mercoledì 31 gennaio 2018

J.K. Rowling - Harry Potter e la pietra filosofale

Avendolo riletto poco meno di un anno fa (ne ho parlato approfonditamente QUI), c’è ancora qualcosa che posso dire riguardo a Harry Potter e la pietra filosofale che ho appena terminato per la terza volta? Sicuramente le solite cose, a cominciare dalla magia della Rowling che è una grande verniciatura-metafora della vita e della didattica: è il trionfo dell’intuito e delle predisposizioni, ma anche dello studio e dell’apprendimento, della ribellione accanto all’establishment, cosa che rende la saga godibile da tutti, dallo studente scioperato al docente, ed è abbastanza piena di sciocchezze british da far ridere anche i più smaliziati. Mi stupisce sempre come la Rowling ha fatto propria la grande lezione della letteratura anglosassone (è presente anche in Tolkien) della divisione tra grandi e piccoli, con i primi che costituiscono un mondo strano che bisogna imparare a conoscere per poterne diffidare: i piccoli maghetti (come gli hobbit) devono scoprire sulla loro pelle di chi potersi fidare, scoprendo spesso che le cose non sono esattamente quelle da loro immaginate. In questa rilettura mi ha colpito la descrizione del professor Binns: «Indubbiamente, la lezione più noiosa era Storia della Magia, l’unico corso tenuto da un fantasma. Il professor Bins era già molto, molto vecchio quando si era addormentato davanti al camino della sala professori e, la mattina dopo, alzatosi per andare a fare lezione, aveva lasciato dietro di sé il suo corpo. Binns parlava senza posa con voce monotona, mentre i ragazzi scribacchiavano nomi e date confondendo Emeric il Maligno e Uric Testamatta». Una materia fondamentale come Storia della Magia è presentata come noiosa e inutile, proprio come la storia nelle nostre scuole, insegnata da un professore fantasma talmente disinteressato al mondo reale da non accorgersi di essere morto, tipica rappresentazione dell’erudito che insegna attraverso un’enunciazione minuziosa e piatta di fatti e dati importanti (anzi fondamentali per la costruzione del retroterra storico-politico della saga) che però non vengono avvertiti come tali dagli studenti. C’è però un altro aspetto che mi preme sottolineare e che deriva dal mio amico Zeno Saracino del blog Cronache Bizantine riguardo alla casa Serpeverde: il Cappello Parlante valuta gli atteggiamenti di ciascuno sulla base dei propri sentimenti e colloca i nuovi studenti di Hogwarts nella propria casa di appartenenza (Grifondoro, Tassofrasso, Corvonero e Serpeverde). Se si possiedono attributi negativi, si viene inseriti fra i Serpeverde, come se fin dall’inizio si venisse predestinati a un ruolo da “cattivi” all’interno della scuola. È una riflessione profonda, che mi sento di condividere e che regge anche non considerando gli sviluppi degli altri capitoli della saga. Che la Rowling abbia voluto includere anche il male nel suo programma didattico-formativo? O abbia voluto dire che anche il male può servire nella lotta per la vittoria del bene? Forse, più semplicemente, ha fatto solo per fornire un antagonista alla casata dei protagonisti. Questo senza nulla togliere a tutti i meriti di un primo capitolo che resta sempre validissimo anche dopo tutto questo tempo.

lunedì 29 gennaio 2018

Paolo Gulisano, Filippo Rossi - La forza sia con voi

Non si è ancora placato il dibattito su Episodio VIII – Gli ultimi Jedi tra chi l’ha esaltato come capolavoro e chi ha accusato la Disney di avergli rubato l’infanzia, e ci ritroviamo tra le mani questo bel libro di Paolo Gulisano e Filippo Rossi che, già dal titolo La forza sia con voi, intende essere una celebrazione e un’esegesi di Star Wars, una delle saghe che maggiormente ha impattato nella cultura pop e si è radicata nell’immaginario collettivo, anche a 40 anni di distanza (ricordo una bellissima scena del film Il regno del fuoco in cui la comunità umana sopravvissuta in clandestinità all’avvento dei draghi utilizzava Star Wars come mitologia fondativa a uso dei più piccoli). Era il 1977 quando il primo episodio, Guerre Stellari, poi ribattezzato Episodio IV – Una nuova speranza, faceva la sua apparizione nelle sale cinematografiche dando inizio a una serie di film (soprattutto i primi tre, il già citato Guerre StellariL’impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi) che sconvolsero gli spettatori e cambiarono per sempre il cinema dal punto di vista estetico e narrativo (se non altro per aver divulgato presso il grande pubblico il fantastico facendo diventare di moda i sequel, i prequel, le trilogie e le saghe). Era prodotto da un giovane regista californiano con solo due film all’attivo, George Lucas, che da ragazzo era appassionato di corse d’auto e di velocità, come peraltro si vede dal suo American Graffiti, «ritratto di una generazione di ragazzi di provincia attratti irresistibilmente dal rock, dalla velocità, dai primi amori» prima dell’amara presa di coscienza del Vietnam. Gulisano e Rossi ne ricostruiscono la biografia: democratico e contestatore, Lucas fa parte a pieno titolo (insieme a Steven Spielberg, Brian De Palma, Francis Ford Coppola e John Milius) della New Hollywood, quel movimento che, a partire dalla fine degli anni Sessanta fino agli anni Ottanta, rivoluziona l’establishment degli studios americani. Sognava di fare un film su Flash Gordon, l’eroe dei fumetti della sua infanzia, ma, di fronte all’impossibilità di ottenerne i diritti, si scrisse (e le sceneggiature cambiarono infinite volte) e si produsse una sua personale saga ambientata nello spazio, arrivata ormai all’ottavo capitolo senza contare gli spin-off, le serie animate, i libri, i videogiochi, insomma quello che si chiama “universo espanso” (e quello di Star Wars è uno dei più grandi che esistano), anche se il libro riguarda solo il canone degli otto film ufficiali (più lo spin-off Rogue One).

A dispetto del titolo, Guerre Stellari è uno space fantasy più che semplice fantascienza, in quanto la scienza è solo lo scenario entro cui si svolge la storia, non la storia; un fantasy proiettato nello spazio e nel futuro che possiede tutti gli elementi del fantasy: un ordine cavalleresco, un’impresa da compiere, il viaggio dell’eroe nel nome della speranza per guarire una terra desolata, la principessa prigioniera da salvare, un oscuro signore da sconfiggere, dei buoni che devono fronteggiare un potere superiore al loro, la Morte Nera come il castello/antro del drago cattivo delle fiabe. Il suo creatore ha sempre dichiarato che Guerre Stellari è una rielaborazione in chiave spaziale dell’epica cavalleresca del Medioevo europeo, specie del ciclo bretone di Re Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda e della cerca del Santo Graal; ma Lucas, uomo dalla cultura letteraria e cinematografica vastissima, fece confluire nella sua saga materiali di diversa provenienza, attingendo da vari generi cinematografici: dal grande maestro giapponese Akira Kurosawa (e di Giappone la saga di Star Wars è piena, a cominciare dagli elmi degli Stormtroopers e di Darth Vader che sono elmi da samurai), ma anche dal cinema di guerra (molte scene di guerra aerea sono presi dagli scontri tra i caccia americani e gli Zero giapponesi) e dal western: Han Solo è un cowboy con gli stivaloni, il cinturone e la pistola (anche se laser), e nel saloon spara per primo (come si vede nel film originario, prima che Lucas modificasse la scena e la rendesse più politicamente corretta). Senza dimenticare gli elementi presi dalla sophisticated e dalla slapstick comedy, generi nobili del cinema hollywoodiano: i due droidi umanizzati C-3PO e R2-D2 sono la classica coppia comica che rappresenta il punto di vista degli spettatori e che nel corso degli episodi si rivela sempre più importante nella struttura della storia, «per assumere quel ruolo di testimoni artificiali degli eventi umani della saga».

Quella evocata in Star Wars è una società fluida senza troppi punti di riferimento, simile alla nostra, anche se non c’è la terra né gli uomini del pianeta terra, bensì «una versione parallela, indistinta, fantasiosa e sfrenata di un impossibile “altro da noi” in un tempo-luogo “altro”, a contatto con “altre” cose e “altri” esseri». Lucas parla di morte e divino in un mondo sincretistico e post-religioso che sembra il nostro, e lo fa raccontando una storia che termina con la caduta dell’impero ma anche con il crollo dell’ordine dei Jedi, dando origine a quel grande vuoto che viene descritto nell’ultima trilogia, dove, a prescindere dai pareri personali, vediamo un mondo fragile e nuovi giovani eroi che non sanno gestire il loro potere e hanno più che mai bisogno di guide.

Il libro approfondisce il ruolo rivestito dalla lettura dei vangeli gnostici ma soprattutto dalla scoperta di Joseph Campbell, uno dei più grandi studiosi di miti del XX secolo, autore de L’eroe dai mille volti, attraverso cui Lucas «arriva a una comparazione tra religioni, miti, simboli universali, andando così a formare l’humus dell’immaginario spirituale di Star Wars». Allo stesso modo Gulisano, esperto di Tolkien, analizza i numerosissimi spunti tolkieniani presenti nella saga, primo fra tutti la figura del maestro-mentore che guida: Obi-Wan prende il giovane e rozzo Luke Skywalker e lo fa diventare il grande cavaliere Jedi, sul modello di Merlino con Artù ma soprattutto di Gandalf con Bilbo Baggins e Frodo. Ma Tolkien è presente anche nell’esercizio del libero arbitrio (Luke fa la cosa giusta quando disobbedisce agli ordini dei suoi mentori Yoda e Obi-Wan Kenobi e ha successo) e nel tema della speranza (la pietà e la speranza di conversione di Luke nei confronti di suo padre permette il ravvedimento finale di Darth Vader). 

Altro particolare importante è l’apertura al mondo delle religioni e della spiritualità orientale, cosa che si evince dai nomi (Obi-Wan Kenobi, Qui-Gon Jinn), dai costumi e dalle tradizioni, ma anche dal concetto di Forza e dalla meditazione richiesta per controllarla. Si tratta di un tema complesso che unisce il campo energetico, quello spirituale e quello filosofico, e che estende «l’elemento fiabesco della magia a un concetto semi-scientifico di energia mistica e fisico-mentale cosmica, nella quale è inserita ogni disciplina fino alla biologia»: la Forza conferisce facoltà incredibili ai suoi adepti, quasi da farne degli stregoni spaziali (ma senza formule magiche), e chi pratica le sue vie «lo fa come se si trattasse di una religione, più che di una scienza» (i Jesi e i Sith sono sono due veri e propri ordini religiosi), tanto che Darth Vader non accetta che se ne metta in discussione l’esistenza (a un ufficiale imperiale che ride di quelle che ritiene semplici “teorie da stregone”, lui ribatte: «Trovo insopportabile la tua mancanza di fede»), e questo elemento rimane misterioso anche al di à della spiegazione pseudoscientifica presente nella seconda trilogia degli anni Duemila secondo cui la Forza dipenderebbe da forme di vita microscopica presenti nelle cellule (i Midi-chlorian). La Forza permette così a Lucas di creare una propria via filosofico-religiosa di perfezione o di caduta lungo un percorso pieno di insidie (dovute alle lusinghe di un male ambiguo), con un Lato Oscuro che porta allo sfruttamento dell’uno sull’altro e una via dei Jedi che impiega la Forza per servire nel modo migliore il prossimo.

Ovviamente, per un vecchio fan come me (che ritiene L’impero colpisce ancora il miglior capitolo in assoluto e uno dei più grandi film di tutti i tempi), la prima parte del volume, quella dedicata alla prima trilogia, è imperdibile; la seconda, per quanto approfondita e volta ad analizzare il raffinato affresco politico che porta al crollo della repubblica e le divisioni all’interno dell’ordine Jedi nella terrificante seconda trilogia degli anni Duemila (che secondo me ha alcune valide idee realizzate malissimo), è sorvolabile, e non certo per colpa dei due autori. Ho comunque ammirato la metafora di Kylo Ren che (in Episodio VII) riflette da solo davanti all’elmo bruciato del nonno Darth Vader, «come un ragazzo del Fandom, che ammira un’action figure di Star Wars»: non ci avevo mai pensato ma è perfetta per capire la natura derivativa dell’ultima trilogia targata Disney.

martedì 23 gennaio 2018

Robert Hugh Benson - Intrighi di Corte

Ormai di Robert Hugh Benson ho curato la pubblicazione di quasi tutti i suoi romanzi, ed è ora la volta di Intrighi di Corte, titolo scelto per questa prima edizione italiana Fede & Cultura al posto dell’originale Oddsfish!, l’interiezione preferita di Carlo II Stuart che in italiano non avrebbe avuto alcun senso (nel romanzo è stata tradotta con “Cribbio!”). Si tratta dell’ultimo romanzo scritto dal sacerdote prima della morte e si ascrive al filone storico che ha già visto la pubblicazione de Il trionfo del reVieni ruota! Vieni forca! La tragedia della regina, di cui riprende pregi e difetti, insomma le caratteristiche fondamentali dello stile di Benson già lampanti dalle altre sue opere: una certa prolissità (questa volta siamo sulle 600 pagine), un’esasperante puntigliosità nella descrizione degli ambienti (specie degli interni), un impianto delle scene di tipo teatrale, la commozione spirituale, un cattolicesimo militante e l’eroismo della persecuzione che porta frutto (in questo caso la conversione del re in punto di morte, alla fine del libro, riprendendo un tema che c’era già nel finale di Vieni ruota! Vieni forca!). Questa volta abbandoniamo l’epoca Tudor dei precedenti romanzi e siamo nella seconda metà del XVII secolo, quando a regnare sull’Inghilterra è Carlo II, alla cui corte viene inviato (nientemeno che da papa Innocenzo XI) il giovane Roger Mallock, un novizio benedettino, confidando nella possibilità di condurre il re alla Chiesa di Roma, forte del sostegno del fratello Giacomo, duca di York e suo successore designato, che è cattolico e per questo è visto di cattivo occhio. Non sono anni facili per i cattolici, specie per i gesuiti, che vengono perseguitati e accusati del Grande Incendio del 1666, e spesso sono condannati ingiustamente da magistrati in malafede contro ogni prova giuridica. Il nostro Roger si troverà in mezzo a congiure politiche e religiose di ogni tipo (che lo toccheranno anche da vicino), servirà il re come agente infiltrato e risulterà decisivo nello sventare il cosiddetto Rye House Plot, una congiura volta ad assassinare il re e suo fratello appena rientrati da una cavalcata; scoprirà l’amore per la cugina Dolly e i magheggi del cugino Tom, ma soprattutto farà esperienza diretta degli scontri fra monarchia e parlamento. Carlo II, figlio del decapitato Carlo I, ha ripreso la corona rientrando dall’esilio ma non si espone mai eccessivamente nel timore di essere rimandato in esilio (e proprio di questo lo accusa Roger); ritratto sempre in compagnia dei suoi adorati spaniel, è un gaudente che ha numerose amanti, oltre che dei figli illegittimi, ma nessun erede da sua moglie, e per questo si arrovella sulla questione della successione, e prende in simpatia il giovane Roger. Benson insiste molto sui personaggi della corte e la loro appartenenza politica, dando la spaesante sensazione di muoverci insieme a Roger in un ambiente subdolo e doppio dove le insidie sono in agguato a ogni angolo. Per gli amanti di particolari d’epoca e di storia inglese da non perdere Punch e Judy, il palo di maggio, il tennis reale e il palazzo perduto di Whitehall. 

venerdì 19 gennaio 2018

Stephen King - Le notti di Salem

È ufficiale: con Stephen King ho dei problemi. Come nel caso de L’ombra dello scorpione, acclamato e celebrato da tutti ma che mi ha causato qualche difficoltà, anche Le notti di Salem, il suo secondo romanzo in assoluto (è del 1975) e considerato una delle sue opere migliori, non ha fatto scoccare in me la scintilla. E dire che parla di vampiri, uno dei miei argomenti preferiti da sempre. La storia parla di un giovane scrittore, Ben Mears, che ritorna dopo molti anni a Jerusalem’s Lot (abbreviato in ’Salem’s Lot, che è il titolo originale del romanzo, o semplicemente Lot), nel Maine, dove da piccolo passava le vacanze a casa della zia; l’ultima non è stata molto spensierata e i suoi ricordi sono legati alla presenza di una costruzione, casa Marsten, che trasuda mistero e malvagità ed è costruita su una collina che domina la cittadina. Proprio in questa casa è stato costretto a introdursi in quell’ultima estate come prova di coraggio ed essere accettato da una combriccola di ragazzini suoi coetanei: entrando, ha scoperto il corpo del padrone di casa impiccato a una trave, e ne è rimasto traumatizzato. Ben torna ora a ’Salem’s Lot per scrivere un romanzo basato proprio su casa Marsten e per immergersi nell’atmosfera del Lot, così da ottenere un maggiore realismo. La casa, intorno alla quale le leggende non sono mai diminuite, è stata affittata da un individuo strano e riservato, il signor Straker, che incute un certo timore e ha un socio che non si vede mai, un certo Barlow, che si scoprirà essere il vero villain. Cominciano a scomparire persone e a verificarsi morti anomale, addirittura la testa di un cane viene ritrovata appesa a un cancello. All’inizio non viene rivelato di che tipo di minaccia si tratta e l’orrore si sviluppa lentamente; poi, a partire dalla metà del romanzo, appaiono i vampiri veri e propri, che non sono quelli che ci hanno propinato ovunque negli ultimi anni grazie a Twilight, cioè non sono i classici vampiri postmoderni belli, fascinosi e misteriosi che si pongono problemi etici, ma sono i mostri classici, nemici del consesso civile, che si uccidono con il paletto e temono il crocifisso, adorano Satana e sono accompagnati dall’odore di putrefazione (cosa che caratterizza anche i luoghi da loro infestati). Dracula di Bram Stoker è la fonte riconosciuta espressamente da King come ispirazione per il romanzo, tanto da venire citato a più riprese nel bel mezzo della narrazione come manuale per conoscere il mondo dei vampiri, insieme ovviamente agli immortali film della Hammer con Christopher Lee e Peter Cushing. Moltissimi elementi sono gli stessi: la provenienza del vampiro da fuori (Barlow è un antico nobiluomo austriaco, il suo servo Straker è inglese), l’importanza del rituale nella distruzione dei luoghi infestati, il carattere erotico del vampirismo che qui è molto più esplicito che in Stoker («Poi, quando ha cominciato a succhiare, mi piaceva, Ben. Questa è la parte infernale. Ho avuto un’erezione. Hai capito? Se non ci fossi stato tu a tirarmela via di dosso, io le avrei lasciato…»). Inoltre, anche Le notti di Salem è a suo modo un romanzo corale: moltissimi capitoli parlano dei piccoli segreti e della (spesso sordida) vita degli abitanti del paese, tanto che viene da pensare che il vero orrore stia proprio qui, annidato nell’apparente sicurezza e immutabilità della provincia americana. Immancabile, proprio come in Stoker, il manipolo di coraggiosi che si oppone al nemico, costituito da Ben, dal medico Jimmy Cody, da Susan Cody (la ragazza del posto che si è innamorata di Ben), da padre Callahan (un prete all’antica che disprezza la Chiesa sociale e assistenziale di oggi) e da un ragazzino, Mark Petrie, esperto di film e fumetti. Rispetto a Dracula però ci sono anche delle differenze: Barlow non si concentra soltanto sulle belle donne, ma vampirizza anche vecchi e giovanissimi, bambini inclusi; non c’è alcun richiamo a un passato aristocratico e tradizionale in senso romantico incarnato dal vampiro come accadeva per il conte Dracula; e anche il manipolo di uomini che fa lega per combattere i vampiri in King non funziona come quello vittoriano di Stoker e infatti fallisce. Non c’è neppure un valido Van Helsing, visto che padre Callahan, chiamato a svolgere il suo ruolo, non ha abbastanza fede e fallisce miseramente nel confronto con Barlow. Subentra quindi la più moderna coppia padre-figlio, costituita da Ben e Mark, i quali, dopo aver distrutto Barlow, fuggono da ’Salem’s Lot e continuano a seguire le vicende della cittadina (dove rimangono ancora vampiri, ma più deboli e incerti per la scomparsa del loro creatore e capo) dai giornali; decidono quindi di tornare per distruggere con il fuoco la cittadina, ormai quasi disabitata, e impalare gli ultimi vampiri superstiti. Se riconosco la maestria di King nel tenere tutti i fili della narrazione e di riuscire a unire in maniera raffinata il gotico classico al gotico americano (casa Marsten è una casa colonica), Le notti di Salem non mi ha mai catturato se non dopo la sua conclusione quando, con mia somma meraviglia, nell’edizione in mio possesso ho scoperto l’aggiunta di due racconti ambientati nella stessa località del romanzo: il primo, Il bicchiere della staffa, riprende il tema dei vampiri con l’aggiunta di una tempesta di neve e risulta splendido per come riesce a comunicare un’assoluta atmosfera di pericolo senza mai mostrare direttamente il male. Ma è soprattutto il secondo Jerusalem’s Lot che mi ha fatto sobbalzare, un vero tributo di King al suo maestro Lovecraft scritto in forma epistolare e diaristica addirittura come se fosse proprio un’opera del Solitario di Providence, con un’assoluta comunanza di poetica, tematiche e stile: la dimora maledetta costruita su abissi di orrore indicibile, il retaggio familiare che alla fine si scopre essere quello del protagonista, le lingue misteriose (le rune druidiche) e il grimorio maledetto (il De Vermis Mysteriis), l’invocazione di creature aliene, i culti degenerati, la possessione, i topi nei muri, addirittura Yog-Sothoth. Un omaggio del tutto derivativo, ma splendido.

giovedì 18 gennaio 2018

Howard PhilIips Lovecraft, I.N.J. Culbard - La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath

«Intanto sono a pagina 72 della mia fantasia ambientata nella terra dei sogni e temo che le avventure di Randolph Carter siano arrivate al punto da stancare il lettore, o che la pletora di immagini fantastiche abbia distrutto, nelle singole scene, il potere di evocare le suggestioni arcane che m’interessano. È un racconto di avventure picaresche: la ricerca degli dei attraverso vari e incredibili scenari o pericoli. È scritto in modo continuo come Vathek, senza divisione in capitoli, benché sia composto ovviamente di episodi ben definiti. Credo che in tutto verrà sulle cento pagine, la lunghezza di un volumetto: ma penso che abbia ben poche probabilità di essere un giorno pubblicato». Così scriveva Lovecraft in una lettera del dicembre 1926 ad August Derleth relativamente al suo racconto The Dream-Quest of Unknown Kadath, e il suo sospetto si rivelò corretto, visto che il racconto venne rifiutato dalla direzione editoriale di “Weird Tales” rimanendo inedito fino a dopo la morte del suo autore: troppo lungo, ma anche troppo stravagante. L’intenzione del nostro era quella di riunire in un solo scritto tutte le idee sul mondo dei sogni, prendendo spunto da racconti precedenti (CelephaïsGli altri deiNyarlathotep), e al riguardo si è detto di tutto, dall’ipotesi che fosse una rivisitazione del John Carter di Marte di Edgar Rice Burroughs a quella di un parallelo con Il mago di Oz di L. Frank Baum. Arriva quindi questa trasposizione a fumetti del solito Culbard (di cui ho già affrontato Le montagne della folliaL’orrore di Dunwich e Il caso di Charles Dexter Ward, il migliore dei tre) che si sobbarca l’onere di rendere comprensibile un testo che non lo è affatto e racconta l’avventura di Randolph Carter, che raggiunge la casa degli dei del sogno per implorare l’accesso alla favolosa città dei suoi sogni e da qui intraprende un viaggio onirico che lo conduce fino a Nyarlathotep, il Caos Strisciante. Il viaggio è una follia assoluta e va dalle cime dei monti agli abissi infernali, passando per divinità emblematiche e bizzarre creature (gli insettoidi Zoog, i gatti senzienti di Ulthar, i Magri Notturni necrofagi, ibridi cavalli alati), luoghi e paesaggi dotati di una cultura propria; Culbard (autore di testi e disegni) ne rispetta la struttura surreale, illogica e sconnessa tipica dei sogni, ed è da ammirare nel suo tentativo di imporre alla narrazione una maggiore compattezza per renderla (per quanto possibile) più comprensibile al grande pubblico, così come nella costruzione di dialoghi del tutto assenti dalla prosa visionaria e affabulatoria di Lovecraft. Fa un grande lavoro per quanto riguarda i colori (luminosi e ogni volta diversi in base all’ambiente in cui il protagonista approda) e le atmosfere (dal magico all’infernale, dall’esotico al fiabesco), ma il suo stile di disegno caricaturale e pupazzoso è a mio avviso poco adatto ed efficace per tradurre l’orrore cosmico del Solitario di Providence. Passi la rappresentazione fisica di Carter come Lovecraft (in fondo, come chiarisce l’introduzione del volume, «in Randolph Carter, un personaggio che ricorre in tutta l’opera di Lovecraft, è difficile non scorgere una visione idealizzata dello stesso Lovecraft: l’uomo riflessivo e colto che si sente più a suo agio nelle sue fantasticherie che nel mondo reale»), ma perché rendere l’artista Richard Pickman (trasformato in ghoul mangiatore di cadaveri) come Eddie, la mascotte degli Iron Maiden? Piuttosto incomprensibile la scelta finale di far commentare a Nyarlathotep con un poco lovecraftiano “Bah!”. 

mercoledì 17 gennaio 2018

Volker Kutscher - Babylon-Berlin

La serie televisiva Babylon-Berlin ha dimostrato che anche i tedeschi possono fare grande televisione e ha fatto sì che Feltrinelli riproponesse in Italia il romanzone di Volker Kutscher da cui quella serie è tratta, ora pubblicato con il titolo preso a prestito dalla serie ma già uscito per Mondadori con titolo originale Il pesce bagnato (Der Nasse Fisch), che in gergo poliziesco indica il classico caso non risolto. Ovviamente non aveva avuto alcun successo, impedendo purtroppo la pubblicazione dei volumi successivi (pare siano sei in tutto). Per chi non ne ha mai sentito parlare, si tratta di un noir ambientato nella magica e cosmopolita Berlino degli anni Venti, durante la Germania di Weimar, quella descritta da Alfred Döblin in Berlin Alexanderplatz e dei racconti di Christopher Isherwood (averli letti!), quella della fallita rivoluzione spartachista ma anche quella dei locali notturni e della libertà sessuale (i club di travestiti), una realtà spazzata via dal nazismo, dalla Seconda Guerra Mondiale e poi dalla Guerra Fredda ma che esercita ancora un fascino incredibile. Anche l’anno in cui è ambientata la vicenda, il 1929, è significativo, quasi uno spartiacque, e non può non far venire in mente la grande crisi finanziaria che mise in ginocchio la Repubblica di Weimar spianando la strada a Hitler. Protagonista del romanzo è il giovane ispettore Gereon Rath, appena arrivato da Colonia con qualche scheletro nell’armadio (ha ucciso in un conflitto a fuoco il figlio di un editore della città), è stato assegnato alla Buoncostume e la sua prima indagine riguarda il mercato delle foto e dei film porno. A essa si aggiungono molte altre cose: il Maggio di Sangue, quando il governo socialdemocratico decise di usare la mano pesante con i comunisti vietando le manifestazioni del Primo Maggio e la polizia fece fuoco sugli operai scesi in piazza provocando una quarantina di morti; un ex inquilino russo scomparso nel nulla; lo spaccio di droga; il ritrovamento in un’auto in fondo a un canale del cadavere di uno sconosciuto, con evidenti segni di tortura e le mani massacrate, che ha ricevuto una dose letale di eroina (ovviamente non c’è nessun testimone). Rath, che a metà romanzo viene promosso alla Omicidi, senza informare i superiori segue le tracce di un gruppo di trozkisti in esilio che aspettano un carico d’oro dall’Unione Sovietica, ma quell’oro fa gola a troppi: stalinisti, ex agenti zaristi, militari nazionalisti tedeschi e malavitosi berlinesi. In classica tradizione noir, la trama è complicatissima e presenta un intreccio fra temi criminali e politici, con la corruzione in polizia e il progressivo emergere di tensioni e fanatismi di opposta matrice (fanno capolino anche i nazisti), specchio di un Paese uscito a pezzi dalla Grande Guerra e le cui ferite sono ancora fatalmente aperte. Il nostro protagonista non è affatto uno stinco di santo: è ambizioso e spregiudicato, agisce di testa sua, falsifica le prove per evitare guai, si concede qualche sniffata, ma mantiene un fondo di moralità che gli permette di passare dalla parte della ragione in un mondo al collasso. Le sue vicende si intrecciano poi con quelle della giovane e spigliata stenografa Charlotte Ritter, che usa le nuove libertà che la Repubblica offre alle donne e spera di potersi laureare in giurisprudenza e di entrare in polizia. Qualche dubbio sul fatto che i due finiscano a letto?  

sabato 13 gennaio 2018

Isacco Tacconi - La Compagnia della Croce

A tirare per la giacchetta di tweed J.R.R. Tolkien ci hanno provato in molti: destra, sinistra, pagani, cattolici, ecologisti. D’altra parte, il fascino di un autore come Tolkien sta nella sua universalità, nel parlare a tutti in maniera trasversale e secondo la sensibilità di ognuno. L’ultimo a provarci è Isacco Tacconi con questo La Compagnia della Croce. Viaggio al cuore della Terra di Mezzo, approfondita disamina confessionale pubblicata nientemeno che dalle Edizioni Radio Spada, baluardo del tradizionalismo cattolico più intransigente in perenne guerra con la Chiesa post-Vaticano II. Nessuno mette in dubbio che Tolkien fosse un cattolico fervente e praticante, che amasse la messa in latino, che non avesse alcuna fiducia nella storia (non credeva cioè che l’uomo potesse realizzare il paradiso in terra) e che abbia permeato la sua opera di valori cristiani (l’amore, la carità verso il prossimo, la pietà verso il colpevole, l’umiltà verso i più deboli, la speranza pur senza la garanzia della redenzione). Quello che lascia stupiti è l’approccio: dichiarandosi un appassionato e non un esperto, ma con una prosa complessa e oracolare, Tacconi si accosta a Tolkien come a un profeta o a un Padre della Chiesa, denunciando l’ossessione modernista per l’autore più che per la sua opera e dicendo chiaramente che l’unico modo possibile per farlo è quello della fede cattolica, e non cattolica in generale, ma quella tradizionalista, preconciliare. Pur riconoscendo espressamente che «la cosa che al contempo stupisce e affascina del Signore degli Anelli in particolare, e di tutto il ciclo letterario della Terra di Mezzo in generale, è che nulla vi è in esso di esplicitamente cattolico» (cioè «non ci sono riferimenti diretti a detti o fatti della Sacra Scrittura, o della tradizione cristiana, né il contesto storico che fa da sfondo alla trama è un’epoca cristiana»), Tacconi sembra considerare l’opera tolkieniana come una summa della sapienza biblica e della spiritualità cattolica, capace di compendiare due millenni di teologia e di santità attraverso il dogma, dimenticando che pur sempre di narrativa si sta parlando. Se la prende con il metodo storico-critico di origine protestante, che pretende di applicare il razionalismo e lo storicismo al campo della Sacra Scrittura e nega il significato eterno del testo sacro in favore dell’interpretazione personale; per non parlare dello psicologismo, che cancella la trascendenza in nome dell’immanentismo e preferisce la lettera allo spirito, creando delle ermeneutiche aberranti («l’ossessione per il metodo conduce alla morte della conoscenza»). D’altronde, lo stesso Tolkien invitava a non leggere il suo Anello come metafora della bomba atomica, segno per Tacconi della volontà di «prevenire ogni tentativo di storicizzare il suo lavoro, preservandolo da una indebita “attualizzazione” relativista che lo avrebbe privato del suo valore eminentemente “anacrónico” termine che serve ad esprimere ciò che è sovratemporale, cioè metastorico». Non minore è il disprezzo dimostrato nei confronti del fandom, dei «molti “circoli” tolkieniani dove si conoscono a memoria tutte le locande della Terra di Mezzo o i nomi di tutti i personaggi del Silmarillion ma si ignora ed anzi, si combatte la Fede Cattolica», definendoli «un’offesa al loro autore» (come se i fan non abbiano mai avuto un ruolo nell’affermazione di Tolkien nel panorama editoriale e letterario, o nella realizzazione della trilogia cinematografica di Peter Jackson).

È quindi impossibile per Tacconi sottoporre Tolkien alle categorie dell’odierna critica testuale: l’unica strada percorribile è quella di accostarsi al testo (sacro) con l’umiltà del credente e non con l’arroganza dello scienziato che applica un metodo che «svuota la realtà della sua essenza profondamente spirituale cioè metafisica, riducendo ogni conoscenza a mero fenomeno empirico da possedere, manipolare e archiviare». Logica conseguenza di questo approccio è che le tesi sostenute nel libro sono prive di fondamenti testuali e di una bibliografia critica (piaga che ha sempre afflitto cronicamente la saggistica tolkieniana in Italia), fatta eccezione per l’abbondante ricorso alle Lettere dello stesso Tolkien, le citazioni bibliche (spesso e volentieri in latino) e quelle di santi e beati (da Sant’Agostino a Tommaso da Kempis, passando per il cardinale Newman e Dom Prosper Guéranger). Certo, Tacconi rifiuta la critica letteraria, ma nel 2017 non è possibile scrivere un saggio su Tolkien ignorando gli studi esteri sull’argomento (Shippey, Flieger, Rosebury), soprattutto in considerazione del fatto che ormai sono in gran parte disponibili anche in Italiano. Purtroppo questo approccio ignora del tutto la History Of Middle Earth e inciampa tragicamente sulla citazione tanto cara alla destra italiana neofascista “Le radici profonde non gelano”, in origine (come illustrato magistralmente da Shippey) riferita al lignaggio personale di Aragorn (che il tempo e le vicende umane non riescono a gelare, anche in virtù della sua lunga età) e qui invece riferentesi, con il solito slittamento semantico, alle radici religiose della Tradizione che nessun approccio ateo-razionalista (di natura modernista e protestante) riuscirà mai a scalfire.

Tacconi non è mai sfiorato dall’idea che Tolkien volesse dialogare con la modernità a suo modo, cioè da filologo e narratore, e non spende una parola sulla rielaborazione moderna delle tematiche e delle figure prese dalla letteratura medievale e dalle saghe nordiche che, anche attraverso lo sguardo basso e periferico degli hobbit, sono in grado di farci riflettere in maniera nuova e moderna su grandi temi come la morte, il potere e l’eroismo. Certo, l’approccio ai personaggi non è quello allegorico, bensì (correttamente, visto che lo diceva lo stesso Tolkien) quello analogico, ma alla fin fine cambia poco, visto che per lo stesso Tacconi la battaglia intrapresa da Tolkien contro l’allegoria «sembra segnare ineluttabilmente una disfatta» e allegorico il suo racconto lo diventa «davvero, e di un valore superiore perché non intenzionale, ma “in trasparenza”»: Denethor e Boromir ricordano Saul e Gionata, Aragorn ha valenza cristologica e messianica, il lembas richiama l’eucarestia, Legolas è figura dell’angelo custode, Tom Bombadil è un angelo, l’attraversamento del Sentiero dei Morti è «una sorta di trascrizione mitica del dogma della Comunione dei Santi», Frodo diventa “crucifero” e “Divino Falegname” («pur non avendo fabbricato l’“Anello” della catena che ci tiene schiavi se ne fa carico, divenendo lui stesso peccato per noi»). Certo, da credenti è difficile non vedere nel viaggio di Frodo sul Monte Fato un collegamento alla salita di Cristo al Calvario, e Tacconi è senz’altro libero di farlo, ma dobbiamo tenere ben presente che questa operazione di associazione si chiama “applicazione” e ha a che vedere con la libertà letteraria che ognuno di noi fa di un’opera letteraria in base alla propria cultura e alla propria formazione, esercitando il diritto all’applicabilità che lo stesso Tolkien riconosceva ai lettori. E allora perché blindare l’opera dentro una sola chiave di lettura, tacciando qualsiasi altro approccio come protestante? A ben vedere Frodo di Gesù non ha proprio niente, dal momento che, sebbene esemplifichi una situazione sacrificale, il piccolo hobbit non è senza peccato, non risorge e vive come un fallimento il non essere riuscito a compiere la sua missione; anzi, alla fine del Signore degli Anelli è una persona malata nello spirito e nel fisico che lascia tutte le cose per cui ha lottato e se ne va non in paradiso ma a curarsi in un rifugio purgatoriale (a Tol Eressëa). Non sappiamo con certezza nemmeno se al Consiglio di Elrond Frodo si renda volontario a prendere l’Anello per spirito di sacrificio o perché già sedotto dal richiamo dell’Anello (come invece è esplicitato nel film di Jackson): il testo di Tolkien ci dice solo che il nostro hobbit si ritrova a rispondere a una voce e a una volontà che non sono sue, ma che potrebbero essere dell’Anello e quindi di Sauron.

Se si apprezza la disamina che Tacconi fa del complesso personaggio di Galadriel (che finalmente non è un semplice santino della Vergine Maria) e quella di Gollum come strumento della Provvidenza che invita tutti alla misericordia senza ergersi a giudici del prossimo, altre interpretazioni che il nostro autore fa in chiave reazionaria e antimoderna appaiono parecchio forzate: la veste multicolore di Saruman prefigurerebbe la bandiera arcobaleno («divenuta simbolo non di libertà ma di libertinismo, più tirannica delle schiavitù perché è quella che l’uomo si autoinfligge e brutalmente dissennandosi in una esaltata disperazione senza uscita»), mentre Éowyn è “una donna come Dio comanda” che si contrappone all’orrore delle suffragette o di Lady Nancy Astor (prima donna eletta al parlamento Inglese) «che hanno contribuito ad abbruttire e degradare la figura della donna». Disorienta del tutto invece la lettura della discesa dei nani nelle profondità della terra per trovare la luce come metafora dell’iniziazione massonica basata sul principio della coincidentia oppositorum, o dell’Arkengemma come rimando all’alchemica Pietra Filosofale che esprime il principio gnostico «della divinizzazione dell’uomo attraverso una virtù o un’esperienza al contempo interiore ed extracorporea, che si serve di un oggetto sacro come catalizzatore del potere divino».

Quello che invece di Tacconi mi ha seriamente stupito (in negativo) è l’aver voluto infilare anche in Tolkien la polemica vaticansecondista, vera ossessione e motivo dominante della produzione dei cattolici tradizionalisti: l’Anello viene utilizzato per condannare il principio (esistenzialista, luterano ed eretico) oggi molto diffuso secondo cui «è nell’esperienza del peccato che si fa anche l’esperienza di Dio»; l’abnegazione di Sam funge da antidoto all’esperienzialismo di certa spiritualità on the road oggi in voga; i Sovrintendenti di Gondor sono i papi che custodiscono la Chiesa fino al ritorno del Re, cioè Cristo-Messia, ma nel frattempo hanno tradito la loro funzione e «hanno voluto guardare nel Palantìr aprendosi imprudentemente al dialogo con il mondo»; Saruman è il nuovo apostata Giordano Bruno, «sacerdote e profeta della nuova religione panteistica e antroposofica», il “modernista” avvinto dalla mania della novità e il simbolo di una Chiesa che, seguendo la gnosi, ha tradito la custodia immutabile del dogma e della verità, a differenza di Gandalf che è «l’umile stregone ancorato alla Tradizione»; Éomer, con il suo tradimento agli ordini ricevuti per obbedienza a un bene più grande, fornisce il modello di comportamento per i veri credenti di oggi nell’attuale «sfacelo intellettuale, morale, giuridico, dottrinale e liturgico» della Chiesa di oggi, avvelenata dai subdoli consigli di Grima Vermilinguo (che ha fatto sì che i nemici pullulassero nella Città di Dio) e rovinata dalla comunione alchemica e gnostica tra elfi e orchi, bene e male alleati insieme per distruggere la Chiesa dall’interno con l’ecumenismo, il marxismo cattolico e l’evoluzionismo. Una posizione che trova il suo apogeo nell’ultimo capitolo L’Albero Bianco della Tradizione, che non solo rivendica l’appartenenza di Tolkien al cattolicesimo preconciliare ma utilizza anche l’immagine dell’albero di Gondor per fare un’apologia della Tradizione e condannare il Concilio Vaticano II, reo di aver cancellato il latino per rendere più accessibile il Mistero ma di averlo reso ancora più inaccessibile, perché «impossibile da avvicinarsi con lo strumento sproporzionatamente inadeguato della nostra ragione e, ancor più, della nostra presuntuosa e gnostica volontà di “comprendere” e di “sentire” il divino». Obietterei che Il Signore degli Anelli è stato pubblicato nel 1955, quando cioè il Concilio Vaticano II era ancora di là da venire, ma sono certo che il mio approccio sia troppo storicista e vaticansecondista per poterlo fare.

venerdì 12 gennaio 2018

Alexandre Dumas - L'ottava crociata. I Bianchi e i Blu - Parte IV

Ed eccoci a L’ottava crociata, ultimo e più breve capitolo della saga de I Bianchi e i Blu di Alexandre Dumas pubblicato da Gondolin che, in linea con quanto fatto nelle altre tre parti (ognuna a sé stante), ci catapulta nella campagna d’Egitto di Napoleone nel 1798-99, quando il futuro imperatore dei francesi mette sotto assedio San Giovanni d’Acri con lo scopo di completare la conquista della Terra Santa e di annetterla all’Egitto, indebolendo così l’esercito turco alleato degli inglesi. Dumas, figlio di un generale di quella campagna, ci porta sul campo di battaglia, tra le cariche e le palle di cannone, in un crescendo di atti cruenti ed eroici, e ritrae le eroiche truppe francesi che, fronteggiando ogni possibile difficoltà (malattie, privazioni e clima ostile), combattono strenuamente in luoghi resi famosi dalla Bibbia e dai Vangeli; anzi, l’intera campagna si configura come una vendetta nazionale della sconfitta dei Corni di Hattin (1187) dei cavalieri crociati guidati da Guido di Lusignano contro il Saladino, e assume le connotazioni di una nuova crociata. Inoltre, Dumas eccelle nell’arte della digressione, nella quale era maestro, riservandosi capitoli interi volti a raccontare il background storico-geografico dei luoghi attraversati e ricavati quasi sempre dalla Bibbia, oltre ad altri come quello delle religiose dell’ordine di Santa Chiara di San Giovanni d’Acri che, sicure della morte per l’arrivo dei saraceni, si tagliarono tutte il naso con il rasoio per evitare di essere violentate e per venire uccise conservando la loro purezza. Grande parte si riserva l’eroico Roland, che mette più volte a repentaglio la propria vita quasi con noncuranza per dare la vittoria alle armate francesi, mentre tornano le vecchie conoscenze Faraud, Falou e la Dea Ragione. Forse qualcuno resterà deluso dalla struttura frammentaria dell’opera nel complesso, con quattro nuclei narrativi indipendenti che vedono qua e là ritornare alcuni personaggi senza risolvere nulla (che fine hanno fatto Morgan, Coster de Saint-Victor e Diana de Fargas, protagonisti del precedente Il colpo di Stato?), però è bene dire che tutti i fili narrativi verranno portati avanti ne I Compagni di Jehu, sempre di Dumas, che spero di riuscire a pubblicare per dare continuità alla saga. Sono comunque memorabili le scene di Napoleone che chiede ai suoi generali informazioni sul deserto della Siria distribuendo loro le biografie di Plutarco, libri di mitologia e la Bibbia, quella del trucco messo in pratica sulla spiaggia dal mercante di palle di cannone per recuperare pezzi di artiglieria o quella del commodoro inglese Sidney Smith che, di fronte al dono delle teste dei nemici uccisi che il pascià Al-Jazzar gli fa recapitare come prezioso regalo, dichiara: «Ecco che cosa vuol dire avere un barbaro per alleato».

Walter Scott - Waverley. Prima parte

Continuano le riproposte di romanzi scomparsi da parte delle Edizioni Gondolin (che, siccome nessuno conosce Tolkien, tutti continuano a chiamare Gondolìn con l’accento sulla i, come se si trattasse di un’imbarcazione veneta) e, in continuità con quanto fatto con Rob Roy, è ora la volta di Waverley di Walter Scott, l’inventore del romanzo storico che in Italia è conosciuto solo come fonte di ispirazione per Alessandro Manzoni e i suoi Promessi Sposi. Anche stavolta esce con illustrazioni d’epoca, prese da una bellissima edizione francese di fine Ottocento, ma, a causa della lunghezza del testo, esce in due parti da 304 pagine ciascuna; mi auguro che questa prima parte venda a sufficienza per realizzare più avanti la seconda, visto che qualcuno mi ha fatto notare che, se simili romanzi sono scomparsi dalla circolazione, una ragione pur ci sarà. Waverley è la prima opera di Scott, e quindi gli si perdoneranno alcuni difetti, soprattutto nei capitoli iniziali: stiamo comunque parlando di un classico del romanzo storico, capace di imporre nella memoria collettiva una Scozia tutta kilt e cornamusa e di fornire il nome per la stazione ferroviaria di Edimburgo (che si chiama per l’appunto Waverley). È interessante notare come la trama sia molto simile a quella di Rob Roy, dove il giovane Frank Osbaldistone si avventura nel nord dell’Inghilterra per poi sconfinare in Scozia, prima nelle Lowlands e poi nelle Highlands, proprio nel momento in cui si stanno radunando le forze per la prima sollevazione giacobita del 1715: anche qui c’è un giovane protagonista, Edward Waverley, e anche lui dall’Inghilterra finisce prima nelle Lowlands e poi nelle Highlands, solo che l’insurrezione è quella del 1745, quella in cui Bonnie Prince Charlie, il Giovane Pretendente della casa Stewart, sbarca dalla Francia per affrontare (con esiti nefasti) le forze governative degli Hannover. Ovviamente, Edward viene coinvolto nell’insurrezione attraverso l’amore: le fanciulle qui sono addirittura due, la tranquilla Rose Bradwardine e la focosa Flora Mac-Ivor, sorella del capoclan Fergus Mac-Ivor e come lui del tutto consacrata alla causa del Giovane Pretendente Stewart, e non ci vuole tanto a capire come mai un giovane confuso e di belle speranze perda la testa per una bella scozzese che suona l'arpa celtica solo per lui sotto una cascata. I temi sono gli stessi di Rob Roy: lo scontro politico fra tory (favorevoli agli Stuart) e whig (partigiani degli Hannover), i conflitti religiosi, la relazione tra inglesità e scozzesità, modernità e antichità, aspirazione e pragmatismo. Anche in questo caso Scott utilizza il viaggio come metafora romantica della crescita che unisce i percorsi paralleli del protagonista e del lettore e che utilizza la Scozia come altrove fantasy e barbarico, una realtà misteriosa e magica fuori dal tempo (tanto che Edward trova incredibile che simili cose accadano sul suolo britannico, a pochi passi da casa, senza che ci sia «bisogno di attraversare i mari per raggiungere simili fantastiche terre»). Scott vuole sottolineare con forza la diversità storica e culturale della Scozia, insieme al veloce cambiamento di cui il Paese è stato testimone e che ha reso irriconoscibili gli scozzesi della sua epoca con quelli di 60 anni prima (non a caso il sottotitolo originale è Un racconto di 60 anni fa), con continue sollecitazioni nei confronti del lettore per fargli notare le differenze tra i costumi contemporanei e quelli dell’epoca. Per esempio, Edward fa subito la conoscenza del sistema del blackmail, il tributo delle Highlands, che coincide in tutto e per tutto con il sistema mafioso (se paghi, ottieni la protezione del capoclan che ti assicura la copertura economica in caso di furto di bestiame, altrimenti preparati a subire violenze e rappresaglie): una cosa molto comune 60 anni prima agli eventi narrati, ma del tutto scomparsa al tempo in cui scrive il conciliante Scott. Non è un mistero che lo stesso Scott intendesse proporsi in prima persona come il grande mediatore tra la cultura scozzese e la cultura inglese, cosa confermata anche dalla lingua da lui scelta, cioè un inglese con inserimenti qua e là di scozzese e celtico in funzione caratterizzante di certe situazioni o di alcuni personaggi, oltre allabbondante ricorso a canzoni e poesie tradizionali (ma molto più spesso inventate). La grande storia fa quindi da sfondo alle storie dei personaggi, ma Waverley è portato dalla storia piuttosto che essere un protagonista attivo: “il nostro eroe”, come lo chiama spesso Scott con evidente ironia, rivela già dal nome (weaver significa “oscillare”) di essere un eroe medio, anche se non di estrazione borghese come Frank Osbaldistone, essendo infatti un aristocratico cresciuto dallo zio baronetto in una grande dimora posta al centro di una proprietà ancestrale nel Sud dell’Inghilterra. Anche Edward è un sognatore come Frank, un autodidatta che si nutre di disordinate letture e fantasie poetico-cavalleresche, tanto che, una volta in Scozia, dichiara: «Mi trovo nel paese delle avventure romantiche e militari e non mi rimane che stare a vedere quale sarà la mia parte». Nel romanzo però manca del tutto la riflessione sul ruolo fondamentale della nuova Scozia industriale e commerciale nel nuovo Regno Unito che c’è in Rob Roy, dove Frank Osbaldistone non attraversa il confine fino al capitolo 18 e fino al capitolo 26 si ritrova a Glasgow, importante centro industriale e commerciale nelle Lowlands, anche nei confronti del Nuovo Mondo; Edward abbandona invece la sua guarnigione nelle Lowlands alla fine del capitolo 6 per andare a visitare un vecchio amico giacobita dello zio nel Pertshire, al confine con le Highlands, quindi passa subito nella Scozia barbarica senza troppe vie di mezzo. Inoltre, dal punto di vista stilistico, a differenza di Rob Roy, in Waverley non c’è una narrazione in prima persona rivolta a un destinatario in cui il lettore si identifica, a segnare uno scarto temporale fra la nostra epoca e quella in cui sono ambientati gli avvenimenti, ma una narrazione in terza persona con un narratore onnisciente che interviene spesso e volentieri per dire la sua anche nei confronti del lettore. Assolutamente spettacolare, per gli amanti delle dinamiche editoriali, l’episodio del signor Pembroke che si reca dall’editore per pubblicare due noiosissimi e ponderosi libri (a suo avviso fondamentali per la causa cattolica) che vengono però rifiutati per lo scarso appeal commerciale e l’eccessivo investimento economico.

martedì 9 gennaio 2018

Fulton Sheen - La vita merita di essere vissuta

Oggi è perlopiù dimenticato, ma c’è stato un tempo, negli anni Cinquanta-Sessanta, in cui l’arcivescovo americano Fulton Sheen era un mito conosciuto anche in Italia come “il famoso vescovo della televisione”, un personaggio che si spendeva per diffondere il Vangelo attraverso libri, conferenze, programmi radiofonici e televisivi. Proprio da una di queste trasmissioni deriva questo La vita merita di essere vissuta, da me curato per una nuova edizione Fede & Cultura (un tempo si chiamava Vale la pena di vivere e l'edizione americana originale è del 1953). Si tratta di 26 capitoli, ognuno contenente una delle conversazioni televisive tenute dal nostro all’inizio degli anni Cinquanta. È bene premettere che non si tratta di un testo devozionale in senso classico: con garbo e ironia, con l’aggiunta di molte illustrazioni esplicative (di Dik Browne) che ritraggono angioletti alla lavagna, Sheen affronta numerose e diverse questioni che potevano essere oggetto di conversazione in una famiglia media americana, come le cause delle tensioni coniugali, il modo di trattare gli adolescenti, la tolleranza, il rapporto tra scienza e fede. Tutto per dimostrare il principio per cui la vita merita di essere vissuta solo quando l’uomo riconosce il destino per cui è stato creato: diventare figlio di Dio. L’autore dimostra arguzia e scherza molto («Se date a un ragazzo una carabina Flobert e gli indicate un bersaglio, lui non sarà troppo pericoloso. Ma se gli date la carabina senza indicargli neanche un bersaglio, lui magari tirerà i colpi contro i vetri della finestra della scuola»), cita aneddoti o frasi sentiti per la strada («Il medico ha chiesto al marito: “Cosa c’è in voi, signore, che non va?”. L’uomo ha risposto: “Mangio troppe ciliege...”. E la moglie ha aggiunto: “Che galleggiano sui cocktail”»), dedica un’intera conversazione all’umorismo degli irlandesi, abbonda di citazioni e poesie, dimostra di essere autenticamente americano nella ferma condanna del comunismo e nell’idea che gli Stati Uniti siano stati armati da Dio per combattere e abbattere l’impero sovietico (erano gli anni Cinquanta, c’erano la Guerra Fredda e il maccartismo). Picco assoluto del volume è il capitolo dedicato al funerale di Stalin, che anticipa la vera morte di Stalin e mette in scena un funerale preso direttamente dal Giulio Cesare di Shakespeare con gli stessi dialoghi della tragedia ma i nomi dei personaggi cambiati (al posto dei fedelissimi di Cesare troviamo i membri del governo sovietico).