mercoledì 14 febbraio 2018

J.K. Rowling - Harry Potter e la camera dei segreti

Cosa dire di Harry Potter e la camera dei segreti che non abbia già detto dieci anni fa QUI, all’epoca della mia prima lettura? Non ho rivalutato l’antipaticissimo elfo domestico Dobbie e continuo a pensare che la cosa migliore sia il vanesio Gilderoy Lockhart (Allock nella vecchia traduzione), un impostore malato di protagonismo la cui unica abilità consiste nell’esecuzione di un incantesimo di memoria sui veri autori delle eroiche imprese di cui poi si attribuisce il merito. Mi sento di confermare quanto già scritto, soprattutto riguardo alla struttura che è identica al primo Harry Potter e la pietra filosofale, con l’andamento dell’anno scolastico e dei suoi riti, le feste (Halloween, Natale, Pasqua), il Quidditch, l’antipatia dei Serpeverde e la risoluzione del mistero chiave che ha il suo focus nell’ultima parte; c’è perfino la stessa parte paurosa nel bosco di notte, anche se i particolari orrorifici aumentano con l’aggiunta dei ragni giganti e del basilisco. Insomma, è un sequel in tutto e per tutto, che comunque mette in luce l’abilità della Rowling nel tratteggiare la realtà di Hogwarts come magica per Harry Potter e quindi per il lettore ma banale per tutti gli altri appartenenti al mondo magico: quella è la realtà, non la nostra, ma noi non lo sappiamo e possiamo entrarci solo un po’ alla volta, attraverso gli occhi del piccolo protagonista e le sue avventure. Più del primo capitolo, la biografia personale di Harry, legata alla morte dei genitori e al tentativo di assassinio da parte di Voldemort, riguarda trasversalmente l’intero mondo dei maghi: qui l’intera vicenda si basa sul recupero del passato, su un’indagine che rivela una verità millenaria nascosta dietro una leggenda, quella della Camera dei Segreti di Salazar Sepreverde (uno dei fondatori di Hogwarts), costruita intorno all’anno Mille. Con un lavoro archivistico e storiografico, Harry, Ron e Hermione scoprono l’entrata nella camera e individuano il vero colpevole di un assassinio perpetrato 50 anni prima (e i tentativi di occultarlo): così facendo mettono in luce un particolare importante del passato di Voldemort conservato nelle pagine del suo diario, cioè il diario di Tom Riddle, che magicamente trasporta Harry e lo fa assistere a vicende che riguardano la storia della scuola le cui ripercussioni continuano anche nel presente. Questo dà l’occasione alla Rowling di fare una riflessione per niente banale sulla credibilità dei documenti storici: il diario di Riddle racconta un solo punto di vista, quello di Voldemort, che ha uno scopo malvagio, e infatti il responsabile non è mai quello che sembra inizialmente (come peraltro già accadeva con il primo capitolo). Il tutto si collega poi al grande tema della saga, quello dello scontro razzismo-tolleranza, con la differenza tra “purosangue” (nati in famiglie di soli maghi), “mezzosangue” (nati da un mago e da un babbano) e “sanguemarcio” (nati da famiglie di soli babbani): Salazar Serpeverde avrebbe volto essere più selettivo nella scelta degli allievi, in quanto considerava i nati babbani indegni di studiare magia, e questa sua scelta portò a una spaccatura fra lui e gli altri tre fondatori (Godric Grifondoro, Tosca Tassofrasso e Corinna Corvonero), tanto che il mago decise di andarsene da Hogwarts non prima di aver costruito la Camera dei Segreti, nella quale rinchiuse una creatura orribile che restasse in attesa del suo erede e ubbidisse solo a lui (attaccando i nati babbani). Questa contrapposizione non rimane però confinata alla storia visto che perdura nello schieramento “politico” attuale, con un Lucius Malfoy che avversa pesantemente i nati babbani e Arthur Weasley che invece è talmente attratto dal mondo dei babbani da rimanere affascinato dalla tecnologia e collezionare manufatti babbani; fortunatamente, a vigilare su possibili derive razziste vigila Silente, che dichiara solennemente che «chiunque cerchi aiuto a Hogwarts lo troverà sempre».

lunedì 5 febbraio 2018

Paolo Cognetti - Le otto montagne

Acclamato come ennesimo caso editoriale e premiato dalla vittoria nel Premio Strega, Le otto montagne di Paolo Cognetti ha avuto un grande successo di critica e di pubblico: chi ama la montagna ci si è ritrovato, quindi lo scrittore è indubbiamente riuscito a parlare a un certo tipo di lettori e a rifletterne i sentimenti. Il romanzo racconta infatti la storia di un rapporto, quello che instaura tra l’uomo e la montagna, nella fattispecie fra il protagonista Pietro e le alpi occidentali: fin da piccolo Pietro ha trascorso con i genitori le vacanze estive a Grana, paesino sotto il Monte Rosa, dove ha subito la sua iniziazione montana all’ombra di un padre burbero e invasivo innamorato delle camminate. La prima parte del romanzo è tutta qui, nel rapporto tra Pietro e il padre, l’iniziale ripudio e il tardivo riavvicinamento, quando il padre ormai è morto e ha lasciato al figlio una proprietà, e il figlio ripercorre i sentieri dell’infanzia per riallacciare i contatti con il genitore perduto e in fondo mai capito. E poi c’è la storia di un’amicizia virile, quella tra Pietro e Bruno, che esprime la dialettica fra chi resta e chi se ne va, fra chi appartiene a un mondo e chi ne è estraneo, fra l’uomo che torna alla natura e l’uomo che resta nella natura: Bruno resta sempre in montagna perché ci è nato, appartiene a quel mondo, mentre Pietro è un estraneo, ogni estate torna in montagna ma poi riparte per Milano, e anche da adulto abbandona Grana per seguire i suoi viaggi. La trama non è troppo complessa: Cognetti confeziona un romanzo esistenziale in cui la montagna è un personaggio fondamentale, dotato di volontà propria, che parla e agisce come una sorta di deus ex machina (la valanga), ma che soprattutto diventa una sorta di dimensione filosofica, metafisica e sacrale, con le sue regole e i suoi riti (lo scuoiamento del camoscio), come del resto si intuisce dal titolo che fa riferimento a un viaggio di Pietro in Nepal e a un mandala. Ma soprattutto la montagna è il luogo-esperienza in cui si va a rivedere ciò che si è stati («Un uomo con due baffi bianchi mi raccontò che per lui era un modo di ripensare alla sua vita. Era come, se attaccando lo stesso vecchio sentiero, una volta all’anno, si addentrasse tra i ricordi o risalisse il corso della propria memoria»), che parla di se stessi e delle proprie esperienze («Non era un paesaggio poi molto diverso da quello di Grana, e guidando pensai che tutte le montagne in qualche modo si somigliano, eppure non c’era niente, lì, a ricordarmi di me o di qualcuno a cui avevo voluto bene, ed era questo a fare la differenza. Il modo in cui un luogo custodiva la tua storia. Come riuscivi a rileggerla ogni volta che ci tornavi. Poteva esisterne solo una, di montagna così, nella vita, e in confronto a quella tutte le altre non erano che cime minori, perfino se si trattava dell’Himalaya»). Allo stesso tempo però non si tratta nemmeno di un idillio alpestre e solo apparentemente la montagna rappresenta una vita migliore rispetto a quella tradizionale (i familiari di Bruno non sono precisamente dei simpaticoni), vista la sua natura ambigua e il fatto che si tratta di un mondo giunto alla fine della propria civiltà (non a caso è abbandonato e presenta già i segni della trasformazione). Anche il finale, che vede Bruno crollare sotto i colpi della crisi economica e del fallimento matrimoniale, non comunica affatto modelli positivi di riferimento. Pietro, dal canto suo, è perennemente insoddisfatto, né adulto né ragazzo: il suo percorso di riavvicinamento al genitore è irrisolto e il suo tentativo di vivere l’eredità paterna è interrotto dalla sua volontà di andare in Nepal a lavorare per le onlus, cosa che lo porta ad abbandonare l’amico e la proprietà. Ecco, proprio il rapporto tra le due parti (quella del padre e quella dell’amicizia) non è la cosa più riuscita del romanzo, specie nella seconda parte. Dal punto di vista stilistico, Cognetti non sperimenta nulla ma presenta una lingua semplice e sobria, all’americana, con dialoghi scarni e grande importanza conferita a gesti e sguardi, e con una grande precisione nei termini tecnici che si riferiscono all’universo montano di riferimento. Attenzione, però: è tutto estremamente serio, e non si ride mai.

giovedì 1 febbraio 2018

Hilaire Belloc - Napoleone

Dopo La Rivoluzione francese (che ha raccolto qualche critica da parte delle frange più estreme dei lettori cattolici, poco propensi ad accettare qualcuno che parla bene di Rousseau), Fede & Cultura ci riprova con la ripubblicazione di Napoleone, sempre di Hilaire Belloc, una biografia sul modello di Elisabetta regina delle circostanze ma più focalizzata sul personaggio e meno su divagazioni artistico-letterarie. Belloc, mezzo inglese e mezzo francese, racconta la storia del grande condottiero senza tuttavia i pregiudizi contrari degli inglesi e l’entusiasmo acritico dei francesi. Racconta la sua straordinaria vitalità e la sua sfrenata ambizione, ne parla con entusiasmo, ne riconosce i limiti ma rende giustizia al suo carisma. Soprattutto, parla con rammarico del suo tentativo, come generale e legislatore, di unificare l’Europa restituendole la pace (a costo di tante battaglie) e riprendendo la tradizione augustea: un progetto che, se fosse riuscito, avrebbe cambiato l’intera storia e la cultura di un continente condannato ai moti nazionalisti dell’Ottocento e al massacro della Prima Guerra Mondiale. Condivisibile o meno, questa impostazione risente dall’avversione dell’autore per i prussiani. Belloc, da anglofrancese che scrive all’inizio degli anni Trenta, ha ancora vivo il ricordo della Grande Guerra e del militarismo prussiano, e infatti il nemico che contrappone a Napoleone è proprio la Prussia, che a fine Settecento aveva incarnato il sogno illuministico di perfezione e di ordine anche nelle cose militari grazie a un esercito che si reputava invincibile e che invece Napoleone spazza via in un solo giorno, nella battaglia di Jena del 1806. Come ne La Rivoluzione francese grande spazio viene dato alla storia militare, attraverso la quale Belloc fa capire che la storia è andata in un modo ma poteva anche andare in un altro, per via di decisioni personali sbagliate e dello zampino del caso che interviene negli avvenimenti umani e li modifica in maniera decisiva, come nel caso di Waterloo, quando Napoleone pensò di poter vincere e quasi ci riuscì, ma il corpo d’armata da lui mandato per prendere alle spalle i prussiani non arrivò per colpa di un altro ordine arrivato nel frattempo. Belloc ci catapulta sul campo di battaglia, fra le palle di cannone e le cariche della cavalleria, con uno sguardo che potremmo dire cinematografico: addirittura, racconta fatti già noti con uno sguardo obliquo capace di mettere il lettore dentro i fatti con la sensazione di non sapere come andranno a finire (o con la speranza che vadano diversamente). Per esempio, nella battaglia di Abukir, quella in cui Nelson distrusse la flotta francese mettendo di fatto fine alla campagna d’Egitto, Belloc intitola il capitolo “Quello che si vedeva da Rosetta” e racconta quello che si vedeva (poco) e si sentiva, senza sapere come sarebbe andata a finire, attraverso il diario di qualcuno che il giorno della battaglia stava da quelle parti. Quando ci riporta in Francia, Belloc lo fa sempre riversando il suo disprezzo per il parlamentarismo, per i politici immobili e corrotti, come quando ricostruisce il colpo di Stato del 18 brumaio, quando Napoleone abbatté il parlamento rivoluzionario e si fece primo console. Non è però un ritratto agiografico e trionfale dell’imperatore: Belloc ne affronta anche il lato farsesco quando racconta l’incoronazione a Notre-Dame e il pomposo cerimoniale ideato da Napoleone che fece venire il papa da Roma e riprodurre la spada di Carlo Magno, oppure ritrae la folla assiepata fin dal mattino nella chiesa gelata con il papa che passa e benedice senza che nessuno capisca cosa stia facendo (con la Rivoluzione nessuno più ha visto processioni né preti da molti anni) e soprattutto senza che i presenti riescano a vedere qualcosa.