domenica 3 aprile 2016

Umberto Eco - Il nome della rosa

È morto Umberto Eco: non fiori ma penitenziagite!
Questo il più folgorante e geniale tweet da me letto apparso in occasione della scomparsa del titanico uomo di cultura, celebrato e compianto da quei social network che lo stesso Eco aveva dichiarato colpevoli di aver dato la parola a legioni di imbecilli e di aver promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità (stendiamo un pietoso velo sul triste spettacolo del suo funerale tramutato in uno show televisivo con la retorica un tanto al chilo, le celebrazioni personali e le presentazioni librarie). Un po’ mi è dispiaciuto perché, se è vero che Eco non azzeccava un romanzo da anni (Baudolino ormai è del 2000), è sempre triste perdere un personaggio del suo calibro che, come ricordato dal sito I 400 calci, era «un intellettuale simpaticamente antipatico, che ha sempre giocato con le sue regole e pisciato in testa agli snob, […] con il suo dialogo costante tra “alto” e “basso”». Ho quindi deciso di celebrarlo a modo mio, rileggendo quello che secondo me è il suo capolavoro, Il nome della rosa (di cui ho già trattato QUI molti anni fa), e che per lui invece era il peggiore dei suoi romanzi, perché si sa, di solito un autore odia la sua creatura più riuscita e di successo (come Conan Doyle odiava Sherlock Holmes e l’ha pure ucciso, a un certo punto). Ed è vero che spesso può risultare eccessivo, con dialoghi altisonanti, disquisizioni teologico-filosofiche, l’amore per la divagazione dotta e il gioco infinito dell’accumulo, ma proprio in questo sta il fascino di un libro che è a tutti gli effetti postmoderno nella concezione (un calderone di elementi presi ovunque a combinati insieme in una forma nuova: si prenda per esempio la descrizione dell’amplesso di Adso fatta con le parole del Cantico dei Cantici e di Hildegarda di Bingen) ma soprattutto è un giallo incentrato sui delitti di un’abbazia medievale che ruotano intorno a una biblioteca. Quindi, giustamente, è un libro che considera molto importanti le discussioni e le polemiche di «uomini che vivono tra i libri, coi libri, dei libri». Ci sono talmente tanti livelli di lettura che chiunque non può che rimanerne conquistato: è vero che si potrebbe leggerlo solo per la trama poliziesca (assolutamente verosimile: Eco ha scritto dopo aver studiato la mappa nei minimi dettagli), ma ci si priverebbe della maggior parte del piacere (ed è questa la ragione per cui lo si legge e lo si rilegge più volte, senza mai stancarsene). Oltretutto azzecca dei personaggi memorabili come il venerabile monaco cieco Jorge da Burgos, che fin dal nome cita Borges, o il mostruoso Salvatore, il frate dolciniano che parla come Jar Jar Binks di Star Wars e prende pezzi di frase da tutte le lingue con cui è entrato in contatto proprio come la sua faccia sembra essere composta di pezzi di altre facce, ricostituendo così, allegoricamente, l’unità linguistica precedente al crollo della Torre di Babele e alla dispersione delle lingue. I temi affrontati sono infiniti: le divisioni tra ordini religiosi, il conflitto tra Chiesa e Impero (l’abbazia, guarda caso, è il luogo deputato a un incontro tra le varie fazioni), lo scontro tra latino e lingue volgari, la preconizzazione delle nuove scoperte scientifiche inserite all’interno della volontà di Dio («un giorno per forza di natura si potranno fare strumenti di navigazione per cui le navi vadano unico homine regente, e ben più rapide di quelle spinte da vela o da remi; e vi saranno carri che si muoveranno velocemente senza che alcun animale li traini, e veicoli volanti guidati da un uomo che gli farà battere le ali come si trattasse di un uccello»), i bestiari, il millenarismo, la venuta dell’Anticristo, la differenza sottile che separa l’eresia dalla santità (spesso sono gli inquisitori a creare gli eretici), il dibattito tra fede e ragione (la ragione illumina la fede o viceversa?), i vizi e le virtù, la lussuria in tutte le sue forme (del piacere, del dolore, dell’adorazione, del sapere e addirittura dell’umiltà), l’interpretazione dei sogni  («Il sogno è un scrittura, e molte scritture non sono altro che sogni»), la polemica politico-economica (in Italia, diversamente dagli altri paesi dove il denaro serve per procurarsi beni, i beni servono per procurarsi il denaro, e quindi qui la ribellione al potere si manifesta come richiamo alla povertà), la questione della povertà della Chiesa («Ma la questione non è se Cristo fosse povero, è se debba essere povera la Chiesa. E povera non significa tanto possedere o no un palazzo, ma tenere o abbandonare il diritto di legiferare sulle cose terrene»). Senza saperlo, a volte Eco sembra preconizzare profeticamente l’oggi e le polemiche di certi ambienti ecclesiali su Papa Francesco in relazione alle dimissioni di Benedetto XVI («Bonifacio [VIII] fu l’Anticristo mistico, e l’abdicazione di Celestino [V] non fu valida, Bonifacio fu la bestia che viene dal mare le cui sette teste rappresentano le offese ai peccati capitali e le dieci corna le offese ai comandamenti, e i cardinali che lo attorniavano erano le locuste, il cui corpo è Appolyon!»), ma dove il semiologo eccelle è nel ragionamento sulla conoscenza (che gira intorno a un centro vuoto, il libro perduto della Poetica di Aristotele), il sapere e i suoi confini (la biblioteca-labirinto da mappare per potercisi orientare), le relazioni tra i libri («Spesso i libri parlano di altri libri. Spesso un libro innocuo è come un seme, che fiorirà in un libro pericoloso, o all’inverso, è il frutto dolce di una radice amara») e l’interpretazione della conoscenza («Il bene di un libro sta nell’essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto»). Forse non tutti sono attraversati da simili problematiche enciclopediche ma, in tempi di Wikipedia, non è roba da poco…

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