martedì 7 agosto 2018

Emmanuel Carrère - Limonov

Comincia con una citazione di Putin («Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore») questo oggetto narrativo non identificato di Emmanuel Carrère che mescola biografia, saggistica, fiction e non fiction in un unicum omogeneo e profondamente letterario (moltissime sono le citazioni della letteratura francese e russa) per raccontare la storia di Eduard Limonov, nome di battaglia di Eduard Savenko (una via di mezzo tra limon, “limone”, e limonka, “granata” nel senso di bomba a mano), artista e politico russo che definire controverso è fargli un complimento. La sua è una vita avventurosa e romanzesca, piena zeppa di esperienze diversissime tra loro: nato in una città sul Volga non lontana da Stalingrado alla fine dell’assedio nazista, adolescente violento in Ucraina nel grigiore del regime comunista, degente in un ospedale psichiatrico dopo aver tentato il suicidio, poeta avanguardista nella Mosca di Brežnev, leader dell’underground, frequentatore del jet set newyorkese di fine anni Settanta, barbone senza tetto, cameriere di un miliardario di Manhattan, scrittore e frequentatore della Parigi bene di inizio anni Ottanta, combattente filo-serbo nella guerra civile jugoslava, fondatore del partito nazionalbolscevico russo (con bandiere naziste con la falce e il martello al posto della svastica), carcerato per terrorismo e contestatore feroce della politica di Putin. Intellettuale maledetto, scrittore, cinico, ribelle, personaggio eccessivo, contraddittorio e assolutamente sopra le righe, a suo modo leale, «capace di scolarsi un litro di vodka all’ora, al ritmo di un grosso bicchiere da un quarto ogni quindici minuti», uno che durante gli anni degli punk «aveva eletto a suo eroe Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, e non si faceva scrupolo di definire Solženicyn un vecchio coglione», è capace di sostenere una rivoluzione sul modello di quella pacifica e democratica ucraina e di scrivere in un suo libro: «Sogno una insurrezione violenta... Non sarò mai un altro Nabokov, non andrò a caccia di farfalle per i prati, su gambe senilmente nude, pelose e anglofone». Ma Limonov è soprattutto un personaggio ben consapevole del suo carisma, come quando, deportato all’interno di un carcere, trova nei bagni degli elementi di design identici a quelli di un albergo di lusso progettato da Philip Stark e realizza di essere l’unico uomo al mondo in grado di fare questo tipo di comparazione. Per tutto il tempo ci si interroga se sia uno che ci è o ci fa, se ci crede sul serio o recita una parte, se sia un ribelle autentico, un egocentrico, un immaturo, un disadattato o un furbacchione pronto a usare il suo passato in maniera provocatoria e utilitaristica prendendo per il naso la società borghese (che disprezza) per trovarsi un pubblico. Oppure, forse, è proprio tutte queste cose insieme: frustrato nelle sue aspirazioni, convinto che le colpe delle sue disgrazie vadano imputate agli altri, costretto ogni volta a ripartire, arrabbiato con il sistema e imbevuto di lotta di classe, sogna fama, denaro e donne bellissime ed è pieno di disprezzo e invidia nei confronti degli altri dissidenti o esuli che minacciano il suo ego e il suo pubblico (uno per tutti, il poeta Brodskij). Per intendersi, lui è uno che, di fronte a un bambino malato di leucemia, apparentemente sembra colpito ma privatamente scrive: «E va bene, morirà di cancro, il piccolo, e chi se ne frega! Sì, è un bel bambino, sì, che pena, ma io ripeto: chi se ne frega! Anzi, meglio così. Che crepi, quel moccioso figlio di ricchi, sono contento. Perché dovrei fingere tenerezza e pietà mentre la mia stessa vita, seria e unica, è distrutta da tutti quei merdosi, senza nessuna eccezione? Muori, bambino condannato! Non ti aiuteranno né il cobalto né i dollari. Il cancro non rispetta il denaro. Offrigli pure miliardi, lui non farà marcia indietro. Ed è bene che sia così: almeno una cosa davanti alla quale tutti sono uguali». Grande spazio è dedicato alla vita sentimentale di Limonov, il suo legame di comodo con l’obesa bipolare Anna, il suo folle amore per Tanja che poi lo lascerà spingendolo a diventare gay senza esserlo (l’amore omosessuale gli avrebbe dato finalmente qualcosa, e lui si era stufato di dare), il secondo matrimonio con l’alcolizzata e ninfomane Nataša, la nuova fidanzata minorenne Nastja che si prende cura di lui mentre è in carcere e poi viene scaricata. Viene da chiedersi quanto nel libro ci sia del vero Limonov e quanto di Carrère, che non di rado si inserisce nella narrazione e si mette in dialogo con il suo oggetto di studio: Limonov ha accusato lo scrittore francese di aver saccheggiato molti episodi narrati nei suoi libri spacciandoli per veri, ma si è sempre compiaciuto di dire che il libro, con il suo successo clamoroso, gli ha dato la fama mondiale a lungo inseguita. Dal canto suo, Carrère ne è affascinato e in fondo lo invidia perché rappresenta tutto quello che lui, appartenente alla borghesia parigina, non ha saputo e non potrà mai essere, ma affronta tutti i suoi lati oscuri e i suoi eccessi, come l’odio verso Gorbačëv, reo di aver lasciato sgretolare l’impero sovietico facendo perdere ai russi la dignità, e allo stesso tempo il sostegno ai serbo-bosniaci di Karadzic e alle milizie del generale Arkan nella guerra civile jugoslava, prendendone parte attiva (in un documentario spara con la mitragliatrice su Sarajevo dalle colline intorno alla città) per partecipare finalmente a una guerra vera e usare la violenza senza sognare di farlo. Carrère è bravissimo nel catturare il lettore avvinghiandolo al suo personaggio senza per questo fargli sposare i suoi principi o approvarne le azioni (tanto che gli nega la simpatia che si tributa sempre al loser), ma anzi facendogli mettere in discussione tutto, anche le certezze che credeva di avere. Anche nel grande spazio dato alla Russia e alla sua storia recente c’è molto di Carrère, la cui madre era una delle maggiori studiose della lingua e della cultura russa in Francia: le vicende esistenziali di Limonov sono l’occasione per raccontare la storia di un Paese decadente, immobile e geriatrico prima dell’imminente fine, poi feudo di sciacalli e affaristi senza scrupoli e teatro dell’ascesa di Putin, tratteggiato da Carrère sotto una luce sinistra. Eppure, paradossalmente, nel loro rimpianto del regime sovietico e della grandezza (mitica) del passato, i due sono sovrapponibili: «La differenza tra Putin e Eduard è che Putin ce l’ha fatta. Putin è il capo. (…) Limonov, (…) se si trovasse al posto di Putin, certamente direbbe e farebbe tutto quello che Putin dice e fa. Ma Limonov non è al posto di Putin, e non gli resta che occupare quello, così incongruo per lui, di oppositore virtuoso, difensore di valori in cui non crede (democrazia, diritti umani e stronzate del genere) al fianco di persone oneste che incarnano tutto quello che lui ha sempre disprezzato. Non esattamente uno scacco matto, ma certo, in queste condizioni, non è semplice saper stare al proprio posto». Ancora una volta, Limonov sembra recitare una parte, più per calcolo che per un’effettiva convinzione, ma anche per sfuggire a un destino di uomo qualunque. Molte nel libro sono le scene estreme, come quella in cui Limonov sodomizza Tanja mentre va in onda un discorso di Solženicyn o quella in cui si fa possedere a sua volta da un ragazzo di colore a Central Park. Se si è disposti a passarci sopra, è davvero una grande lettura.

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