domenica 31 marzo 2019

Howard Phillips Lovecraft - Le montagne della follia

Riaccostarsi ai classici è sempre istruttivo, perché ogni volta si scopre qualche cosa di nuovo. D’altronde, sono classici. Anche Lovecraft è un classico, lo si voglia o no, soprattutto il suo intramontabile Le montagne della follia, di cui ho già parlato qui moltissimi anni fa QUI e che continua a stagliarsi sulla sua produzione per molti elementi: i riferimenti al terribile Necronomicon, al Gordon Pym di Edgar Allan Poe e ai dipinti di Nicholas Roerich (entrambi citati esplicitamente più volte), la scoperta dei Grandi Antichi (o sarebbe meglio dire solo Antichi, in questo caso) e il disseppellimento di segreti che rivelano un passato alternativo ed extraumano al di là di ogni nostra comprensione, ma soprattutto l’ambientazione antartica, un enorme deserto che genera un’atmosfera di orrore strisciante ancora prima che ci vengano presentati i suoi immondi abitanti e le sue città impossibili, caratterizzate da architetture dettate dall’incubo e dall’impossibilità di ricondurre a un linguaggio razionale. Ed è incredibile come tutto questo abbia influito sull’immaginario e abbia generato altri capolavori come i film La cosa (l’ambientazione al Polo Sud, il nemico invisibile) e Alien (la scoperta dei campioni di una razza sconosciuta), prova di quanto il Solitario di Providence sia stato importante per esprimere incubi e disagi di noi contemporanei. La cosa più interessante è però che il racconto si configura prima di tutto come il resoconto di una spedizione scientifica, quindi Lovecraft utilizza un linguaggio rigoroso ed enciclopedico, con precisione topografica e perizia geologica e zoologica, ma proprio da questo, con contrasto stridente, si genera il fantastico e l’irrazionale; anche le misurazioni servono per aumentare il contrasto tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, con il conseguente disagio provato dall’uomo di fronte all’orrore cosmico e alla presa di coscienza di non contare nulla di fronte a forze mostruose che non può in alcun modo controllare.

domenica 17 marzo 2019

Bill Walsh, Floyd Gottfredson - Topolino e la scarpa magica

In occasione della festa di San Patrizio ho rispolverato il classico Topolino e la scarpa magica, del 1953 di Bill Walsh (testi) e Floyd Gottfredson (disegni) che vede il topo più famoso del mondo in trasferta in Irlanda per curare il singhiozzo e alle prese con il “piccolo popolo” della tradizione folklorica. Uno scenario inedito e senza dubbio interessante, ma soprattutto molto divertente. Al suo arrivo, Topolino si imbatte nientemeno che nel sosia del cocchiere paraninfo Michelino Flint interpretato da Barry Fitzgerald nel film di John Ford Un uomo tranquillo, uscito un anno prima e sempre ambientato in Irlanda (con John Wayne come protagonista). Poi, l’atmosfera rassicurante cede il passo a una storia soprannaturale, dal momento in cui il macchinista del trenino sul quale Topolino viaggia viene trasformato in un’oca; il nostro si imbatte nel re dei folletti (i famosi leprechauns) Verdeverde, un autentico briccone che possiede una scarpa magica con cui può trasformare a suo piacimento o capriccio cose e persone. Per esempio, ha tramutato il suo primo ministro in un re, trasforma gli abitanti di un villaggio in uccelli, i bambini in diamanti e le belle ragazze in cespugli di rose, perché «così devono essere le donne: belle, ma silenziose!», ha condannato l’ex re Verdino a mettere i vermi nelle mele ed è capace di lamentarsi dello splendore delle pietre preziose del suo palazzo perché gli stanca la vista («Questa è una delle noie di essere re!»). Ovviamente i nomi sono opera della traduzione italiana, che ha deciso di insistere sul colore verde (come si vede anche nei nomi dei paesi: Verdemare, Pratoverde, Verdone, Verdello) per via del fatto che il verde è il colore nazionale dell’Irlanda. La prodigiosa scarpa magica passerà fortuitamente in mano a Topolino, il quale contribuirà a riportare ordine nel mondo dei folletti ma non nel modo tradizionale dell’eroe intrepido dal cervello analitico: infatti, nelle storie degli anni Cinquanta, Topolino è piuttosto un antieroe travolto da eventi dei quali sembra solo parzialmente in grado di cambiarne il corso, nonostante la sua scaltrezza. È interessante notare come, nella storia, i folletti producano ed esportano in tutto il mondo i rumori che si sentono al buio di notte mentre si sta per prendere il sonno, e abbiano un ministero delle scomodità domestiche preposto all’organizzazione di caminetti che fumano, rubinetti che sgocciolano e finestre con i vetri che tintinnano. C’è pure la gara di danza irlandese, l’immancabile zuffa generale e l’apparizione del cavallo volante e parlante Pooka (qui chiamato Puka).

martedì 12 marzo 2019

Philip Roth - La macchia umana

Più leggo Philip Roth e più lo amo. La Macchia umana è il suo terzo romanzo che affronto (dopo Pastorale americana Il lamento di Portnoy) ed è il terzo capolavoro, una di quelle opere che ti catturano e non ti mollano più, lasciandoti alla fine un senso di angoscia e allo stesso tempo di arricchimento. Racconta la storia di Coleman Silk, professore universitario di Athena brillante e autorevole, che cade in disgrazia in seguito a un malinteso durante una lezione: infatti etichetta due studenti assenteisti con il termine “spooks”, che in inglese significa “spettri” ma che in slang viene usata per “negri”. L’accusa di razzismo gli porta dei disagi enormi fino alla rovina completa della propria carriera e alla perdita della moglie, che muore di infarto per lo stress. Potrebbe scagionarsi immediatamente ma non lo fa perché su di lui pesa un grandissimo segreto sulla sua identità, la macchia cui fa riferimento il titolo: Coleman, che si dichiara ebreo, ha sempre nascosto la sua origine di colore, ha capito di poter affrancarsi e realizzarsi solo ripudiando le proprie radici e rinnegando la propria famiglia (addirittura ha rifiutato la madre), ed è divenuto un bianco convenzionale in una società convenzionale e razzista. Tutto questo rende l’accusa di razzismo ancor più paradossale, ma Coleman non lo può rivelare per non rendere l’accusa ancor più pesante perché rivelerebbe di aver ingannato la società. Proprio a questo segreto è legato il conflitto del personaggio, contro cui si scatena una vera e propria caccia alle streghe: Coleman è scomodo all’interno della comunità accademica in quanto ha introdotto criteri meritocratici e ha azzerato i sistemi di potere all’interno dell’università. Nessuno sembra comprendere Coleman, le sue ragioni e la natura del problema, nemmeno i suoi figli, segno che anche la cultura e una buona educazione conta fino a un certo punto. Dopo due anni di rabbia ed emarginazione, il settantunenne Coleman sembra trovare una sorta di serenità con una donna analfabeta di 34 anni molto più giovane di lui, Faunia, dal nome fortemente simbolico (Coleman è professore di letterature classiche) e dal doloroso passato (è stata molestata dal patrigno, ha perso due figli ed è stata sposata con un reduce dal Vietnam violento e alcolizzato), simbolo della forza incontrollabile del desiderio. Le critiche però non lo abbandonano, perché tutti (rappresentati dall’insopportabile e invidiosa professoressa di letteratura francese Delphine Roux) pensano di conoscere Coleman e di sapere perché si comporta così, etichettandolo istericamente come un ex professore razzista e impazzito: solo Faunia, che nella vita fa la donna delle pulizie, è messa a parte del segreto infamante. Ambientando temporalmente la vicenda nell’estate del 1998 durante il Sexgate che coinvolse Bill Clinton (quello con Monica Lewinsky) e circoscrivendola spazialmente al New England («che, storicamente, più s’identifica con la resistenza dell’individualista americano alle coercizioni di un’ipercritica comunità»), Roth sferra un feroce attacco all’ipocrisia perbenista che regge la società statunitense e ci regala un romanzo profondissimo e intimista, ma allo stesso tempo caustico e politicamente scorretto, dominato da un generale tono di sfiducia e ineluttabilità («Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui»). I temi da lui affrontati sono quelli dell’identità come creazione culturale, lo sforzo di sfuggire alle etichette sociali e di costruirsi un piedistallo, l’incertezza della condizione umana sempre in balia di eventi che non può dominare e pendente alla bestialità (moltissimi sono i riferimenti al mondo animale), intesa sia come carnalità sia come passionalità. Quello che emerge è la prospettiva multifocale dei personaggi: la storia non è raccontata da Coleman ma da Nathan Zuckerman, uno degli alter ego di Philip Roth e già comparso in Pastorale americana, a cui lo stesso Coleman si rivolge per chiedergli di narrare la sua storia. È un particolare di non poco conto perché Zuckerman non è neutrale ma offre il suo punto di vista sulla vicenda imponendolo al lettore e, siccome è sessualmente impotente e incontinente (ha subito l’asportazione della prostata) riversa su di lui la sua potenza in una sorta di esuberanza linguistica e la sua incontinenza verbale, divenendo a sua volta un doppio speculare di Coleman, personalità molto forte e catalizzante. Tutto questo fa sì che letteratura sia un mezzo di riscatto e lo strumento principe per raccogliere l’oscurità dell’animo umano, come prova il toccante finale di Zuckerman che si ferma a osservare l’ex marito di Faunia, altro testimone di altre tragedie, intento a pescare sullo sfondo di un lago montano.

domenica 10 marzo 2019

Robert E. Howard, Jean-David Morvan, Pierre Alary - La regina della Costa Nera

L’Era hyboriana rivive nella serie di fumetti francese dedicata alla figura dell’immortale creazione di Robert Howard, Conan di Cimmeria o Conan il Barbaro, e a uno dei suoi racconti più celebri, La regina della Costa Nera. Ogni racconto dei dodici previsti è leggibile e godibile indipendentemente, senza bisogno di essere integrato in una storia più vasta, perché, come spiega in appendice Patrice Louinet (co-direttore della Fondazione Robert E. Howard e curatore del progetto), l’immagine di Conan che sale uno dopo l’altro gli scalini che lo conducono al potere fino a diventare re è stata creata da altri, non da Howard. Se il cimmero in certe storie è diventato monarca di uno dei regni hyboriani, è perché ha colto l’occasione che gli si è presentata, non in seguito a un intenzionale progetto di fare carriera come parvenu del suo mondo («Mi chiamo Conan. Sono un cimmero. E ho lavorato per così tanta gente che non ricordo tutti i loro nomi. C’è anche chi dice che sono stato un re. Ma se è vero, devo essermelo dimenticato. Probabilmente ero troppo ubriaco»). Conan vive nel momento e per il momento presente, senza alcun passato e alcuna ambizione, tanto che lui stesso dichiara: «Non mi interessa sapere cosa c’è dopo la morte. […] Non lo so e non m’importa. Mi basta vivere la vita intensamente. Gustare il sapore delle carni rosse e l’ebbrezza del vino frizzante sul mio palato… Finché posso godere del tocco ardente delle braccia di alabastro, esultare nella follia della battaglia quando le lame azzurre si infiammano e si tingono di rosso, io sono appagato! Lascio ai sapienti, ai sacerdoti e ai filosofi il compito di meditare sui dilemmi della realtà e dell’illusione. Io so solo una cosa… se la vita è una chimera, allora lo sono anch’io. Quindi, l’illusione per me è reale. Io vivo, ardo di vita, amo e uccido, e questo mi basta». Inoltre, ogni racconto prevede uno sceneggiatore e un disegnatore diverso (in questo caso si tratta di Jean-David Morvan per i testi e Pierre Alary per i disegni), in modo da offrire visioni piuttosto diverse e personali del celeberrimo eroe, molto distante da quelli immortalati da Frank Frazetta o da John Buscema che hanno forgiato il nostro immaginario collettivo. Dal ritmo incalzante e scorrevole, La regina della Costa Nera narra l’approdo di Conan a bordo del mercantile Argus e l’incontro con Bêlit, la comandante della nave Tigre, i cui feroci corsari neri hanno fatto di lei l’indiscussa Regina della Costa Nera. Il cimmero conquista sia la donna sia la partecipazione ai suoi cruenti commerci, razziando la costa con lei finché la sorte non li conduce, lungo il fiume nero, nella città perduta di un’antica razza alata. Nello stile tipico dell’autore, il racconto combina avventura, esotismo e orrore soprannaturale, e proprio a questo riguardo emergono le peculiarità dell’eroe howardiano: mentre Lovecraft si sofferma sempre morbosamente sull’orlo dell’abisso e segue l’inevitabile distruzione dell’individuo e della realtà che noi conosciamo, Howard fa di Conan il baluardo estremo contro l’annientamento, facendogli sistematicamente abbattere i nemici che gli si parano davanti e lasciandolo unico superstite di quanto avvenuto. È interessante anche notare che la creatura alata che infesta la città è incatenata alle rovine di pietra della sua città proprio a causa dei popoli civilizzati, cosa che si inserisce nello scontro fra cultura e natura che permea l’opera di Howard: Conan è sotto tutti i punti di vista un selvaggio e vive come tale, ma allo stesso tempo aspira a integrarsi nel mondo della cultura, che è corrotta, decadente e traditrice, e quindi ne subisce il fascino. La cultura attrae e respinge il cimmero (disagio che riflette quello che lo stesso Howard provava nei confronti di un mondo di cui si sentiva prigioniero), e ogni storia rappresenta un esito di questo rapporto mai risolto tra l’essere integrato e respinto. In questo racconto, Conan è di fatto un ribelle, come lui stesso spiega all’inizio: «Un giudice mi ha chiesto dove si nascondeva il mercenario. Gli ho risposto che era un amico e che non l’avrei mai tradito. Invece di trovare ammirevole la mia risposta, il giudice si è infuriato e ha iniziato un gran discorso sul fatto che avevo dei doveri verso lo stato, la società e altre cose di cui non ho capito niente. Più parlava e più urlava… Avevo spiegato chiaramente a quell’idiota la mia posizione, ma lui faceva finta di non capire. Allora mi sono infuriato anch’io… ho sfoderato la spada e ho mozzato la testa di quel giudice». L’adattamento insiste molto dal punto di vista grafico sull’intenso rapporto carnale che si instaura tra Conan e Bêlit («Prendimi! Conquistami con la forza della tua passione!»), che da parte sua è una donna forte e battagliera e fa addirittura ritorno dall’oltretomba per salvargli la vita, come gli aveva promesso, «e così facendo sembra mostrare che esiste qualcosa che va oltre l’ineluttabile pessimismo del cimmero» (Louinet). Se il buongiorno si vede dal mattino, questa collana lascia veramente ben sperare, a patto che non si pensi di trovarvi il Conan di Frazetta o di Buscema.

mercoledì 6 marzo 2019

Carlton Mellick III - La vagina infestata

Carlton Mellick III non si smentisce mai e questa volta immagina una storia incentrata sulla scoperta da parte del suo protagonista che la vagina della sua ragazza è il portale per un altro mondo (idea che in qualche modo si connette a quella del personaggio che in Apeshit – Pazzi furiosi aveva la vagina dentata). È quel che succede a Steve, innamorato perso di Stacy, dalla cui vagina provengono sussurri e voci inquietanti e poi esce addirittura un morto vivente: da qui il titolo La vagina infestata per questo romanzo sempre pubblicato da Vaporteppa. Addirittura, si scopre che da bambina le usciva quella che Stacy pensava essere un’amica immaginaria. Per amore Steve accetta di intraprendere una spedizione nella vagina di lei, ed è grazie alla sua narrazione in prima persona che ci vengono regalate le sue sensazioni di disagio e le sue dichiarazioni d’amore nei confronti dell’amata. Oltre a regalarci uno dei più efficaci incipit che la storia ricordi («Ho avuto paura di fare sesso con Stacy da quando ho scoperto che la sua vagina era infestata»), Mellick si lascia andare a considerazioni sull’origine e sull’evoluzione del mondo microscopico che si trova davanti esplorando l’utero di Stacy con piglio da vero speleologo: addirittura, la seconda volta che entra dentro, Steve si munisce di videocamera e walkie-talkie per affrontare al meglio un microcosmo molto dettagliato e fatto di boschi, scheletri, creature simili ai personaggi degli anime giapponesi e villaggi in ferro battuto. Qui Steve vivrà una storia straniante, da vero straniero in terra straniera, in cui sperimenterà l’abbandono ma incontrerà anche l’amica immaginaria di Stacy, Fig. Molte le scene di sesso, dalle più canoniche alle più strane. Per tutti quelli che si scandalizzano, è bene ricordare che lo stesso Mellick ha dichiarato (come ricorda Chiara Gamberetta nell’Introduzione alla bizzarro fiction) che chi vede nelle sue opere una qualche profonda metafora freudiana è un totale coglione. Bisogna quindi prendere il romanzo per quello che è, come pura fiction, caratterizzata da elementi bizzarri. Questo non vuol dire che non faccia pensare: a ben guardare, è possibile che Mellick voglia dirci che ogni donna è il portale per un’altra dimensione, oppure che gli uomini hanno paura delle donne, o che le donne non riescono ad accettare la propria natura sessuale. O forse ci vuole dire qualcosa sull’amore. O forse sono un totale coglione anch’io.

domenica 3 marzo 2019

Carlton Mellick III - Ho messo incinta la figlia di Satana!

Cosa succede a un tizio senza lavoro e senza prospettive nella vita che viene costretto a sposare una succube dopo averla accidentalmente messa incinta? È quello che si chiede Carlton Mellick III con questo Ho messo incinta la figlia di Satana!, escursione della bizzarro fiction nel territorio della commedia romantica («Sì, proprio così, ho scritto una cazzo di commedia romantica») alla Ben Stiller sempre pubblicata da Vaporteppa. Che Mellick sia un pazzo non lo scopriamo certo adesso: io l’ho conosciuto con Apeshit – Pazzi furiosi, quindi sapevo cosa aspettarmi, anche se in questo caso la storia è molto più classica e lineare, per quanto piena di particolari bizzarri e spiazzanti. Il protagonista è Jonathan, un ventiquattrenne incapace e immaturo che è bravo a fare una sola cosa: le costruzioni coi Lego. Vive addirittura in una casa costruita con i mattoncini Lego, ha una fidanzata di Lego e il suo sogno è lavorare a Legoland. Il problema è che un lavoro non ce l’ha e i genitori, veri iniziatori della sua passione per le costruzioni, lo considerano lo scemo di famiglia. Il suo unico amico è Shoji, un lottatore di sumo giapponese obeso e perennemente ubriaco. Tutto cambia quando alla sua porta si presenta Lari, una diabolica succube proveniente dall’inferno con la pelle rossa, le corna, la lingua da rettile e le corna: è maldestra e priva di futuro quasi quanto lui, visto che invece di rubargli l’anima facendo sesso con lui si è semplicemente fatta mettere incinta. Lui non si ricorda niente per via di un incantesimo, e l’unica prova di quanto lei gli rivela è il suo pene che, da un giorno all’altro, è diventato completamente nero. Lari è porta dunque in grembo suo figlio e vuole che lui la sposi, ma Jonathan ha più di qualche riserva: un viaggio all’inferno gli conferma la veridicità di quanto la succube gli dice, visto che suo padre è Lord Mazzur, signore delle regioni sud-occidentali dell’inferno, suo fratello è il generale dell’esercito infernale e sua sorella è la regina delle succubi. Costretto a maturare e ad assumersi le proprie responsabilità soprattutto per salvare la pelle ed evitare un’eternità di torture presso i parenti della ragazza, Jonathan accetta, ma non è così semplice perché i suoi genitori sono dei cristiani fondamentalisti (il cognato è addirittura pastore evangelico) che intendono uccidere la povera Lari e rispedirla all’inferno. A parte alcuni episodi classicamente gore (le stragi nel locale, a Disneyland e lungo l’autostrada, con Jonathan a bordo di una moto di Lego) la storia presenta le dinamiche della classica storia d’amore, con innamoramenti, ritrosie e gelosie, e risvolti addirittura dolci, come nel caso del rapporto d’amore e di reciproco sostegno che si instaura tra Jonathan e Lari, fino al toccante discorso di lui che esprime il suo amore per lei. In fondo, l’adorabile Lari (come non simpatizzare per una che sgranocchia rane per merenda e dà fuoco alla suocera?) è l’unica ad apprezzare veramente le costruzioni coi Lego di Jonathan, lo assiste facendole animare in chiave lavorativa e gli fa scoprire che il diavolo in carrozzina che ha creato è la copia di suo zio Xexus (anche se l’originale è meno simpatico). C’è poi il tema della rivalità tra famiglie che devono imparare ad accettare un matrimonio insolito passando attraverso lo scontro armato, in un tripudio di follia kitsch che vede lo scontro finale nella Chiesa di Gesù e Cristo tra demoni e cyborg rivestiti da armature costituite da piatti da collezione delle Forniture Cristiane raffiguranti Gesù e con bazooka che sparano Gesù di porcellana. Molto carina la rivelazione che nell’aldilà il paradiso è equivalente a un paese del primo mondo e l’inferno a un paese del terzo, mentre il Valhalla prendeva le anime umane per usarle negli incontri tra gladiatori.