
Tutti parlano di Oscar Wilde, ma pochi l’hanno letto. Ancora meno sono quelli che hanno letto le sue commedie teatrali, spesso definite leggere e fatue ma contraddistinte, oltre che da un tono leggero e un ritmo perfetto, da una pungente satira che mette alla berlina il moralismo della società vittoriana (nella quale furono scritte) con il sarcasmo e senza mai cadere a loro volta nel moralismo. Se la struttura delle commedie riprende il teatro classico con l’equivoco e il chiarimento finale, Wilde aggiunge il suo stile unico e anticonformista con affermazioni eccentriche, nonsense e paradossi portati all’estremo che distruggono e rovesciano le frasi fatte del conformismo: affrontarle tutte e quattro non è solo un esercizio di stile o di intelletto, ma una grande gioia e un autentico divertimento. Il fatto che simili opere abbiano riscosso un grande successo di critica e di pubblico proprio presso quell’alta società alla quale l’autore rimproverava la totale assenza di valori è ancora più spassoso.
Si comincia con L’importanza di chiamarsi Ernesto, titolo che gioca sull’omofonia tra l’aggettivo “earnest” (che si applica a una persona onesta, credibile, coscienziosa e affidabile) e il nome Ernest: le fanciulle di cui si parla, infatti, sognano di sposare un uomo che si chiami Ernest perché il nome sembra loro una garanzia delle qualità che la società vittoriana mirava a perseguire. Ed ecco lo sberleffo di Wilde: quello che conta in una società che vive di apparenza e di ipocrisia non è la persona, ma il nome, che si può cambiare. In Italia si è provato a tradurre il nome replicando lo stesso effetto, ma invano: Fedele, Franco, Costante, Probo, Serio e Severo non si sono dimostrate alternative valide all’originale (a volte il titolo è stato tradotto L’importanza di fare sul serio). Cecily e Gwendolen vogliono sposare un nome, Ernest, e i loro corteggiatori, Jack e Algernon, devono assolutamente procurarselo, anche a costo di affrontare il cimento di un secondo battesimo, e a dispetto del fatto che conducano una doppia vita in città e in campagna, inventandosi rispettivamente un fratello inesistente e un amico malato (il mitico Bunbury). La straordinaria Lady Bracknell, invece, scarta Jack come pretendente della figlia nonostante la sua ricchezza e le sue proprietà semplicemente perché non ha un nome, e quindi non esiste (tanto più che è stato ritrovato in una valigia del deposito bagagli di Victoria Station). Fino al paradosso finale quando si scopre che il bugiardo, sia pure senza saperlo, aveva sempre detto la verità. C’è chi l’ha accusata di essere eccessivamente frivola, leggera e rassicurante, ma questa è la commedia perfetta, dove ogni battuta è un aforisma irresistibile e geniale, anche quando parla di tramezzini al cetriolo: «Soltanto i parenti e i creditori suonano con queste cadenze wagneriane»; «Cecily e Gwendolen diventeranno certamente grandissime amiche. Scommetto qualunque cosa che mezz’ora dopo essersi conosciute si chiameranno “sorellina mia”… / Questo le donne lo fanno solo dopo essersi chiamate in molti altri modi»; «Perdere un genitore, signor Worthing, può essere una sfortuna; ma perderli tutti e due è segno di trascuratezza»; «Tutte le donne diventano come le loro madri. Questa è la loro tragedia. Gli uomini non lo diventano mai. E anche questa è la loro tragedia»; «Trentacinque è un’età piacevolissima per una donna. La società di Londra è piena di donne che son rimaste a trentacinque»; «Esser nato, o comunque allevato, in una borsa, con maniglie o senza, mi sembra che denoti un disprezzo tale per le norme più elementari della vita di famiglia da ricordarmi le peggiori mostruosità della Rivoluzione Francese».
Il ventaglio di Lady Windermere è una deliziosa pièce basata sull’ipocrisia e sull’equivoco: Lord Windermere accetta di aiutare finanziariamente Mrs. Erlynne, avventuriera di dubbia fama, a patto che non riveli di essere la madre di sua moglie, Lady Windermere, che la crede morta (è infatti fuggita di casa lasciandola infante per seguire il suo amante). Ma Lady Windermere finisce per convincersi che il marito la tradisca e per vendicarsi sembra disposta a compromettersi irrimediabilmente con un suo corteggiatore, Lord Darlington: il suo ventaglio, dimenticato a casa del Lord, la accuserebbe di fronte a tutti se Mrs. Erlynne non decidesse di sacrificarsi per lei rinunciando alla sua ritrovata onorabilità. La cosa più interessante è il risvegliarsi del sentimento materno di Mrs. Erlynne, cui non importa molto di redimersi moralmente ma che vuole a ogni costo redimersi socialmente, mentre Lady Windermere, l’irreprensibile e virtuosa moglie vittoriana, è disposta a buttare tutto all’aria per fare un dispetto al marito che ritiene colpevole: questo la rende senza dubbio più umana e simpatica rispetto agli altri personaggi caratterizzati da ipocrisia, falsità, mancanza di sincerità e sentimenti simulati che servono a mascherare il loro egoismo e i loro vizi. Se al centro di tutto c’è un accessorio tipicamente femminile come il ventaglio, non mancano i brillanti aforismi e i paradossi per cui l’autore è celebre: «Posso resistere a tutto fuorché alla tentazione»; «Due soltanto sono le tragedie a questo mondo; la prima consiste nel non raggiungere quello che si vorrebbe, l’altra nell’ottenerlo»; «Le donne malvage sono seccanti, le donne buone sono noiose. È la sola differenza che ci sia tra loro».
Situazioni e toni da melodramma tornano in Una donna senza importanza, nella quale tutto ruota attorno ancora al tema del segreto nelle classi aristocratiche: per spiegare le ragioni per cui non intende lasciare che l’ambizioso figlio Gerald accetti la proposta di lavorare come segretario del facoltoso Lord Illingworth, Mrs. Arbuthnoth rivela che l’uomo è stato il suo amante a 17 anni scomparendo dopo averla messa incinta e rifiutando di assumersi le proprie responsabilità. Una donna senza valori è una donna senza importanza. Al malvagio padre snaturato Lord Illingworth Wilde fa pronunciare aforismi cinici e antiromantici: «Noi della Camera dei Pari non veniamo mai a contatto con l’opinione pubblica. Per questo formiamo un’assemblea civile»; «La sola differenza tra il santo e il peccatore è che ogni santo ha un passato e ogni peccatore un avvenire»; «Adoro i piaceri semplici. Sono l’ultimo rifugio della gente complicata»; «I figli all’inizio amano i genitori, ma poi li giudicano; raramente, forse mai, li perdonano». Il personaggio di Hesther Worlsey serve per mettere a confronto società inglese e americana, con quest’ultima caratterizzata dall’assenza di classi privilegiate e dal rispetto che deriva solo dal lavoro, con tutta una serie di battute incredibili da parte degli inglesi («La giovinezza dell’America è la sua più antica tradizione. Continua ormai da trecento anni»; «A scuola ci dicevano che taluni dei nostri stati sono grandi come la Francia e l’Inghilterra messe insieme / Ah, chissà quante correnti d’aria, allora!»; «Dicono, Lady Hunstanton, che quando i buoni Americani muoiono, vanno a Parigi. / Davvero? E quando muoiono i cattivi Americani, dove vanno? / Oh, in America»;), ma alla fine anche Mrs. Worlsey perde ogni connotazione positiva rivelandosi per quello che è, una bacchettona puritana per cui è giusto che le colpe dei padri ricadano sui figli.
Un marito ideale racconta la storia di un personaggio tutt’altro che esente da macchie, l’integerrimo Robert Chiltern, un arricchito che ha venduto un segreto di Stato e da lì ha cominciato la sua carriera politica, cominciando a credere veramente alla maschera di rispettabilità che si è cucito addosso da tanti anni di ascesa sociale. Quando viene ricattato da una cinica ricattatrice, Mrs. Cheveley, deve scegliere se evitare che il suo segreto venga dato in pasto alla stampa oppure conservare il rispetto della moglie (un’insopportabile moralista che l’ha idealizzato come marito perfetto) ma compromettere la sua carriera politica. Non è un caso che la ricattatrice Mrs. Cheveley sia immune da tutte le ipocrisie di cui sono rivestiti gli altri personaggi per bene della commedia, e che dica tranquillamente: «Ecco le conseguenze della mentalità puritana che domina l’Inghilterra. Nei tempi passati nessuno pretendeva d’esser migliore degli altri, nemmeno un po’. […] Oggi, con questa smania di moralità a tutti I costi, ciascuno di voi deve diventare un modello di purezza, di incorruttibilità e di tute le altre sette micidiali virtù...». Il lieto fine ristabilisce la morale convenzionale ma allo stesso tempo sancisce l’impunità dell’immoralità che può essere benissimo conciliata con i buoni sentimenti. Con un indubbio insegnamento morale: qualche volta mentire fa bene e le cose finiscono bene per chi sa far tacere al momento opportuno la propria coscienza. E in questo si vede la brillante satira di Wilde: il moralismo vittoriano viene omaggiato, anziché contestato, con tutta una serie di battute incredibili («Non c’è niente di più pericoloso che esser troppo moderni. Si corre il rischio di passare di moda da un giorno all’altro»). A fare da anello di congiunzione tra i personaggi è Lord Goring, scapolo impenitente e alter ego dell’autore, o almeno quello che esprime le sue personali concezioni della vita: «Io dico sempre quello che non dovrei. Di solito, infatti, dico sempre quello che penso. Un grande errore al giorno d’oggi»; «È l’amore, non la filosofia tedesca, a dare la vera spiegazione di questo mondo, quale che sia la spiegazione scelta per l’altro mondo, quello al di sopra di noi»; «La gioventù non è un’affermazione: è un'arte»; «La Moda è quel che uno porta; quello che portano gli altri è già passato di moda. Allo stesso modo la volgarità è il modo di comportarsi degli altri. E le bugie sono le verità degli altri. Gli altri sono semplicemente insopportabili. L'unica compagnia possibile è quella che ci facciamo da soli. L’amore di sé è l'inizio d'un romanzo che dura una vita».