Riaccostarsi ai classici è sempre istruttivo, perché ogni volta si scopre qualche cosa di nuovo. D’altronde, sono classici. Anche Lovecraft è un classico, lo si voglia o no, soprattutto il suo intramontabile Le montagne della follia, di cui ho già parlato qui moltissimi anni fa QUI e che continua a stagliarsi sulla sua produzione per molti elementi: i riferimenti al terribile Necronomicon, al Gordon Pym di Edgar Allan Poe e ai dipinti di Nicholas Roerich (entrambi citati esplicitamente più volte), la scoperta dei Grandi Antichi (o sarebbe meglio dire solo Antichi, in questo caso) e il disseppellimento di segreti che rivelano un passato alternativo ed extraumano al di là di ogni nostra comprensione, ma soprattutto l’ambientazione antartica, un enorme deserto che genera un’atmosfera di orrore strisciante ancora prima che ci vengano presentati i suoi immondi abitanti e le sue città impossibili, caratterizzate da architetture dettate dall’incubo e dall’impossibilità di ricondurre a un linguaggio razionale. Ed è incredibile come tutto questo abbia influito sull’immaginario e abbia generato altri capolavori come i film La cosa (l’ambientazione al Polo Sud, il nemico invisibile) e Alien (la scoperta dei campioni di una razza sconosciuta), prova di quanto il Solitario di Providence sia stato importante per esprimere incubi e disagi di noi contemporanei. La cosa più interessante è però che il racconto si configura prima di tutto come il resoconto di una spedizione scientifica, quindi Lovecraft utilizza un linguaggio rigoroso ed enciclopedico, con precisione topografica e perizia geologica e zoologica, ma proprio da questo, con contrasto stridente, si genera il fantastico e l’irrazionale; anche le misurazioni servono per aumentare il contrasto tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, con il conseguente disagio provato dall’uomo di fronte all’orrore cosmico e alla presa di coscienza di non contare nulla di fronte a forze mostruose che non può in alcun modo controllare.
domenica 31 marzo 2019
domenica 17 marzo 2019
Bill Walsh, Floyd Gottfredson - Topolino e la scarpa magica
In occasione
della festa di San Patrizio ho rispolverato il classico Topolino e la scarpa magica, del 1953 di Bill Walsh (testi) e Floyd
Gottfredson (disegni) che vede il topo più famoso del mondo in trasferta in
Irlanda per curare il singhiozzo e alle prese con il “piccolo popolo” della
tradizione folklorica. Uno scenario inedito e senza dubbio interessante, ma
soprattutto molto divertente. Al suo arrivo, Topolino si imbatte nientemeno che
nel sosia del cocchiere paraninfo Michelino Flint interpretato da Barry
Fitzgerald nel film di John Ford Un uomo
tranquillo, uscito un anno prima e sempre ambientato in Irlanda (con John Wayne come protagonista). Poi, l’atmosfera
rassicurante cede il passo a una storia soprannaturale, dal momento in cui il
macchinista del trenino sul quale Topolino viaggia viene trasformato in un’oca;
il nostro si imbatte nel re dei folletti (i famosi leprechauns) Verdeverde, un autentico briccone che possiede una
scarpa magica con cui può trasformare a suo piacimento o capriccio cose e
persone. Per esempio, ha tramutato il suo primo ministro in un re, trasforma gli
abitanti di un villaggio in uccelli, i bambini in diamanti e le belle ragazze
in cespugli di rose, perché «così devono essere le donne: belle, ma
silenziose!», ha condannato l’ex re Verdino a mettere i vermi nelle mele ed è
capace di lamentarsi dello splendore delle pietre preziose del suo palazzo
perché gli stanca la vista («Questa è una delle noie di essere re!»).
Ovviamente i nomi sono opera della traduzione italiana, che ha deciso di
insistere sul colore verde (come si vede anche nei nomi dei paesi: Verdemare,
Pratoverde, Verdone, Verdello) per via del fatto che il verde è il colore
nazionale dell’Irlanda. La prodigiosa scarpa magica passerà fortuitamente in
mano a Topolino, il quale contribuirà a riportare ordine nel mondo dei folletti
ma non nel modo tradizionale dell’eroe intrepido dal cervello analitico: infatti,
nelle storie degli anni Cinquanta, Topolino è piuttosto un antieroe travolto da
eventi dei quali sembra solo parzialmente in grado di cambiarne il corso,
nonostante la sua scaltrezza. È interessante notare come, nella storia, i
folletti producano ed esportano in tutto il mondo i rumori che si sentono al
buio di notte mentre si sta per prendere il sonno, e abbiano un ministero delle
scomodità domestiche preposto all’organizzazione di caminetti che fumano,
rubinetti che sgocciolano e finestre con i vetri che tintinnano. C’è pure la
gara di danza irlandese, l’immancabile zuffa generale e l’apparizione del
cavallo volante e parlante Pooka (qui chiamato Puka).
martedì 12 marzo 2019
Philip Roth - La macchia umana
Più leggo Philip Roth e più lo amo. La Macchia umana è il suo terzo romanzo che affronto (dopo Pastorale americana e Il lamento di Portnoy) ed è il terzo capolavoro, una di quelle opere che ti catturano e non ti mollano più, lasciandoti alla fine un senso di angoscia e allo stesso tempo di arricchimento. Racconta la storia di Coleman Silk, professore universitario di Athena brillante e autorevole, che cade in disgrazia in seguito a un malinteso durante una lezione: infatti etichetta due studenti assenteisti con il termine “spooks”, che in inglese significa “spettri” ma che in slang viene usata per “negri”. L’accusa di razzismo gli porta dei disagi enormi fino alla rovina completa della propria carriera e alla perdita della moglie, che muore di infarto per lo stress. Potrebbe scagionarsi immediatamente ma non lo fa perché su di lui pesa un grandissimo segreto sulla sua identità, la macchia cui fa riferimento il titolo: Coleman, che si dichiara ebreo, ha sempre nascosto la sua origine di colore, ha capito di poter affrancarsi e realizzarsi solo ripudiando le proprie radici e rinnegando la propria famiglia (addirittura ha rifiutato la madre), ed è divenuto un bianco convenzionale in una società convenzionale e razzista. Tutto questo rende l’accusa di razzismo ancor più paradossale, ma Coleman non lo può rivelare per non rendere l’accusa ancor più pesante perché rivelerebbe di aver ingannato la società. Proprio a questo segreto è legato il conflitto del personaggio, contro cui si scatena una vera e propria caccia alle streghe: Coleman è scomodo all’interno della comunità accademica in quanto ha introdotto criteri meritocratici e ha azzerato i sistemi di potere all’interno dell’università. Nessuno sembra comprendere Coleman, le sue ragioni e la natura del problema, nemmeno i suoi figli, segno che anche la cultura e una buona educazione conta fino a un certo punto. Dopo due anni di rabbia ed emarginazione, il settantunenne Coleman sembra trovare una sorta di serenità con una donna analfabeta di 34 anni molto più giovane di lui, Faunia, dal nome fortemente simbolico (Coleman è professore di letterature classiche) e dal doloroso passato (è stata molestata dal patrigno, ha perso due figli ed è stata sposata con un reduce dal Vietnam violento e alcolizzato), simbolo della forza incontrollabile del desiderio. Le critiche però non lo abbandonano, perché tutti (rappresentati dall’insopportabile e invidiosa professoressa di letteratura francese Delphine Roux) pensano di conoscere Coleman e di sapere perché si comporta così, etichettandolo istericamente come un ex professore razzista e impazzito: solo Faunia, che nella vita fa la donna delle pulizie, è messa a parte del segreto infamante. Ambientando temporalmente la vicenda nell’estate del 1998 durante il Sexgate che coinvolse Bill Clinton (quello con Monica Lewinsky) e circoscrivendola spazialmente al New England («che, storicamente, più s’identifica con la resistenza dell’individualista americano alle coercizioni di un’ipercritica comunità»), Roth sferra un feroce attacco all’ipocrisia perbenista che regge la società statunitense e ci regala un romanzo profondissimo e intimista, ma allo stesso tempo caustico e politicamente scorretto, dominato da un generale tono di sfiducia e ineluttabilità («Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui»). I temi da lui affrontati sono quelli dell’identità come creazione culturale, lo sforzo di sfuggire alle etichette sociali e di costruirsi un piedistallo, l’incertezza della condizione umana sempre in balia di eventi che non può dominare e pendente alla bestialità (moltissimi sono i riferimenti al mondo animale), intesa sia come carnalità sia come passionalità. Quello che emerge è la prospettiva multifocale dei personaggi: la storia non è raccontata da Coleman ma da Nathan Zuckerman, uno degli alter ego di Philip Roth e già comparso in Pastorale americana, a cui lo stesso Coleman si rivolge per chiedergli di narrare la sua storia. È un particolare di non poco conto perché Zuckerman non è neutrale ma offre il suo punto di vista sulla vicenda imponendolo al lettore e, siccome è sessualmente impotente e incontinente (ha subito l’asportazione della prostata) riversa su di lui la sua potenza in una sorta di esuberanza linguistica e la sua incontinenza verbale, divenendo a sua volta un doppio speculare di Coleman, personalità molto forte e catalizzante. Tutto questo fa sì che letteratura sia un mezzo di riscatto e lo strumento principe per raccogliere l’oscurità dell’animo umano, come prova il toccante finale di Zuckerman che si ferma a osservare l’ex marito di Faunia, altro testimone di altre tragedie, intento a pescare sullo sfondo di un lago montano.
domenica 10 marzo 2019
Robert E. Howard, Jean-David Morvan, Pierre Alary - La regina della Costa Nera
L’Era hyboriana
rivive nella serie di fumetti francese dedicata alla figura dell’immortale
creazione di Robert Howard, Conan di Cimmeria o Conan il Barbaro, e a uno dei
suoi racconti più celebri, La regina
della Costa Nera. Ogni racconto dei dodici previsti è leggibile e godibile
indipendentemente, senza bisogno di essere integrato in una storia più vasta,
perché, come spiega in appendice Patrice Louinet (co-direttore della Fondazione
Robert E. Howard e curatore del progetto), l’immagine di Conan che sale uno
dopo l’altro gli scalini che lo conducono al potere fino a diventare re è stata
creata da altri, non da Howard. Se il cimmero in certe storie è diventato
monarca di uno dei regni hyboriani, è perché ha colto l’occasione che gli si è
presentata, non in seguito a un intenzionale progetto di fare carriera come parvenu del suo mondo («Mi
chiamo Conan. Sono un cimmero. E ho lavorato per così tanta gente che non
ricordo tutti i loro nomi. C’è anche chi dice che sono stato un re. Ma se è
vero, devo essermelo dimenticato. Probabilmente ero troppo ubriaco»). Conan vive nel momento e per il momento presente, senza alcun
passato e alcuna ambizione, tanto che lui stesso dichiara: «Non
mi interessa sapere cosa c’è dopo la morte. […] Non lo so e non m’importa. Mi basta
vivere la vita intensamente. Gustare il sapore delle carni rosse e l’ebbrezza
del vino frizzante sul mio palato… Finché posso godere del tocco ardente delle
braccia di alabastro, esultare nella follia della battaglia quando le lame
azzurre si infiammano e si tingono di rosso, io sono appagato! Lascio ai
sapienti, ai sacerdoti e ai filosofi il compito di meditare sui dilemmi della
realtà e dell’illusione. Io so solo una cosa… se la vita è una chimera, allora
lo sono anch’io. Quindi, l’illusione per me è reale. Io vivo, ardo di vita, amo
e uccido, e questo mi basta». Inoltre, ogni racconto prevede uno sceneggiatore
e un disegnatore diverso (in questo caso si tratta di Jean-David Morvan per i testi e Pierre Alary per i disegni), in modo da offrire visioni piuttosto diverse e
personali del celeberrimo eroe, molto distante da quelli immortalati da Frank
Frazetta o da John Buscema che hanno forgiato il nostro immaginario collettivo.
Dal ritmo incalzante e scorrevole, La
regina della Costa Nera narra l’approdo di Conan a bordo del mercantile
Argus e l’incontro con Bêlit, la comandante della nave Tigre, i cui feroci corsari
neri hanno fatto di lei l’indiscussa Regina della Costa Nera. Il cimmero
conquista sia la donna sia la partecipazione ai suoi cruenti commerci,
razziando la costa con lei finché la sorte non li conduce, lungo il fiume
nero, nella città perduta di un’antica razza alata. Nello stile tipico dell’autore,
il racconto combina
avventura, esotismo e orrore soprannaturale, e proprio a questo riguardo emergono
le peculiarità dell’eroe howardiano: mentre Lovecraft si sofferma sempre
morbosamente sull’orlo dell’abisso e segue l’inevitabile distruzione dell’individuo
e della realtà che noi conosciamo, Howard fa di Conan il baluardo estremo
contro l’annientamento, facendogli sistematicamente abbattere i nemici che gli
si parano davanti e lasciandolo unico superstite di quanto avvenuto. È interessante anche
notare che la creatura alata che infesta la città è incatenata alle rovine di
pietra della sua città proprio a causa dei popoli civilizzati, cosa che si
inserisce nello scontro fra cultura e natura che permea l’opera di Howard:
Conan è sotto tutti i punti di vista un selvaggio e vive come tale, ma allo
stesso tempo aspira a integrarsi nel mondo della cultura, che è corrotta,
decadente e traditrice, e quindi ne subisce il fascino. La cultura attrae e respinge il cimmero (disagio che riflette quello che lo stesso Howard provava nei confronti di un mondo di
cui si sentiva prigioniero), e ogni storia rappresenta un esito di questo
rapporto mai risolto tra l’essere integrato e respinto. In questo racconto,
Conan è di fatto un ribelle, come lui stesso spiega all’inizio: «Un
giudice mi ha chiesto dove si nascondeva il mercenario. Gli ho risposto che era
un amico e che non l’avrei mai tradito. Invece di trovare ammirevole la mia
risposta, il giudice si è infuriato e ha iniziato un gran discorso sul fatto
che avevo dei doveri verso lo stato, la società e altre cose di cui non ho
capito niente. Più parlava e più urlava… Avevo spiegato chiaramente a quell’idiota
la mia posizione, ma lui faceva finta di non capire. Allora mi sono infuriato
anch’io… ho sfoderato la spada e ho mozzato la testa di quel giudice». L’adattamento
insiste molto dal punto di vista grafico sull’intenso rapporto carnale che si
instaura tra Conan e Bêlit («Prendimi! Conquistami con la forza della tua
passione!»), che da parte sua è una donna forte e battagliera e fa addirittura ritorno dall’oltretomba
per salvargli la vita, come gli aveva promesso, «e così facendo sembra mostrare
che esiste qualcosa che va oltre l’ineluttabile pessimismo del cimmero»
(Louinet). Se il buongiorno si vede dal mattino, questa collana lascia veramente
ben sperare, a patto che non si pensi di trovarvi il Conan di Frazetta o di
Buscema.
mercoledì 6 marzo 2019
Carlton Mellick III - La vagina infestata
Carlton
Mellick III non si smentisce mai e questa volta immagina una storia incentrata
sulla scoperta da parte del suo protagonista che la vagina della sua ragazza è
il portale per un altro mondo (idea che in qualche modo si connette a quella
del personaggio che in Apeshit – Pazzi furiosi
aveva la vagina dentata). È quel che succede a Steve, innamorato perso di
Stacy, dalla cui vagina provengono sussurri e voci inquietanti e poi esce
addirittura un morto vivente: da qui il titolo La vagina infestata per questo romanzo sempre pubblicato da Vaporteppa. Addirittura, si scopre che da bambina le
usciva quella che Stacy pensava essere un’amica immaginaria. Per amore Steve
accetta di intraprendere una spedizione nella vagina di lei, ed è grazie alla
sua narrazione in prima persona che ci vengono regalate le sue sensazioni di
disagio e le sue dichiarazioni d’amore nei confronti dell’amata. Oltre a
regalarci uno dei più efficaci incipit che la storia ricordi («Ho
avuto paura di fare sesso con Stacy da quando ho scoperto che la sua vagina era
infestata»), Mellick
si lascia andare a considerazioni sull’origine e sull’evoluzione del mondo
microscopico che si trova davanti esplorando l’utero di Stacy con piglio da
vero speleologo: addirittura, la seconda volta che entra dentro, Steve si
munisce di videocamera e walkie-talkie per affrontare al meglio un microcosmo
molto dettagliato e fatto di boschi, scheletri, creature simili ai personaggi
degli anime giapponesi e villaggi in ferro battuto. Qui Steve vivrà una storia
straniante, da vero straniero in terra straniera, in cui sperimenterà l’abbandono
ma incontrerà anche l’amica immaginaria di Stacy, Fig. Molte le scene di sesso, dalle più canoniche alle più strane. Per tutti quelli che si
scandalizzano, è bene ricordare che lo stesso Mellick ha dichiarato (come
ricorda Chiara Gamberetta nell’Introduzione
alla bizzarro fiction) che chi vede nelle sue opere una qualche profonda
metafora freudiana è un totale coglione. Bisogna quindi prendere il romanzo per
quello che è, come pura fiction, caratterizzata da elementi bizzarri. Questo non
vuol dire che non faccia pensare: a ben guardare, è possibile che Mellick
voglia dirci che ogni donna è il portale per un’altra dimensione, oppure che
gli uomini hanno paura delle donne, o che le donne non riescono ad accettare la
propria natura sessuale. O forse ci vuole dire qualcosa sull’amore. O forse sono
un totale coglione anch’io.
domenica 3 marzo 2019
Carlton Mellick III - Ho messo incinta la figlia di Satana!
Cosa succede
a un tizio senza lavoro e senza prospettive nella vita che viene costretto a
sposare una succube dopo averla accidentalmente messa incinta? È quello che si chiede
Carlton Mellick III con questo Ho messo
incinta la figlia di Satana!, escursione della bizzarro fiction nel territorio della commedia romantica («Sì,
proprio così, ho scritto una cazzo di commedia romantica») alla Ben Stiller
sempre pubblicata da Vaporteppa. Che Mellick
sia un pazzo non lo scopriamo certo adesso: io l’ho conosciuto con Apeshit – Pazzi furiosi, quindi sapevo
cosa aspettarmi, anche se in questo caso la storia è molto più classica e
lineare, per quanto piena di particolari bizzarri e spiazzanti. Il protagonista è Jonathan,
un ventiquattrenne incapace e immaturo che è bravo a fare una sola cosa: le
costruzioni coi Lego. Vive addirittura in una casa costruita con i mattoncini
Lego, ha una fidanzata di Lego e il suo sogno è lavorare a Legoland. Il problema è che un lavoro non ce
l’ha e i genitori, veri iniziatori della sua passione per le costruzioni, lo
considerano lo scemo di famiglia. Il suo unico amico è Shoji, un lottatore di
sumo giapponese obeso e perennemente ubriaco. Tutto cambia quando alla sua
porta si presenta Lari, una diabolica succube proveniente dall’inferno con la
pelle rossa, le corna, la lingua da rettile e le corna: è maldestra e priva di
futuro quasi quanto lui, visto che invece di rubargli l’anima facendo sesso con
lui si è semplicemente fatta mettere incinta. Lui non si ricorda niente per via
di un incantesimo, e l’unica prova di quanto lei gli rivela è il suo pene che,
da un giorno all’altro, è diventato completamente nero. Lari è porta dunque in grembo suo
figlio e vuole che lui la sposi, ma Jonathan ha più di qualche riserva: un
viaggio all’inferno gli conferma la veridicità di quanto la succube gli dice,
visto che suo padre è Lord Mazzur, signore delle regioni sud-occidentali dell’inferno,
suo fratello è il generale dell’esercito infernale e sua sorella è la regina
delle succubi. Costretto a maturare e ad assumersi le proprie responsabilità soprattutto
per salvare la pelle ed evitare un’eternità di torture presso i parenti della
ragazza, Jonathan accetta, ma non è così semplice perché i suoi genitori sono
dei cristiani fondamentalisti (il cognato è addirittura pastore evangelico) che
intendono uccidere la povera Lari e rispedirla all’inferno. A parte alcuni
episodi classicamente gore (le stragi
nel locale, a Disneyland e lungo l’autostrada, con Jonathan a bordo di una moto di Lego) la storia presenta le dinamiche della
classica storia d’amore, con innamoramenti, ritrosie e gelosie, e risvolti addirittura
dolci, come nel caso del rapporto d’amore e di reciproco sostegno che si
instaura tra Jonathan e Lari, fino al toccante discorso di lui che esprime il
suo amore per lei. In fondo, l’adorabile Lari (come non simpatizzare per una
che sgranocchia rane per merenda e dà fuoco alla suocera?) è l’unica ad
apprezzare veramente le costruzioni coi Lego di Jonathan, lo assiste facendole
animare in chiave lavorativa e gli fa scoprire che il diavolo in carrozzina che
ha creato è la copia di suo zio Xexus (anche se l’originale è meno simpatico). C’è
poi il tema della rivalità tra famiglie che devono imparare ad accettare un
matrimonio insolito passando attraverso lo scontro armato, in un tripudio di
follia kitsch che vede lo scontro finale nella Chiesa di Gesù e Cristo tra
demoni e cyborg rivestiti da armature costituite da piatti da collezione delle
Forniture Cristiane raffiguranti Gesù e con bazooka che sparano Gesù di
porcellana. Molto carina la rivelazione che nell’aldilà il paradiso è equivalente a
un paese del primo mondo e l’inferno a un paese del terzo, mentre il Valhalla
prendeva le anime umane per usarle negli incontri tra gladiatori.
Iscriviti a:
Post (Atom)