mercoledì 13 settembre 2017

Stephen King - L'ombra dello scorpione

Nei confronti di Stephen King ho purtroppo un rapporto di totale indifferenza: di suo ho letto solo 22/11/’63 e, sebbene mi sia piaciuto molto, mi sono fermato lì. Tuttavia ho deciso di affrontare L’ombra dello scorpione, da molti considerato uno dei suoi capolavori indiscussi, librone dalle dimensioni ciclopiche (mille pagine) che è stato tra l’altro integrato anni dallo stesso King con altri dettagli e spiegazioni per risultare ancora più organico all’interno del suo universo espanso. Ebbene, non mi ha entusiasmato e in molti punti sono stato sul punto di abbandonarne la lettura. Alla fine ce l’ho fatta, ci ho messo svariati mesi, ma l’ho finito. La premessa è arcinota: un virus chiamato “Captain Trips” sfugge da un laboratorio segreto (metafora dell’uomo che crea le armi con cui uccide se stesso) e spazza via il 99% della popolazione mondiale nel giro di poche settimane. Non è un horror, o meglio lo è solo in parte, e appare più vicino alla fantascienza catastrofica per l’idea del virus letale che spopola il pianeta e azzera la società, riportando gli uomini a livello di microcomunità in lotta fra loro per la sopravvivenza. Per questo si tratta di un romanzo corale, senza protagonisti, che presenta moltissimi personaggi, tutti accomunati dalla disperazione ma anche dalla voglia di ricominciare (molti hanno alle spalle una vita già di per se stessa fallimentare): non sono tutti buoni, ovviamente, ma sono sopravvissuti per un’imponderabile scelta del destino. Solo pochi fortunati infatti restano in vita in un’America devastata dopo la palingenesi e di notte sono visitati da sogni che li portano a incontrarsi dietro il richiamo di due personaggi, una donna nera ultracentenaria, Mother Abagail (che parla con il Signore), e di un misterioso Uomo Nero, Randall Flagg, un demonio senza volto di cui si vedono solo gli occhi infuocati: i seguaci dell’anziana si ritrovano nella cittadina di Boulder in Colorado e formano una Zona Libera, gli altri si ritrovano a Las Vegas (che metafora!) agli ordini di Flagg, che reintroduce la pratica della crocefissione e fa arrivare (come una nostra vecchia conoscenza) i treni in orario. La trama quindi potrebbe frettolosamente essere bollata come “l’ennesima riproposizione della lotta del bene contro il male” (formula che riscuote sempre un certo successo) e ci sono elementi da romanzo fantastico come il sogno e la preveggenza, ma in realtà c’è molto di più: il romanzo si basa sull’idea è che l’essere umano è un animale sociale e infatti ricrea subito la società con una forma elementare di governo, sul modello di quello precedente alla catastrofe, quindi la Costituzione americana, con un comitato e le riunioni dei cittadini. Non a caso il titolo originale è The Stand, letteralmente “la resistenza”, ben diverso dal titolo italiano che è incentrato esclusivamente su Flagg («Lui non muore mai. […] È nei lupi, cavoli, sì. I corvi. I serpenti a sonagli. L’ombra del gufo a mezzanotte e lo scorpione a mezzogiorno»). Grande spazio è dedicato (soprattutto grazie al personaggio di Glen Bateman) ai ragionamenti sulla divisione del potere, sulla necessità di ricorrere all’ordine, sullo spazio da dare alla religione nella società e nel governo, sul rischio che qualcuno metta le mani sugli armamenti, sulle responsabilità di cui è insignito chi detiene il potere, sempre tenendo ben presente che King è americano fino al midollo e quindi riprende l’immortale tematica della Frontiera e dei valori dei Padri Pellegrini. Ovviamente, siccome in ogni storia che si rispetti è necessario il conflitto, una delle due società che si sono venute a creare cercherà di dominare l’altra, e la società minacciata si renderà conto di dover reagire concretamente: di fronte al male c’è poco da mediare e se si vuole resistere all’Uomo Nero bisogna rinunciare alla trasparenza e ricorrere a dei sotterfugi (e infatti vengono mandate delle spie). Insomma, la libertà si mantiene a un prezzo, anche molto salato. Oltretutto sappiamo che i cosiddetti “buoni” non sono poi così buoni, ma ognuno è un mix di bene e male e si porta un doloroso fardello (e anche i cattivi hanno il loro bel passato di umiliazioni e soprusi, come il piromane Pattumane), quindi sono i personaggi ideali per affrontare questo tipo di problematica. Infatti i migliori sono proprio quelli più tormentati, come il cantante sulla via della perdizione Larry Underwood (che ha pubblicato una sola canzone e si sente sempre in dovere di dimostrare qualcosa), oppure quelli borderline, che si trovano da una parte della barricata ma che agiscono per l’altra per una qualche ragione, come il viscido Harold Lauder (mosso dalla frustrazione amorosa e dalla vendetta) e l’ambigua Nadine Cross (predestinata a essere la sposa di Randall Flagg e quindi malvagia per forza); ecco, loro mi sono piaciuti di più di eroi più canonici e tutti d’un pezzo come Stu Redman e Nick Andros. Il registro linguistico adottato è molto vario, per quanto suppongo sia stato difficile renderlo nella traduzione italiana: si va dal trattato di sociologia alle scurrilità più becere, con una prevalenza di queste ultime. Tutto sta nel credito che concederete ai personaggi e nella simpatia che riusciranno a suscitare in voi. Con me non hanno avuto una gran fortuna.

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