordinazione, un dato che non trova riscontro negli altri eserciti (alleati o nemici che fossero). Quello che stupisce è che ancora oggi si persegua la stessa retorica patriottarda, che si continuino a silenziare le voci fuori dal coro (ancora nel 1996 l’Associazione Nazionale Alpini ha diffidato i suoi iscritti dal partecipare a iniziative di riabilitazione di quattro alpini fucilati per insubordinazione, rei di aver proposto un piano alternativo a una missione inutile e suicida), «perché diserzione e disobbedienza non sono “acqua passata sotto i ponti”, ma domande poste al presente, a chi vuole la guerra oggi», e una messa in discussione della retorica del “leader” (più che mai vera in questi tempi di renzismo dilagante), «dell’uomo solo al comando, dell’uomo della provvidenza di turno, di colui che se ne frega dei dissensi e tira diritto».
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