
Gli italiani impazziscono per l’arrivo di ogni Royal Baby, basta vedere il diluvio di servizi e articoli che fioccano al riguardo. Non sono i soli, a dire il vero, visto che la monarchia britannica produce un indotto di almeno un miliardo di sterline l’anno, prova che il marchio Windsor esercita sul mondo intero un fascino non paragonabile ad alcuna monarchia del mondo. Uno dei massimi cantori dei reali inglesi è Antonio Caprarica, che, neanche a farlo apposta, ha fatto uscire questo Royal Baby. Vite magnifiche e viziate degli eredi al trono giusto in contemporanea alla nascita del terzo figlio di William e Kate. Il libro, che riprende (sviluppandole) personaggi e situazioni del precedente Il romanzo dei Windsor e continua a riflettere sul senso della monarchia ereditaria oggi. Affidare la rappresentanza di uno Stato a un individuo il cui unico merito è aver vinto, come disse Marx, la “lotteria zoologica”, è quanto di più antitetico alla meritocrazia: potrebbe andare bene, come nel caso di Elisabetta II, ma potrebbe anche andare male e premiare un individuo dalle doti intellettuali modeste (noi in Italia ne sappiamo qualcosa con Vittorio Emanuele III). Ecco quindi che il libro presenta una carrellata di eredi delle monarchie del mondo, in cui ovviamente i Windsor la fanno da padroni, tutti accomunati dalla totale inaffettività genitoriale e dagli abusi. Se si parte dal presupposto che essere monarchi significa ricoprire un ruolo e rinunciare interamente ad avere una vita privata e al diritto di affermare la propria personalità, si capisce subito che l’altra faccia del privilegio è l’infelicità e la prigionia. Nascere in una famiglia reale ha sempre significato nascere praticamente senza genitori ed essere schiacciati dal proprio ruolo, con tutti i problemi psicologici che ne derivano. L’attuale erede al trono Carlo, per esempio, a tre anni aveva già imparato a fare l’inchino alla regina, veniva punito per aver fatto le linguacce, non poteva incontrare i suoi genitori solo mezz’ora al giorno dopo la colazione e non ha potuto chiamare la regina “mamma” fino alla festa di compleanno per i suoi 50 anni. Non a caso Carlo ha ricordato i suoi anni dell’infanzia come “absolute hell”, “inferno assoluto”, riferendosi soprattutto alla sua esperienza scolastica: in tempo di democrazia e di comunicazione di massa, la Casa Reale non poteva più vivere distaccata dai suoi sudditi ma rendersi accessibile al popolo, e quindi per la prima volta un erede al trono (prima educato nel chiuso della reggia) fu mandato in una scuola pubblica, scatenando l’appetito di notizie e pettegolezzi. Uno sforzo verso la normalità che non è giovato a nessuno, visto il bullismo cui è stato sottoposto Carlo, bullizzato per le sue orecchie a sventola e per il suo status regale. Una storia che in qualche modo riecheggia quella del futuro Edoardo VIII, mandato tredicenne dal padre Giorgio V all’accademia navale e preso dai compagni e messo sotto una finestra a ghigliottina per ricordargli quello che gli inglesi fanno ai re che non gli obbediscono. Ecco quindi che la vicenda degli eredi al trono corrisponde alla ricerca di un difficilissimo equilibrio tra privilegio e normalità, adulazione e autolimitazione, nella consapevolezza del dovere di mantenere la monarchia come qualcosa di straordinario e luminoso (la famosa “soap opera” nella definizione di Carlo), ben diverso dalle “monarchie in bicicletta” di stampo scandinavo, che «offrono gli esempi più avanzati di troni borghesi, privi di eccessi e peccati, materiale da noiosi comunicati stampa piuttosto che piccanti resoconti di incontri galanti e boccacceschi tradimenti con iugali (ah, la foto torrida dell’alluce di una Fergie seminuda succhiato dall’amante texano…)». Il libro non tralascia nulla e racconta, con il consueto mix di storia e pettegolezzo piccante, l’infanzia di Giorgio IV, di Vittoria, di Edoardo VII (disprezzato dai genitori e oggetto di misurazione dei frenologi), del figlio di questi Alberto Vittorio (sospettato di omosessualità pur in assenza di prove e addirittura di essere Jack lo Squartatore) e William, bambino terribile che sfogò nell’irascibilità i continui litigi dei suoi genitori Carlo e Diana. Fra le altre storie tragiche extra-britanniche segnate dall’abuso è clamorosa quella della regina Isabella II di Spagna (di metà Ottocento), passata alla storia come la “regina ninfomane” ma violentata dal suo istitutore quando era orfana e aveva tredici anni, e di Vittorio Emanuele III, un bambino con cui la madre (la regina Margherita) si vergognava di farsi vedere in giro perché era nano, risultato di un matrimonio tra primi cugini. Certo che i Savoia partivano già avvantaggiati visto che permettevano il dialogo tra padri e figli solo per iscritto. Per non parlare delle principesse tristi del Giappone (il simbolo del regno non a caso è un crisantemo) come Masako, la Diana del Sol Levante, di estrazione borghese e avversata dalla corte shintoista, preda di depressioni, nevrosi e disordini alimentari. Insomma, bando all’invidia: essere eredi al trono non assicura la felicità.