domenica 10 novembre 2019

J.R.R. Tolkien - La Compagnia dell'Anello

Dire la mia sulla nuova traduzione del Signore degli Anelli è un’impresa rischiosa, sebbene argomento decisamente acchiappalike. Per molta gente, qui in Italia, pensare di ritradurre un testo sacro come questo è una bestemmia o una questione di lesa maestà: come ci si è potuti permettere anche solo di pensare di sconfessare la vecchia traduzione del 1967 di Vittoria Alliata di Villafranca sotto (si dice) la supervisione dello stesso Tolkien? Una traduzione che poi è stata pesantemente modificata da Quirino Principe che livellò tutti i dialoghi su un registro alto, demolendo la stratificazione linguistica e la varietà lessicale di un filologo come Tolkien, fatta talmente bene che in seguito ha dovuto subire un progressivo lavoro di sistemazione nel corso degli anni (si conta una mezza dozzina di interventi)? Aggiungiamoci che la vecchia traduzione è ammantata di una certa connotazione politica (di destra) ben precisa e che la nuova è stata realizzata in collaborazione con la recente Associazione Italiana di Studi Tolkieniani (di sinistra), e apriti cielo: hanno cominciato a fioccare articoli dal titolo “Come assassinare Tolkien” e “Giù le mani da Tolkien”, che accusano la Bompiani di aver scientemente messo in atto una nuova lettura di Tolkien in chiave terzomondista e politically correct, capace di alterare la sua portata di classico eterno e tradizionale, antimoderno e antisistema. Tutti discorsi che si fermano come sempre alla frontiera di Chiasso e, guarda caso, non si fanno mai per nuove traduzioni di Dostoevskij, Dickens o Proust, autori che sono considerati classici: anche Tolkien è un classico che parla a tutti, non un’allegoria chiusa, ed è normale che venga ritradotto dopo qualche anno rispetto alla prima edizione. Ora, sono il primo a dire che il nuovo traduttore Ottavio Fatica avrebbe potuto essere più diplomatico invece che accusare la vecchia traduzione di avere “500 errori a pagina per 1.500 pagine”, ma sul fatto che la vecchia versione Rusconi (rimasta quella, nonostante le revisioni, anche in seguito del passaggio dei diritti a Bompiani) fosse piena di manipolazioni e alterazioni c’è poco da discutere. Da parte sua, Vittoria Alliata non è stata da meno, visto che ha denunciato per diffamazione Fatica, sancendo una nuova faida in un settore, quello editoriale, già frequentato da pazzi scatenati e sempre più incentrato sulle polemiche social. Poi è arrivata in anteprima la nuova interpretazione della poesia dell’Anello, faccenda molto delicata in quanto di particolare significato nel cuore di ogni tolkieniano: le resistenze sono state ovviamente forti, dopo 50 anni durante i quali ci si è affezionati a un testo e a determinati nomi (consacrati, è bene ricordarlo, dall’adattamento della trilogia cinematografica di Peter Jackson), ma da qui a improvvisarsi filologi su YouTube ce ne passa, peggio ancora evocare teorie del complotto e bassa dietrologia. Quindi lo sdegno si è rivolto a Samwise Gamgee tradotto come “Samplicio”, cosa che ha portato ad accuse infamanti di aver snaturato la natura del nome: neanche qui bisogna stupirsi troppo, visto che nell’era di internet tutti sanno fare il mestiere di tutti e non si tiene conto del fatto che Samwise, come spiegato da Giampaolo Canzonieri (principale consulente di Fatica per questa traduzione), viene dall’anglosassone samwís che significa “semplice”. Insomma, nessuno vi ha rubato l’infanzia e non c’è alcun bisogno di andare a insultare la gente su Facebook o trasformarsi in haters: la vecchia traduzione resterà comunque, e nessuno vi obbliga ad acquistare la nuova.

Diciamo subito una cosa: non solo manca la mappa della Terra di Mezzo, ma la copertina di questo primo volume fa schifo. Mettere questa specie di superficie lunare (pare sia una fotografia satellitare del pianeta Marte), quando ormai c’è un intero immaginario legato a Tolkien, è una scelta veramente assurda. Sarebbe bastato acquistare i diritti di un’immagine di Alan Lee o John Howe per risolvere la cosa, ma come detto l’ambiente editoriale è frequentato da pazzi scatenati e non bisogna stupirsi troppo nemmeno delle superfici lunari. D’altra parte, non si deve giudicare un libro dalla copertina, giusto?

Venendo al testo, finalmente è stata eliminata la famigerata prefazione di Elémire Zolla che correda tutte le edizioni italiane del Signore degli Anelli dal 1970 in poi e che interpretava il romanzo in chiave simbolica, mistico-alchemica e oracolare, attraverso simboli eterni in dialogo tra loro e con una presunta verità astorica che con i personaggi in esso contenuti non hanno davvero niente a che fare (senza contare che svelava la conclusione del romanzo). In compenso, è stata lasciata solamente la prefazione di Tolkien alla seconda edizione, cioè le parole dell’autore stesso che chiarisce la sua posizione sulle letture allegoriche della sua opera: «Quanto al significato profondo o al “messaggio”, nelle intenzioni dell’autore non ne ha alcuno. Non è né allegorico né legato all’attualità. (...) Io detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue manifestazioni e l’ho sempre fatto sin da quando sono diventato abbastanza grande e accorto da individuarne la presenza. Preferisco di gran lunga la storia, vera o finta, con la sua molteplice applicabilità al pensiero e all’esperienza dei lettori. Credo che molti confondano “applicabilità” con “allegoria”; ma una risiede nella libertà del lettore, l’altra nel predominio deliberato dell’autore». Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Quanto all’opera del traduttore, conscio di attirarmi le ire di molti, sottolineo la sua incredibile cura nel rendere il registro medio di Tolkien, che ogni tanto si innalza o si abbassa bruscamente a seconda del personaggio che sta parlando, o che si arricchisce di arcaismi, giocando sull’attrito che creano questi effetti. Molte volte sembra proprio di leggere un nuovo libro, che in alcuni casi trascina e commuove, come nel caso del dialogo tra Frodo e Gandalf, o che si adatta alla perfezione alla polifonia di Tolkien, come accade per il Consiglio di Elrond, l’episodio in cui maggiormente le parole e il modo di parlare dei vari personaggi implicano la loro etica e il loro modo di vedere le cose. E poi bisogna segnalare l’estrema attenzione per le sottigliezze: per rendere parole come drownded per drownedvittles per victuals pronunciate da Hamfast Gamgee, il padre di Sam, Fatica ricorre a storpiature lessicali come “affocato” al posto di “annegato” o “pappatoria” al posto di “mangiare”. Oppure rispetta i neologismi (intraducibili) come “eleventy-one” dall’Old English e lo traduce “undicento”, e fa ricorso a forme gergali in uso anche nell’italiano come “Il signor Bilbo gli ha imparato a leggere e a scrivere” per tradurre “Mr. Bilbo learned him his letters”. Tutte cose che non aveva mai notato nessuno, per inciso. Non si tratta di invenzioni, ma di un tentativo di dare una sfumatura che nell’originale connota un ben preciso modo di parlare di determinati personaggi: ignorarla nella convinzione di rendere più scorrevole o evocativo un testo non è affatto una motivazione adeguata, anzi, conferma la brutta abitudine di rifiutarsi di analizzare Tolkien sotto una luce nuova, più meticolosa e fedele. Come al solito, si conferma la pessima tendenza a opporsi al nuovo, in quanto il vecchio è meglio, anzi, è bello per partito preso.

Il lavoro di Fatica riguarda anche nomi e toponimi, senza rispettare le proposte del passato (quindi Rivendell non è né Forraspaccata né Gran Burrone), dando anzi sfoggio di grande creatività specie per rendere i “nomi parlanti” (creati apposta così da Tolkien): per i nomi, vengono eliminate le traslitterazioni fonetiche (Tuc ridiventa Took) e presentate varianti come Ruggitoro/Muggitoro, Brandibuck/Brandaino, Sabbioso/Sabbiaiolo, Scavari/Scavieri, Paffuti/Paciocco, Rintanati/Cavacciolo, Serracinta/Pancieri, Tassi/Tanatasso, Soffiatromba/Soffiacorno, Tronfipiede/Pededegno, Grassotto Bolgeri/Ciccio Bolger, Cactaceo/Farfaraccio, Grampasso/Passolungo, Billy Felci/Bill Felcioso. Inoltre, l’incomprensibile “Gaffiere” diviene “Veglio”, l’Assemblea degli hobbit non è più nazionale ma conteale (tra l’altro il concetto di nazione non esiste nella Terra di Mezzo), i Raminghi diventano Forestali (altra cosa, a quanto pare, per molti insopportabile), Occidente diviene Occidenza, i Warg non sono più Mannari, Mezzuomo si riduce a Mezzomo. Soluzioni che possono non piacere, ma che sono comunque lecite.

Lo stesso accade per i toponimi: Hobbiville/Hobbiton (come in originale), Decumano/Quartiero, Pianilungone/Vallelunga, Pietraforata/Gran Sterro, Lungacque/Acquariva, Saccoforino/Scarcasacco, Tucboro/Borgo Daino, Terra di Buck/Landaino, Crifosso/Criconca, Terminalbosco/Fondo Boschivo, Sinuosalice/Circonvolvolo, Tumulilande/Poggitumuli, Montagne Nebbiose/Monti Brumosi, Bosco Atro/Boscuro, Dunland/Landumbria, Chiane Ditteri/Chiane Moscerine, Terre Selvagge/Selvalanda, Colle Vento/Svettavento, Fiume Grigio/Fiume Pollagrigia, Gran Burrone/Valforra, Rombirivo/Riorombante, Agrifogliere/Agrifoglieto, Valle dei Rivi Tenebrosi/Vallea dei Riombrosi, Mirolago/Speculago, Argentaroggia/Roggiargento.

Anche le poesie sono cambiate. Fatica ha cercato di mantenere metro e rime originali (cosa che la versione Alliata/Principe non faceva) e per questo ha dovuto leggermente forzare sintassi e lessico, oltre che rendere ragione della tecnica dell’inversione di Tolkien, che dispone le parole in un ordine diverso rispetto al normale all’interno della frase. Può non piacere, ma anche questa è una scelta lecita: leggete questa nuova traduzione, criticatela ma soprattutto ragionate prima di trarre conclusioni affrettate. Amare Tolkien significa leggerlo davvero.

6 commenti:

  1. Ennesimo tentativo di difendere l'indifendibile...
    Certo, nella nuova traduzione c'è qualche spunto interessante, forse in certi casi anche geniale... ma nel complesso il risultato è tristissimo.
    Pare che il traduttore si sia sforzato (superando talvolta i limiti del lecito) di voler per forza stupire, inventando nuove traduzioni là dove invece non se ne sentiva proprio la necessità, o sostituendo una traduzione forzata con un'altra almeno altrettanto forzata...
    Una nota: "learned him his letters" non è (solo) una forma gergale, ma è anche una forma legittima ma desueta (dai diari di Dennis F. Hanks: I "served as Lincoln's preceptor, learned him his letters, spell, read and write".
    Questa traduzione, semplicemente e come è giusto che sia, è destinata a non aver futuro. E la riprova la dai proprio tu in questo articolo, quando scrivi "il padre di Sam" e non "il padre di Samplicio"... :D

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    1. Infatti in tutto il libro è chiamato appunto "Sam", diminutivo di "Samplicio", come "Sam" lo è di "Samwise" :)

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  2. La traduzione è uno scempio orribile, non c'era necessità di cambiare i nomi e i toponimi. L'opera di Tolkien è stata rovinata privandola di poesia, magia ed epicità, ridotta a nomi ridicoli e allo stesso piano di robetta insulsa per poppanti

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  3. La nuova traduzione di Fatica è STRAORDINARIA. Chi dice il contrario non vuole ammettere la verità, oppure sono troppo attaccati al vecchiume e all'immaginario colletivo che la vecchia traduzione ha creato. Il tempo passa, c'è bisogno di rinnovare, Tolkien merita questo. La tanto criticata nuova traduzione verrà apprezzata dalle generazione future, ne sono convinto. Mentre la gente attaccata alla vecchia, può lasciarsi fregare andando a comprare un libro vecchio ed usato su ebay a 300€. Questo è il futuro, la nuova traduzione è un capolavoro!

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  4. A prescindere dal fatto che l'operazione sia stata bene compiuta o meno, esiste un processo di stratificazione storica che per il semplice fatto che si tenti una nuova traduzione, non viene rispettato; in questo senso sicuramente si tratta di una operazione rischiosa e già discutibile a prescindere dal risultato. E per il semplice fatto che sia stata tentata.
    Del resto, chi oggi pretendesse di apostrofare con "Michelino Topo" quello che tutti hanno chiamato da quasi un secolo "Topolino" non sbaglierebbe dal punto di vista della correttezza della resa, ma le ire che si tirerebbe adosso sarebbero quanto mai giustificate, in quanto il nome, per inesatto che potesse essere, è diventato parte dell'immaginario del personaggio e mutarlo significa andare a toccare tale immaginario.
    Tuttavia io credo che in certi casi vi siano stati proprio degli errori. La terminolgia "forestali" è proprio lampante, ma anche Tucboro che diventa "Borgo Daino"... Cosa potrà mai giustificare una cosa del genere? Il comune uso dei traduttori italiani di metterci del loro? Ma di sbavature ce ne sono parecchie. Che bisogno c'era, se non, a questo punto mi viene da dire, un esplicito desiderio di modificare TUTTO, di mettere mano al termine Terre Selvagge (in originale Wilderland)? In inglese, le parole agglutineranno pure, ma in italiano no, e Selvalanda può apparire più vicino all'originale, ma per salvare la forma, perde la scorrevolezza in italiano e devo dire anche il proprio sapore evocativo, perché Selvalanda è una parola che da noi non sarebbe mai potuta sorgere. Peraltro appunto è sbagliata; selvaggio (della traduzione terre selvagge) viene da selva (impiegata in selvalanda), ma i due termini sono ben differenziati in italiano (una palude può essere selvatica, ma non è certo boscosa) e quindi l'aggiunta appare completamente arbitraria riferita a terre si selvagge (inabitare) ma che non erano certamente completamente coperte di boschi.
    Mi sono ricercato le traduzioni dei nomi ed ho visto che è più o meno ovunque così e anche se immagino (non ho il libro) sia stato fatto un buon lavoro nei dialoghi, per me si tratta di un qualcosa che non mi invoglia ad acquistarlo.

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