venerdì 30 marzo 2018

Alessandro Barbero - Donne, madonne, mercanti e cavalieri

Quanto amo Alessandro Barbero! La sua chiarezza divulgativa e la sua capacità di narratore me lo farebbero adorare anche se leggesse la lista della spesa, a riprova del fatto che la storia è la materia più bella in assoluto se fatta bene (cioè non come viene fatta a scuola, dove in genere te la fanno odiare). Figuriamoci allora quanto ho trovato meraviglioso questo Donne, madonne, mercanti e cavalieri, libro nato da un ciclo di conferenze che racconta il Medioevo attraverso la vita di sei personaggi, tre maschili e tre femminili, tra Duecento e Quattrocento, un frate (il francescano Salimbene da Parma), un mercante (Dino Compagni di Firenze, contemporaneo di Dante), un cavaliere (Jean de Joinville, crociato vassallo di San Luigi re di Francia), due sante (Santa Caterina da Siena e Giovanna d’Arco) e la prima donna che si è mantenuta facendo la scrittrice (Christine de Pizan): ognuno è una finestra aperta sulla sua epoca, ognuno ha scritto delle memorie nelle quali ha riversato tutta la sua anima, i suoi incontri e le sue esperienze, e l’ha fatto in maniera diretta, senza peli sulla lingua (Salimbene ha conosciuto papi e vescovi e di ognuno dice se era una brava persona o un furfante, usando come metro di giudizio l’ospitalità e il modo di trattare l’ordine francescano), nella “totale assenza di retorica, formalismo e ipocrisia, che saranno i peccati di altre epoche, non della loro”. Il racconto di Salimbene è il più divertente e ricco di aneddoti, come quando racconta il modo in cui il patriarca di Aquileia celebra la quaresima (che il primo giorno fa servire un pranzo con 40 portate, il secondo con 39, il terzo con 38, e così via fino al Sabato Santo, con una sola portata, avvicinandosi così al digiuno e alla penitenza) o la storia del frate con un indemoniato (quando il prete dileggia il diavolo per gli errori di grammatica e il diavolo, che condivide perfettamente il sistema di valori dei frati, risponde seccato che è colpa della bocca rozza del contadino) che spiega benissimo l’orgoglio della cultura di una élite intellettuale che diventa facilmente presunzione. Il racconto di Dino Compagni non dice nulla sulle attività del mercante ma è illuminante per capire il funzionamento della politica comunale del tempo, una politica in cui si discute molto e che è piena di retroscena (con tutti i sotterfugi cui si ricorre per praticare la corruzione con il denaro pubblico) ma che poi è violenta è «feroce, spietata, con il potere come unica posta», che non esita a ricorrere alla violenza e all’omicidio per salvaguardare i propri interessi e quelli dei propri parenti e del proprio partito, e se ne infischia dell’interesse pubblico e soprattutto della religione: particolare da non sottovalutare, visto che siamo abituati a pensare alla società del Medioevo come a una società profondamente religiosa. Ma è proprio da questi racconti che si evince la differenza totale fra le classi: i mercanti cercano il compromesso e la pacificazione delle parti, i nobili invece tirano fuori le spade. La mentalità aristocratica vuole una società divisa con da una parte i gentiluomini, i nobili, i cavalieri, i signori, e dall’altra i villani, macrocategoria che comprende contadini, mercanti e finanzieri, «quelli che hanno fatto i soldi e ne hanno più dei cavalieri. E questa è un’ingiustizia perché i villani, si sa, sono gente ignobile». E di questa mentalità aristocratica è un perfetto esempio Jean de Joinville, che di fronte all’invito del re si rifiuta di lavare i piedi ai poveri il Giovedì Santo, e che al cappellano del re Robert de Sorbonne, che gli rinfaccia l’essere vestito meglio del re di pelliccia e stoffe preziose, risponde che i nobili vanno vestiti così perché così andavano vestiti i loro padri e i loro nonni, a differenza dei parvenucome lui che hanno fatto carriera venendo dal basso; e, guarda un po’, il re gli dà pure ragione. I cavalieri sì sono pronti a dare la vita per il Signore in battaglia, ma fino a un certo punto: davanti a un cantiniere che proponeva di farsi ammazzare tutti dagli assedianti saraceni per andare dritti in paradiso, Jean de Joinville liquida la questione con una frasetta: «Ma noi non gli abbiamo mica dato retta». Ma si faceva politica anche in campagna: nella Francia spaccata in due del dopo Azincourt (si parla della Guerra dei Cent’anni), i Borgognoni stanno con gli inglesi mentre la Francia del Sud sta con il Delfino, il villaggio di Giovanna d’Arco sta con il Delfino mentre il villaggio vicino sta con gli inglesi, e quando suo padre va a trovarla a Parigi «torna a casa con l’esenzione dalle tasse per l’intero villaggio, perché in campagna si sa cos’è la politica e si sa approfittare delle occasioni». La cosa fondamentale di cui tenere conto è che, mentre le figure maschili raccontate da Barbero sono in qualche modo emblematiche, rappresentando categorie proprie della loro epoca, le figure femminili prese in esame non lo sono affatto, esulando dal ruolo tipico della donna nel Medioevo, che era quello di moglie e di madre e non scriveva di certo libri. La più sorprendente di tutti è Christine de Pizanne, che è stata moglie e madre ma un certo punto ha cominciato ad affermarsi come scrittrice professionista: è un’epoca in cui non esiste la stampa e i libri costano carissimi, e le persone, quando non possono copiare le pagine, sono abituate a imparare a memoria (Salimbene cita una canzonetta satirica in latino che prende in giro un domenicano e dice di ricordarsene solo otto versi perché sono passati tanti anni e all’epoca non l’aveva imparata con la dovuta attenzione). Christine produce quindi un vero e proprio manoscritto, un esemplare unico che poi offre al suo committente (un re, un principe, un duca) che la ricompensa lautamente, e per farlo mette in piedi una vera azienda, con dei copisti professionali e degli autori di miniature (fra cui almeno una donna), stabilisce addirittura lei il piano iconografico e si fa ritrarre nelle illustrazioni del manoscritto. C’è però una costante nella vita di queste donne, anche se assolutamente eccezionali: il parto, la gravidanza, la maternità, i neonati attaccati al seno, lo svezzamento sono tutte figure che tornano sempre, anche nel discorso di chi non ne ha fatta esperienza diretta ma che vi fa ricorso quando deve trovare immagini o analogie (il Medioevo ragiona per analogie). Caterina da Siena si riferisce ai prelati che pensano solo ai loro interessi dicendo «costui fa come la donna che partorisce i figliuoli morti», a Giovanna d’Arco il tempo dell’attesa senza poter seguire la sua vocazione «sembrava interminabile come a una donna incinta», Christine de Pizanne (che i figli li ha fatti) dice che fare libri è molto simile a partorire bambini, addirittura immagina di dialogare con la Natura che le dice che i libri li “partorirai nella gioia” (e non “con dolore” come dice la Scrittura). Ma è interessante altresì notare che Christine si pone come antesignana del femminismo, inserendosi nel dibattito culturale (i dotti sono solo uomini) e riflettendo sul ruolo della donna nella società patriarcale del tempo e invitando a farla finita con i soliti luoghi comuni che vogliono le donne capaci solo di piangere e buone solo a letto; addirittura tocca il tema della violenza sessuale, prendendosela con gli uomini che in questi casi sono pronti a sostenere che in fondo le donne se la sono cercata ed è loro piaciuto. Senza contare il suo impegno politico in favore dei francesi contro gli inglesi (siamo sempre nel contesto della Guerra dei Cent’anni), che la porterà a ritirarsi in convento e poi a entusiasmarsi per le imprese di Giovanna d’Arco, argomento del suo ultimo libro. «Quante volte abbiamo sentito dire», si chiede Barbero, «che l’individuo nel Medioevo non esisteva, che è un’invenzione del Rinascimento? Io credo che i nostri sei personaggi sarebbero rimasti stupefatti, e poi si sarebbero messi a ridere, se avessero sentito dire simili sciocchezze». Difficile dargli torto.

1 commento:

  1. Ho utilizzato le conferenze su you tube sul medioevo di Barbero per far lezione a scuola con grandissimo successo

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