venerdì 4 settembre 2015

Joseph Roth - La marcia di Radetzky

Reduce da un viaggio a Vienna mi sono lanciato alla scoperta di uno scrittore a me sconosciuto ma considerato il più grande cantore della finis Austriae, Joseph Roth, iniziando da La marcia di Radetzky, bellissimo e dolente romanzo intitolato come il celeberrimo brano di Johann Strauss, conosciuto da tutti in chiave pop come la chiusura del Concerto di Capodanno di Vienna ma in realtà composto per celebrare la vittoria degli austriaci a Custoza nel 1848 e divenuto il simbolo delle vittorie dell’Impero asburgico. A dispetto di questo titolo trionfale, il romanzo si apre con una sconfitta militare (la battaglia di Solferino del 1859) e continua con il racconto del tramonto di un Impero multietnico come quello austroungarico e di un intero mondo, travolto dalla Prima Guerra Mondiale e dalle nuove istanze politiche e sociali (il socialismo, le identità nazionali) che si stanno affermando in Europa, ma ancora prima profondamente malato e inesorabilmente avviato all’autodistruzione, assimilabile alla decrepitezza di Sua Maestà Apostolica Francesco Giuseppe che, sempre più vecchio, veglia sui sudditi con sguardo paterno e rassicurante, ignaro dell’avvicinarsi della fine («pareva essere rimasto chiuso nella sua fredda ed eterna, argentea e spaventosa senilità, come in una corazza di prezioso cristallo»). Roth racconta tutto questo a posteriori con un fatalismo programmatico e inesorabile e lo veicola alla storia della famiglia Trotta, attraverso tre generazioni, sino alla sua estinzione, che coincide con quella dell’Impero di cui è la perfetta incarnazione. Una storia nata con il luogotenente di fanteria Joseph Trotta, che salva la vita all’imperatore durante la battaglia di Solferino e diventa il barone Joseph von Trotta di Sipolje: un rigido militare tutto d’un pezzo che, un po’ assurdamente, pretende che il suo eroico gesto venga espunto dai libri di storia per le scuole perché non raccontato in modo veritiero; suo figlio, Franz, è un altrettanto rigido e monotono sottoprefetto della burocrazia asburgica, talmente assimilato alla sua funzione da giungere ad assomigliare anche fisicamente all’imperatore (e a morire pochi giorni dopo di lui); infine, Carl Joseph, il nipote dell’eroe di Solferino, sembra destinato a una felice carriera militare, ma in seguito a uno scandalo e al senso di colpa (causa involontariamente la morte in duello del suo migliore amico, il dottor Demant, per aver accompagnato a casa la moglie una sera) sceglie di lasciare il nobile reggimento dei dragoni di cui fa parte e si fa trasferire in fanteria, in un estremo e fangoso avamposto orientale dell’Impero, al confine con la Russia, dove sperimenta il vuoto, lo spaesamento e la solitudine, e precipita nell’alcol, nel gioco d’azzardo e nei debiti. Decide di cambiare vita e di dare le dimissioni dall’esercito proprio allo scoppio della guerra, ma la cosa è considerata vigliaccheria ed è costretto a tornare in servizio per essere ucciso subito, senza neanche aver combattuto. Attraverso il difficile rapporto padri-figli (gerarchizzato in un ordine di tipo antico e caratterizzato da una totale assenza di dialogo), Roth riesce a esprimere il vuoto e lo spaesamento di un mondo in crisi di valori (è indicativo che i militari recitino una parte a cui non credono più nemmeno loro e che è semplicemente incomprensibile per i borghesi) e la certezza di andare verso una guerra che non sarà possibile vincere («Noi tutti non esistiamo più», dice il conte Chojnicki), il tutto sotto lo sguardo benevolo dell’imperatore, i cui ritratti campeggiano per tutto il romanzo, «onnipresente tra i suoi sudditi come Dio in terra». Anche lo stile narrativo riflette questa impostazione: scritto in terza persona, il romanzo segue la tecnica dei punti di vista dei tre Trotta e dell’imperatore, vero protagonista aggiunto della vicenda e, in ultima analisi, altra figura paterna con cui non c’è dialogo e simbolo di un ordine ormai superato. Moltissimi sono i momenti memorabili e toccanti (l’attendente Onufrij che torna al suo paesino per recuperare il denaro necessario per salvare l’onore del sottotenente; il dolore di Carl Joseph di fronte alla morte della moglie del brigadiere Slama; l’inesorabile attesa del duello del dottor Demant; la morte del vecchio cameriere Jacques; la descrizione del vecchio imperatore che non ricorda più le cose e riceve l’omaggio e la benedizione dell’anziano di una comunità ebraico-orientale; le partite di scacchi tra il sottoprefetto Trotta e il dottor Skowronnek; l’incontro tra il sottoprefetto e Francesco Giuseppe a Schönbrunn; la morte dell’imperatore), anche se bisogna stare attenti: il rischio di deprimersi e di cadere nella tristezza supera veramente il livello di guardia.

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