mercoledì 27 aprile 2016

Silvia Avallone - Acciaio

Un padre che si eccita guardando da lontano la figlia in spiaggia il cui costume trattiene a stento la sua prorompente fisicità di adolescente che sta diventando donna: questo l’inquietante inizio di Acciaio di Silvia Avallone, esordio letterario con tutti i limiti del caso che, qualche anno fa, l’industria culturale ha misteriosamente trasformato nell’ennesimo “caso” editoriale. Il romanzo è ambientato a Piombino nell’estate del 2001, quella che segue la fine delle scuole medie e precede l’inizio delle superiori di Anna e Francesca, due ragazzine tredicenni che vivono in Via Stalingrado, in un complesso di case popolari costruito in riva al mare (con sporcizia ovunque e gente che orina sulle scale). Sono piene di vita, di sogni, di voglia di divertirsi e ballare: purtroppo, in città c’è solo la fabbrica di acciaio, la Lucchini, in crisi e prossima alla chiusura, dove lavorano tutti i personaggi di contorno, tra i quali Alessio, il fratello di Anna, e il padre di Francesca: proprio la fabbrica fa da sfondo e da filo conduttore di tutta la vicenda, rappresentazione simbolica della fine di ogni sogno, la chiusura di ogni via d’uscita e la negazione di ogni redenzione. Ovviamente, alle due ragazze non resta che vivere illusoriamente la loro bellezza come un passaporto per il mondo adulto, che già di per sé è un inferno: basta vedere la loro vita familiare, fatta di casalinghe sfatte e padri violenti (il padre di Francesca) o con il vizio del gioco (il padre di Anna), ma anche il resto dell’umanità ritratta è avvilente. La Avallone accumula tanti, troppi temi: la scoperta del corpo, della sessualità (Anna perde la verginità) e dei sentimenti (Francesca si è innamorata di Anna), la violenza sulle donne, la criminalità organizzata, la droga, l’omosessualità, la vita delle periferie, i locali di lap dance, il gioco d’azzardo, lo scontro di classe (il metalmeccanico Alessio e l’ex fidanzata borghese Elena, ora con un ruolo direttivo nell’acciaieria), l’industria, gli scioperi, la delocalizzazione, gli incidenti sul lavoro. Il tutto alla luce di un moralismo di fondo addirittura fastidioso, che vorrebbe essere il perfetto ritratto dell’Italia di oggi dannata e perdente, rovinata dalla televisione berlusconiana delle veline: il suo 2001 è una data simbolica che prende la vittoria di Berlusconi alle politiche e la fa coincidere con crisi di un mondo operaio che si è lasciato irretire da sogni di ricchezza materiale e non di giustizia sociale, fino all’11 settembre e il crollo delle Torri Gemelle, fatto spartiacque che tocca solo marginalmente la vita della piccola comunità locale di Piombino. È un peccato perché, con il suo linguaggio molto diretto e scarno, la Avallone riesce in alcuni momenti a cogliere il modo di ragionare degli adolescenti («Quelle due stronze di merda, che quando gli veniva il ciclo sembrava che ce l’avevano solo loro. E Maria, e Jessica, e quell’altra idiota di Sonia: piselli di qui e di là, pompini di qui e di là. Pompini? Non sapeva neanche cosa fossero ’sti famosi pompini. Sapeva soltanto che non era giusto. Che nel mondo c’è chi ha tutto e chi non ha niente. Niente di niente»). Certo è che, a furia di leggere descrizioni del fisico perfetto delle due giovani protagoniste, viene il sospetto di essere trattati come dei pedofili da un libro che fa della sessualizzazione della società una sua caratteristica. Insomma, non mi è piaciuto, ma forse sono stato solo condizionato dal ricordo che ho passato l’estate 2001 a curarmi una terribile verruca a un piede. Altro che esuberanti adolescenti…

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