Se
pensate che il fantasy sia sempre uguale a se stesso e non abbia più niente da
dire, Fidanzati dell’inverno della francese Christelle Dabos potrebbe
fare per voi. Si tratta del primo capitolo di una trilogia, L’Attraversaspecchi,
ambientato in un futuro prossimo venturo steampunk/Belle Époque in cui scienza
e magia convivono e in cui, a seguito della frammentazione della Terra, l’umanità
è molto diminuita e si è ridotta in clan, le arche, dove tutti gli appartenenti
alla stessa famiglia condividono lo stesso potere, che è diverso per ogni clan:
altrove le famiglie hanno il potere di infliggere colpi attraverso il sistema
nervoso, di vedere le stesse cose o di conservare la memoria. La protagonista
della storia, Ofelia, appartenente all’arca di Anima, viene promessa in sposa a
un appartenente all’arca del Polo, Thorn, che si presenta subito come un nobile
ombroso, sprezzante e altezzoso (nessuno dei due vuole questo matrimonio);
ovviamente, si dovrà svelare anche lui, rispecchiando lo stereotipo del bello
burbero e problematico. Trasferita a Città-cielo e inizialmente affidata alla
zia di Thorn, Berenilde, donna capricciosa, narcisista e calcolatrice, che la
nasconde sotto le sembianze di un domestico maschio, Ofelia scoprirà che in
questo regno ci sono un’infinità di intrighi politici e tutti cercano di
uccidersi a vicenda, e in più lei dovrà cercare di sopravvivere e di venire a
capo del suo matrimonio. Il libro è ben scritto, ha una trama molto dinamica
(anche se con qualche lungaggine di troppo) ed è a tutti gli effetti un romanzo
di formazione con una protagonista adolescente (cosa che ne fa uno young adult)
che ha un’evoluzione all’interno della trama: parte goffa, insicura e con poca
personalità, ha gli occhiali (è miope), sternutisce sempre e si morsica le
cuciture dei guanti, ma è curiosa e intraprendente. Ha due poteri, la capacità
di percepire la memoria degli oggetti semplicemente toccandoli e quella di
viaggiare attraverso gli specchi; questi due poteri non sono mai abusati ma
sempre dosati nella giusta maniera, forse per essere ripresi nei successivi
capitoli della saga quando la nostra Ofelia sarà cresciuta come personaggio e
li padroneggerà in pieno. Gli altri personaggi sono abbastanza
monodimensionali, ma quello che veramente convince è la costruzione del mondo,
che rispecchia perfettamente una realtà in cui tutti mentono e indossano delle
maschere: Città-cielo è un vero e proprio labirinto sospeso che si organizza in
verticale (ci si muove con degli ascensori) con delle porte magiche che fanno
sbucare in punti diversi e addirittura dei microclimi particolari. È la città
delle illusioni che permettono lo stravolgimento degli spazi o in un infinito
gioco di specchi (ma, paradossalmente, in questo mondo di inganni gli specchi
rifiutano chi tenta di attraversarli interpretando un ruolo diverso dal
proprio): Ofelia non si può fidare di niente e di nessuno, neanche di quello
che vede. Inoltre, questo mondo magico ci viene mostrato un po’ per volta e non
spiegato, cosa che aumenta l’immersività visto che il lettore scopre le cose
insieme a Ofelia. Molto bella l’idea delle clessidre usate come “viaggi vacanza”
per ricompensare i servitori e farli viaggiare attraverso delle vere e proprie
illusioni.
martedì 31 dicembre 2019
lunedì 30 dicembre 2019
Stuart Turton - Le sette morti di Evelyn Hardcastle
«Nulla
di meglio di una maschera per rivelare la vera natura di chi la porta»: proprio sul concetto di maschera ragiona questo Le sette morti di Evelyn Hardcastle,
giallo con elementi mystery che mescola Edgare Wallace, Cluedo, Downton
Abbey e Black Mirror e
immerge il lettore in una storia molto originale e perfettamente congegnata.
Tutto parte dal protagonista Aiden Bishop, che si sveglia in un bosco, non ha
memoria di sé, crede di assistere a un omicidio, vede una ragazza che scappa,
cerca una via di fuga e approda a una casa enorme e abbandonata a se stessa.
La tenuta è quella di Blackheat, e nella casa sono radunati numerosi
personaggi, invitati a una festa in maschera in onore del ritorno a casa della
figlia degli Hardcastle, Evelyn, dopo essersi trasferita a Parigi. Curiosamente,
19 anni prima, nello stesso giorno si è tenuta la stessa festa, durante la
quale è morto il figlio minore degli Hardcastle, Thomas, fatto che ha fatto
deflagrare le relazioni all’interno della famiglia e ha segnato in particolar modo Evelyn. A poco a poco Aiden comincia a capire di essere finito in un gioco più
grande di lui, fatto di intrighi e scoperte: scopre di non poter fuggire da
Blackheath e di avere otto giorni per scoprire il segreto della morte di
Evelyn, che ogni sera alle undici muore per un colpo di pistola al ventre
cadendo nel laghetto della tenuta. Se all’inizio scopre di essere nel corpo di
un medico, Aiden ogni giorno si sposta in un corpo diverso appartenente agli
ospiti della casa, vivendo dunque in prima persona gli accadimenti dello stesso
giorno fino a quando non sprofonda nel sonno: questi personaggi non sono semplici burattini che lui può muovere a piacimento,
ma veri e propri personaggi mossi da emozioni, pulsioni e traumi sempre
più difficili da gestire, che condizionano Aiden secondo il loro modo di
pensare, la loro personalità e i loro difetti fisici. Il campionario umano è
molto ben assortito: ci sono il banchiere, l’agente di polizia, il giocatore d’azzardo,
il medico spacciatore, lo stupratore seriale. Arbitro di questo gioco è un
personaggio parecchio inquietante, vestito da medico della peste, che non svela
il proprio volto; ad affiancare la sua presenza costante ci sono la misteriosa
domestica Anna, il cui nome non compare né tra gli invitati né nel personale di
servizio, e il lacchè, infallibile cecchino che minaccia di uccidere
spietatamente ognuna delle incarnazioni del protagonista. Ovviamente, la
narrazione in prima persona permette una totale identificazione con il
protagonista da parte del lettore, che ne condivide lo smarrimento, e la
questione delle varie incarnazioni è perfetta per rivivere la giornata dai
diversi punti di vista e ricostruire il background e le motivazioni di ognuno, in
una complessa rete di ricatti, verità e menzogne (e ne vengono dette molte). All’inizio
non si capisce nulla ma, stando al gioco, si viene a capo di un vero e proprio
mosaico di dettagli e indizi disseminati lungo il testo, cosa che spinge a una
rilettura per poter apprezzare molti particolari che, soprattutto all’inizio,
si sono inevitabilmente persi. Certo, qualcuno potrebbe avere problemi a non
accettare la natura irrazionale dell’indagine (anche se la ricostruzione dell’enigma
è del tutto razionale), ma Stuart Turton è capace di utilizzare il giallo per
parlare di colpa, peccato, redenzione e perdono. Un romanzo da non sottovalutare.
lunedì 23 dicembre 2019
Friedrich Reck-Malleczewen - Il re degli anabattisti
Nuova
edizione Fede & Cultura per quello che è a suo modo un classico, Il re degli anabattisti di
Friedrich Reck-Malleczewen, aristocratico prussiano cattolico morto nel campo
di concentramento di Dachau, che racconta una vicenda che costituisce parte
cospicua anche del fortunato romanzo Q
di Luther Blissett: la presa di Münster da parte degli anabattisti
nel 1534-35 e il loro tentativo di rinnovamento (o sovvertimento) sociale prima
della capitolazione davanti alle truppe del vescovo-principe von Waldeck. Da un
lato Münster, città della Vestfalia caratterizzata fin dall’inizio della
Riforma da un protestantesimo combattivo e lontano dai compromessi di Lutero;
dall’altro l’anabattismo, che non solo predica la necessità di un nuovo
battesimo da adulti ma che rappresenta un’opposizione interna al
protestantesimo di Lutero (i contadini di Thomas Müntzer avevano cercato di
opporsi al sistema feudale e per questo erano stati ferocemente repressi dai
principi). Come sempre accade in questo caso, partendo dalla volontà di tornare
alla purezza della religione cristiana e da pubbliche dichiarazioni di “reciproca
tolleranza” e di “libertà di religione”, costoro tentarono di tornare allo
stato edenico attraverso un rinnovamento sociale basato sulle Scritture dell’Antico
Testamento: suddivisero la città in parti, cambiarono nome alle strade,
proibirono la proprietà privata ed elessero un profeta, Jan Matthys, alla cui
morte succedette Jan Bockelson di Leida, uno capace di ammazzare dichiarando: «La porta della misericordia è sbarrata». In breve Bockelson divenne il re di Münster, la
nuova Sion in terra, ormai ricettacolo di tutti i criminali dell’impero e
contraddistinta dal sangue e dalla follia: una comunione dei beni che diventa
comunitarismo se non proprio comunismo («Un
cristiano non deve possedere denaro e il suo argento o il suo oro appartengono
all’uno come all’altro»),
lussuria sfrenata, abusi di ogni tipo, chiese devastate e imbrattate, conventi
saccheggiati, poligamia obbligatoria (pena la morte se le donne rifiutavano),
isteria collettiva, propaganda, eliminazione delle “bocche inutili”, esecuzioni
sommarie e quotidiane per punire il peccato sulla base di un semplice sospetto.
Il tutto, ovviamente, condito e legittimato da citazioni bibliche e presunti comandi
ricevuti direttamente da Dio: in un’occasione si pensa addirittura di uccidere
il vescovo von Waldeck come Oloferne inviando nel suo accampamento una specie
di Giuditta con una camicia intrisa di veleno. La cosa più grottesca è proprio il
ruolo di Bockelson, autentico “re giullare”, e del suo sgherro Knipperdolling
dai «tratti paranoici del santone», cui si deve la decisione (dovuta a una visione) di
abbattere i campanili, simbolo dell’illecita superiorità della Chiesa
cattolica, affinché tutto ciò che era elevato fosse umiliato. Reck-Malleczewen
ricostruisce questa pagina nerissima della Riforma protestante e la legge in
chiave controrivoluzionaria, ovvero come il primo grande esperimento di
trasformazione violenta della società compiuto in Occidente, direttamente
connessa all’esperienza della Germania nazista, di cui lo stesso
Reck-Malleczewen era strenuo oppositore. In questo senso si capiscono le sue
parole quando parla di «una
diabolica intossicazione tedesca, un evento nel corso del quale dagli antri
segreti di quest’anima ambigua evasero tutti i diavoli, gli spiriti e i
satanassi che fino ad allora si era osato fissare soltanto sulle devote tavole
gotiche». L’autore affronta l’episodio di Münster in chiave di
«follia collettiva» ed «emblematica psicosi»,
interrogandosi come abbia potuto verificarsi «proprio in questo angolo della Germania
settentrionale, tra una borghesia apparentemente compassata». Quindi individua la chiave di tutto nel
Rinascimento, periodo che «ha
comportato per la Germania l’introduzione violenta di uno stile di vita
straniero» e che ha segnato lo slittamento
da una società incentrata su Dio a una basata sul denaro, corrispondente alla
rottura dell’unità dei cristiani e dell’impero: il crollo delle «idee più antiche e sacre» ha lasciato spazio al più sfrenato individualismo,
spingendo l’uomo nordico «ad
accettare l’idea che un capitale che genera interessi fosse un elemento chiave
nel corso della storia». In
questo modo l’etica svuotata di senso di matrice calvinista diventa virtù fine
a se stessa, per arrivare fino a Robespierre «che alla fine, paradossalmente, distrugge la stessa
vita per amore della virtù».
Addirittura, secondo Reck-Malleczewen, Bockelson nemmeno ci credeva a quel che
predicava ed era pronto a tradire la causa «se
questo gli avesse consentito di ottenere la pace con l’impero e una vantaggiosa
uscita di scena» e
soprattutto avesse avuto alle spalle qualche potenza più forte, esattamente
come Napoleone perseguitò i giacobini e richiamò l’antica nobiltà emigrata.
Certo, spesso l’estrazione aristocratica dell’autore («la canaglia detesterà sempre ciò che non può entrare
nel suo cranio scimmiesco»),
specie quando si scaglia contro l’affermazione dell’uomo-massa o denuncia della
rottura dell’unità dei cristiani e dell’impero in nome di «quel delirio avvelenato» che è l’«uguaglianza
di tutti gli uomini»,
principio che darà origine agli enciclopedisti dell’Illuminismo, alla
Rivoluzione francese e a quella bolscevica («Buona
notte, amato mondo antico e religioso; buona notte, anti-co Sacro Impero; buona
notte, mondo dei cercatori di Dio e dei costruttori di cattedrali… buona notte,
buona notte»). Dal
punto di vista stilistico, invece, siamo di fronte a un testo modernissimo, che
mescola discorso diretto e indiretto, prima e terza persona, frasi profetiche e
visioni, scene di violenza e prove documentali; addirittura si interroga su
come evolveranno le cose e si rivolge agli stessi rivoltosi, rammentando loro
le imprese compiute. In questo modo catapulta il lettore in uno scenario quasi
pulp: basti la narrazione in prima persona della fame a Münster, con la gente
costretta a mangiare le rilegature in pelle dei libri, gli stivali e le
candele, e a cuocere lo sterco di vacca e le proprie feci; o la descrizione
della messa orgiastica con il re, le sue regali mogli e l’intera comunità che
presentano all’altare offerte sacrificali consistenti in ratti morti, teste
putrefatte di gatti e zoccoli di cavalli uccisi. Niente di più distante da un
saggio classico e accademico.
sabato 14 dicembre 2019
Tom Gauld - Mooncop
Anche
la solitudine può essere poetica, come prova Mooncop, deliziosa graphic
novel scritta e disegnata da Tom Gauld in bianco, nero, blu e azzurro che
immagina una luna colonizzata e abbandonata dall’uomo. Il satellite è ormai semideserto,
in un vero e proprio fallimento dell’immaginario fantascientifico, come a suggerire
la negazione di un futuro che (per noi) non è ancora arrivato; tutti tornano
sulla Terra e vengono sostituiti da automi intelligenti, quasi una metafora dei
piccoli paesini di provincia che si svuotano e scompaiono. È un volume molto
malinconico, fatto di poche cose, sfumature e piccole disavventure che fanno
sorridere e sognare: il protagonista è un poliziotto che si aggira per la
superficie lunare deserta al fine di far rispettare la legge: la sua ronda consiste
in una ragazzina da riportare a casa, una signora anziana che è stata tra le
prime a trasferirsi sulla luna e che ora è alla ricerca del cane, l’automa senile
di Neil Armstrong che vaga attorno al Museo locale. Tutto è pervaso di un’ironia
sottile e gentile, basti pensare al poliziotto che ha il 100% di crimini
risolti (0 su 0) e all’inserviente del negozio di ciambelle eletta impiegata
del mese. Il tratto è essenziale, gli elementi sono ridotti all’osso: tutti (compreso
il cane e il bar) sono dotati di casco, e la Terra assume
valenza poetica prendendo il posto della luna nel nostro immaginario celeste.
martedì 10 dicembre 2019
Franco Cardini - I Templari
Grande
medievista, storico delle crociate ed esperto di rapporti tra cristianesimo e
islam, Franco Cardini è uno dei più accreditati studiosi che possono spiegare chi e cosa fossero i cavalieri Templari, troppe volte dipinti come soggetti
ambigui, apostoli di una fede segreta attorno a cui si è costruito un mito che
li vorrebbe ancora vivi e in possesso di segreti talmente sconvolgenti da
cambiare, se rivelati, la storia stessa del mondo (basti pensare al successo di
bestseller come Il Codice Da Vinci o, molto più semplicemente, a
programmi come Voyager). In questo agile libretto Cardini spazza via
ogni ambiguità: nati dopo la conquista di Gerusalemme della Prima Crociata (1099)
con il nome di pauperes milites Christi, i Templari furono un ordine
monastico-cavalleresco che seppe unire i tradizionali voti di povertà, castità
e obbedienza all’uso delle armi, andando a costituire quella che in gergo
canonico si chiama “milizia”. Rappresentavano un’evoluzione del semplice
concetto di miles sancti Petri coniato da papa Gregorio VII, cioè non più
un monachesimo che fugge il mondo e abbraccia il “martirio incruento” della
penitenza, bensì “il restare nel mondo per agire in esso usando gli strumenti
mondani per un fine che tale non era considerato”. Anche se in breve si affermarono
come una potenza economica di prim’ordine, il compito principale dei Templari
era quello di combattere e proteggere i pellegrini sulle vie che portavano a
Gerusalemme, Santiago de Compostela e altri punti focali della cristianità. Diedero
prova di sagacia militare e diplomatica e si mescolarono alle vicende politiche
della Terrasanta. Con la cacciata dei cristiani da quest’ultima, i Templari
persero il loro ruolo storico e caddero in disgrazia: la loro avventura terminò
quando si attirarono le invidie del re di Francia Filippo IV il Bello,
desideroso di impossessarsi del loro patrimonio e di ridurre, allo stesso tempo,
il potere della Chiesa. Egli li fece arrestare e confessare svariate eresie con
tortura: non pago, fece anche bruciare l’ultimo gran maestro, Giacomo di Molay,
attirando, secondo la leggenda, la maledizione di questi su di sé e su tutta la
sua stirpe per intere generazioni. Era il 1312, e l’avventura dei Templari
finì. I membri dell’Ordine furono lasciti liberi, alcuni tornarono allo stato
laicale sposandosi, altri scelsero di entrare nell’ordine gemello di San
Giovanni (gli Ospitalieri) e negli ordini monastici o mendicanti, altri si
dedicarono invece a forme di libera attività (un templare finì corsaro, un
altro divenne addirittura capo della guardia di un emiro di Tunisi). Da storico,
Cardini sottolinea molto decisamente che qui finisce la vicenda dal punto di
vista storico: laddove ci sia stata una sopravvivenza occulta dell’Ordine è
bene chiarire che si tratta di effetti del fenomeno conosciuto come “templarismo”, impostosi tra Sei e Settecento e legato a un uso distorto della
storia, specie da quando Andrew Michael Ramsay, uno scozzese fedele alla
dinastia Stuart esule in Francia, si inventò di sana pianta una diaspora dei
Templari in tutta Europa e una loro connessione con la massoneria e il segreto
del Graal. Da questo momento in molti hanno contribuito ad aggiungere equivoco
a equivoco, falsificazione a falsificazione, confusione a confusione, fra
teorie cospirazioniste del complotto ed elucubrazioni sul governo universale
dei Superiori Sconosciuti, dalla Santa Vehme al Thal di Zacharias Werner, dalla
Sinarchia alla Loggia Luminosa del Vril. Si è venuta così a creare una
paccottiglia fantaculturale che fa tendenza e trova costantemente un grosso
pubblico, fino a raggiungere un livello massmediale che sfrutta la passione per
l’esoterismo di persone che preferiscono raccontarsi delle mediocri fiabe
piuttosto che affrontare la lettura di un buon libro.
Dario Calimani - T.S. Eliot. Le geometrie del disordine
Da quando, ormai quasi vent’anni fa, l’ho portato all’esame
di Letteratura inglese all’università, T.S. Eliot mi è rimasto dentro. Ogni
tanto riaffiorano in me versi della Waste Land come “Madame Sosostris,
la famosa chiaroveggente, aveva un brutto raffreddore”, “Temi la morte per
acqua!”, “Giag giag a sozze orecchie”, “In the room the women come and go / Talking
of Michelangelo” e “You! hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère!”. Quest’estate
a Londra mi sono pure imbattuto nella sua casa, a High Street Kensington, e mi
è venuta voglia di riaffrontarlo, riprendendo in mano il libro di testo del mio
professore Dario Calimani, ahimè fuori catalogo, che presenta Eliot come un modernista
pur «con
la delusione e il rimpianto del classicista a cui sono venuti a mancare i
valori su cui ha fondato la sua esistenza», e spiega quindi come per lui
il Modernismo «è una rivoluzione formale applicata a un contenuto
percepito come degradazione e involuzione». Chiariamo subito che si
tratta di un testo universitario, quindi abbastanza complesso, documentato e
pieno di note bibliografiche e riferimenti testuali, ma è una grandissima
lettura. Vista l’ideologia reazionaria, se non dichiaratamente fascista, e l’antisemitismo
di questo genio del Novecento, Calimani parte dal dilemma posto dalla poesia di
Eliot al critico, se cioè si debba giudicare la sua poesia dal messaggio oppure
indipendentemente da esso, e la risposta non può che essere una riflessione
critica sul conflitto di questi due ambiti, con un continuo riesame di sé e dei
propri valori. Chiaro che questo esercizio si concentri soprattutto sulla Waste
Land, il capolavoro di Eliot, summa della sua poetica fatta di citazioni e
allusioni testuali, da Dante a Shakespeare a Milton, al punto che ogni verso è
o contiene la citazione da opere precedenti; una poetica che si basa sulla sola
autorità del linguaggio e gioca sempre su contrasti e ossimori che si negano
vicendevolmente e creano un preciso effetto poetico spiazzante, facendo
volutamente smarrire il lettore. Il testo eliotiano rompe il rapporto classico tra
soggetto e l’oggetto della percezione, quindi fa perdere al soggetto la chiave
di decodifica della realtà e all’autore il rapporto con il proprio testo; allo
stesso tempo il lettore dipende da un testo che «non ripone alcuna fiducia in
lui e nella razionalità della sua natura umana».
Eliot «delinea una visione spaziale della
letteratura per la quale le opere del passato e quelle del presente
costituiscono un ordine simultaneo nella coscienza dell’artista che scrive, un
ordine che esula dalla tradizione temporale». Nella Waste Land si
assiste a una moltiplicazione dei tempi (presente, passato, futuro, ma anche
tempo mitico), tutti schiacciati per giustapposizione (tecnica della
sincronicità), con la conseguente scomparsa del tempo e la sua sostituzione con
lo spazio (già anticipata dalla vita misurata in cucchiaini da caffè di Prufrock):
il tempo viene spazializzato e fatto a pezzi, spesso incorniciato
pittoricamente e incastonato con una finzione nell’altra, espediente che sembra
corrispondere alla tecnica di costruzione narrativa ma che in realtà serve solo
ad annullare l’orizzontalità temporale e le barriere verticali che separano
storia, mito e finzione letteraria. Anche tutte le immagini forti e ricorrenti
della Waste Land sono poste in giustapposizione tra loro: la profezia,
spesso mancata (l’indovino Tiresia, la chiaroveggente Madame Sosostris, la
Sibilla decrepita prigioniera in un’ampolla), la fenicità (Phlebas il fenicio,
Didone, la Cartagine di Agostino, le guerre puniche), l’amore tradito, la
metamorfosi, la morte per acqua. La forma abbandona le strutture tradizionali e
diventa metafora del decadimento spirituale e sociopolitico: «Con
la sua forma chiusa, il testo si autolegittima ironicamente e, insieme, si
fissa in un sistema spaziale che, annullato ogni collegamento sequenziale e
deterministico, nega ogni valore all’esperienza dell’uomo nella storia e ogni
senso alla storia stessa. Al tempo della storia, con le irreparabili tragedie
del suo passato e le angosce del suo futuro, subentra la spazialità di un
ordine mitico che promette la serenità dell’inazione e l’immobilità di un
percorso ciclico, rassicurante perché sempre dogmaticamente uguale a se stesso.
[…] Abolita
la sintassi tradizionale, […] il testo ricorre a una sintassi spaziale che,
nell’esulare da modelli di riferimento esterni, dichiara la propria
autoreferenzialità, dando così espressione alla paura del tempo e alla più
completa sfiducia nella storia. Il testo, così come lo spirito dell’autore,
cerca pacificazione nella sicurezza di un modello, stabile e immutabile, che di
fatto trae il proprio fondamento dalla frana dello storicismo e dalle rovine
letterarie della civiltà». La struttura mitica può dunque dare forma,
ordine e significato al caos e all’anarchia della storia contemporanea. È un
caso esemplare di traduzione dell’ideologia dell’autore in un preciso stile che
prende il sopravvento su tutto: in questo senso si devono intendere le “geometrie
del disordine” del titolo.
Ovvio che l’attenzione di Calimani sia rivolta a The
Love Song of J. Alfred Prufrock, che poi love song non è (ma forse, «oltre
che il canto a cui egli non sa dar voce, il canto che egli non sa ispirare»),
«che
avvia una complessa strategia di modelli forali, digressivi, mitici, teatrali e
di distanziamento, attraverso i quali l’io ostenta la propria incertezza, in un
gioco che rivela disagio e volontà di fuga da sé e dalla realtà circostante»;
un testo che uccide l’azione ed è un’ironica negazione del percorso in avanti, e
in cui «lo
stile nega sempre più apertamente possibilità di accesso alla presenza umana». Ma
è la Waste Land a recitare ovviamente la parte del leone nella seconda
parte del volume: in essa perfino il mito di riferimento (i cavalieri della
Tavola Rotonda, la leggenda del Re Pescatore che rivitalizza la terra arida) è
deteriorato e svuotato di significato, visto lo svilimento generale dei valori
della nostra società, mentre il rapporto conflittuale tra fertilità (femminile)
e aridità (maschile), verticalità e caduta, addizione e sottrazione, è ottenuto
mediante il grande spettro di registri verbali che si scontrano tra loro
innestando l’ironia (lo stile basso che distrugge le figure mitiche, lo stile
cavalleresco che nobilita ironicamente realtà meschine). Il testo è composto di
frammenti, di frammenti di immagini, di spazio, di tempo, di frammenti di
frammenti («Con
questi frammenti ho puntellato le mie rovine»); la spazializzazione
applicata al tempo riguarda anche l’immagine del corpo, che viene a sua volta
frammentato (abbiamo piedi, abbiamo occhi, ma mai un corpo), e delle ossa
(sempre scaricate come rifiuti). Riguarda però anche il percorso di tutto il
poema lungo le strade di Londra verso la foce del Tamigi, in un gioco di
materializzazione e reificazione di persone che perdono la loro umanità e si
fanno semplice spazio. Spesso l’ambiente prende vita e acquista umanità per
compensare un’umanità che non c’è (il boudoir della Lady che diventa come la
reggia di Didone, mentre la Lady, Lil, viene giustapposta alla Filomela del
mito che è stata stuprata), in una retorica di umanizzazione/rivitalizzazione del
non umano e di una disumanizzazione/devitalizzazione dell’umano (l’uomo-taxi): «Al
mito, che oppone e sostituisce la natura animale a quella umana, corrisponde la
riproduzione artistica, che oppone e sostituisce la natura morta alla natura
viva».
Il testo eliotiano rinuncia a ogni principio di
consequenzialità logico-temporale: «la
realtà spaziale creata dalla giustapposizione dei tempi è la struttura più
propria di un testo che afferma la frammentazione come unico principio
strutturante e unificante». Tutto
questo fa sì che un frammento di testo non dia senso a un altro frammento di
testo, dal momento che ogni frammento rappresenta virtualmente il suo inizio e
la sua fine. Quello che resta è la complessità e la globalità del testo, sempre
aperto e mai concluso, che pone sempre maggiori domande e offre tante verità
quanti sono i suoi fruitori, chiedendo proprio ai suoi fruitori «di far violenza all’immortale fissità dell’arte per
continuare, malgrado essa, beffardamente, a vivere».
venerdì 6 dicembre 2019
Philip Roth - Il complotto contro l'America
I
romanzi di Philip Roth vertono tutti sul rapporto, complesso e conflittuale,
tra la cultura ebraica e la società americana, una doppia identità difficile da
accettare ma feconda dal punto di vista narrativo. Non fa eccezione questo Il complotto contro l’America,
ucronia che parte dalla tradizionale domanda “what if”: cosa sarebbe accaduto
se alle elezioni presidenziali del 1940 avesse vinto non Roosevelt ma il
simpatizzante fascista e antisemita Charles Lindbergh, l’eroe dell’aria, il
primo ad aver compiuto la trasvolata oceanica? Niente di nuovo, in fondo, basti
pensare a La svastica sul sole
di Philip K. Dick o Fatherland di
Robert Harris, che immaginano entrambi un futuro in cui i nazisti hanno vinto
la guerra. Qui il nuovo presidente, giocando sulla paura degli americani per
una nuova guerra, dichiara la neutralità del Paese e, di fatto, si allea a
Hitler. Non si tratta di un’ucronia fantascientifica “di genere”: Roth gioca
con quello che già sappiamo, mescolando realtà e finzione, paura e paranoia,
ricostruendo un fascismo americano fatto di personaggi e organizzazioni
politiche, reali e possibili. Soprattutto, mescola macrostoria, storia
personale e storia familiare: se negli altri romanzi Roth ha sempre un alter
ego, qui invece si chiama proprio Philip Roth, cioè mette se stesso nell’ucronia
e parla della sua infanzia (la collezione di francobolli che cominciano ad
avere la svastica) in una famiglia ebraica, oscillando tra il punto di vista
ingenuo di se stesso bambino che prende coscienza della propria diversità e quello dell’adulto che nel frattempo ha capito
tutto quello che è successo. L’antisemitismo viene raccontato nella sua
evoluzione e nel suo crescendo, dalle prime paure ai pogrom veri e propri,
passando per l’accettazione di compromessi scomodi (la visita di von Ribbentrop
alla Casa Bianca) e le deportazioni “morbide”, il cui esito non può che essere
uno solo: l’istituzione di una dittatura armata che, in base a una serie di
menzogne create ad arte, elimina i diritti civili e qualsiasi voce di
dissidenza, fino al congestionato finale in cui la macrostoria prende il
sopravvento per il precipitare della situazione e il ruolo eroico svolto
dal sindaco Fiorello LaGuardia. Potremmo dunque pensare di trovarci di fronte a
un ampio saggio travestito da romanzo, ma la grandezza di Roth sta nel
raccontare l’antisemitismo a partire da un punto di vista familiare, a partire
dalla gita a Washington con la perdita della prenotazione in albergo, con i
diversi esiti e la progressiva disgregazione della famiglia Roth (il cugino
Alvin si arruola con gli inglesi e perde una gamba, mentre il fratello Sandy si
lascia assorbire dalla cultura contadina americana e mangia maiale); oltre a
ragionare su lato oscuro di un’America che resta razzista e intollerante, capace di trovare una propria personale via al fascismo, Roth
contrappone una cultura ebraica perdente, quella democratica e rooseveltiana
della famiglia Roth, a quella vincente e compromessa con il potere incarnata
dal rabbino Bengelsdorf (marito della zia di Philip), che sostiene il nuovo
presidente e convince gli ebrei che va tutto bene. Ancora più interessante il
fatto che la maggiore opposizione a Lindbergh nel romanzo venga da un padre
provocatore e arrogante che, nonostante abbia ragione, passa sempre dalla parte
del torto. Una scrittura civile e identitaria, critica e problematica, capace
di interrogare e mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità (anche quelle del protagonista, che fa spedire il suo vicino di casa che non sopporta nel Kentucky causando indirettamente la morte della madre, nonostante lui gli abbia salvato la vita). In chiusura, una panoramica storica sui veri personaggi apparsi nel romanzo.
giovedì 5 dicembre 2019
Gilbert Keith Chesterton - San Francesco d'Assisi
Di G.K. Chesterton ho già tradotto anni fa San Tommaso d’Aquino, ma non ne ho
mai parlato nel timore di averlo capito poco. Il mio problema con Chesterton è
il suo stile provocatorio, la prosa contorta e la propensione alla divagazione
parlando d’altro. Non fa eccezione questo San Francesco d’Assisi
(riproposto da Fede & cultura e tradotto sempre dal sottoscritto), saggio
dedicato a un santo fondamentale nel cammino di conversione al cattolicesimo
dello stesso scrittore inglese ma soprattutto a un personaggio capace di
esercitare una strana attrattiva sull’immaginazione dei vittoriani. Scrive
proprio Chesterton nel saggio su San Tommaso: «C’è qualcosa nella storia di San
Francesco che rispondeva a tutte le più nascoste e umane qualità inglesi:
segreta tenerezza del cuore, poetica vaghezza della mente, amore del paesaggio
e degli animali. San Francesco è stato il solo cattolico medievale che, per i
propri meriti, è divenuto popolare in Inghilterra. La classe media ha trovato
il suo vero missionario nel tipo che, fra tutti, essa maggiormente disprezzava:
quello del mendicante italiano». Logico quindi che la figura del santo di
Assisi riveste una duplice importanza, sia per l’autore che per la sua società
di appartenenza.
Pur ripetendo che il suo lavoro è solo un’introduzione
priva di pretese di esaustività, Chesterton si fa cantore di un San Francesco
ispiratore dell’arte di Giotto, della poesia di Dante, della drammaturgia
moderna, ma soprattutto di un santo controcorrente e antimoderno, destinato a
una gloria eterna proprio perché non di moda: così l’autore inglese legge la
decisione di Francesco di esporsi alla derisione cittadina e di mortificarsi
per imitare Cristo, una persona reale, non un’idea. Allo stesso modo per il
santo la religione non era una teoria ma «qualcosa di più simile a una
storia d’amore», al punto da abbracciare una gioiosa follia e diventare uno
specchio di Cristo. Anche il suo amore per la natura non era da intendersi come
un panteismo sentimentale alla maniera romantica, ma solo un modo di amare il
Creatore e la sua grandezza (esattamente come la sua amicizia esclusivamente
spirituale con Santa Chiara). Comunque la si giri, non si può parlare di San
Francesco senza parlare di Dio, e non si può parlare di lui solo in chiave
razionale come hanno fatto molte (e pur valide) letture contemporanee.
Possiamo quindi perdonare a Chesterton le numerose pagine
di polemica nei confronti del paganesimo naturalista che per secoli ha negato
all’uomo la realtà ultraterrena e le cui conseguenze sono durate fino al
periodo che va dal XII al XIII secolo, quando cioè, «da frammenti di
feudalesimo, libertà e sopravvivenze del diritto romano» è nata la grande
civiltà del Medioevo, epoca di «riforme senza rivoluzioni», dopo la
purificazione dei secoli dell’espiazione cristiana. Da giornalista, Chesterton
si scaglia contro il modo di fare storia in maniera giornalistica, cioè senza «raccontare
la storia nella sua complessità»: per esempio, invita a considerare come le
continue guerre tra città che caratterizzavano quel tempo erano nulla se paragonate
agli scontri tra gli eserciti della contemporaneità, e che gli uomini del
Medioevo erano chiamati a morire per le loro case, i loro luoghi di culto e i
loro governanti e non «per gli echi di remote colonie riportati in anonimi
giornali». Le guerre del Medioevo non paralizzavano la civiltà, come prova il
fatto che quelle «bellicose città» hanno prodotto personaggi del calibro di
Dante, Michelangelo, Ariosto, Tiziano, Leonardo e Colombo; senza considerare
che «c’era più internazionalità nel mondo delle piccole repubbliche di allora
di quanta non ce ne sia nei grandi blocchi nazionali impenetrabili e omogenei
di oggi». Allo stesso modo, è importante spazzare via i pregiudizi che si hanno
sul Medioevo, con l’Inquisizione, le Crociate e tutto il resto, come siamo
portati a fare dalla leggenda nera diffusa dal protestantesimo.
È abbastanza chiaro che a Chesterton il paganesimo e
la sua mitologia trasformata in allegoria non stanno simpatici, e infatti
esalta l’immaginazione favolistica e infantile di San Francesco fatta «di pure
fantasie su fiori, animali ed esseri inanimati» che lo portò a creare una nuova
mitologia personale: i suoi Frate Sole e Sorella Allodola sono l’equivalente di
Fratel Coniglietto e Comare Volpe dei Racconti dello Zio Tom.
Il suo linguaggio ha reso più accessibile il divino all’uomo, ha attirato gli
uomini ed è stato capace di inviare i servi di Dio per le strade del mondo.
Chesterton insiste sulla sua immaginazione, il suo umorismo, la sua cortesia,
la sua generosità, la sua umiltà, la sua visione teatrale di tutte le cose, la
sua idea di martirio come fine di vita e mezzo per convertire il mondo, e
ricostruisce la vicenda umana di Francesco in tutti i suoi momenti salienti (la
partecipazione alla guerra, la prigionia, la malattia e la crisi, la
ricostruzione della chiesa di San Damiano, l’incontro con il papa, il viaggio
per incontrare il sultano, le divisioni nell’ordine francescano, le stimmate),
fino a una complessa analisi sulla veridicità dei suoi miracoli, sulla loro storicità e sulla loro
interpretazione.
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