martedì 31 dicembre 2019

Christelle Dabos - Fidanzati dell'inverno

Se pensate che il fantasy sia sempre uguale a se stesso e non abbia più niente da dire, Fidanzati dell’inverno della francese Christelle Dabos potrebbe fare per voi. Si tratta del primo capitolo di una trilogia, L’Attraversaspecchi, ambientato in un futuro prossimo venturo steampunk/Belle Époque in cui scienza e magia convivono e in cui, a seguito della frammentazione della Terra, l’umanità è molto diminuita e si è ridotta in clan, le arche, dove tutti gli appartenenti alla stessa famiglia condividono lo stesso potere, che è diverso per ogni clan: altrove le famiglie hanno il potere di infliggere colpi attraverso il sistema nervoso, di vedere le stesse cose o di conservare la memoria. La protagonista della storia, Ofelia, appartenente all’arca di Anima, viene promessa in sposa a un appartenente all’arca del Polo, Thorn, che si presenta subito come un nobile ombroso, sprezzante e altezzoso (nessuno dei due vuole questo matrimonio); ovviamente, si dovrà svelare anche lui, rispecchiando lo stereotipo del bello burbero e problematico. Trasferita a Città-cielo e inizialmente affidata alla zia di Thorn, Berenilde, donna capricciosa, narcisista e calcolatrice, che la nasconde sotto le sembianze di un domestico maschio, Ofelia scoprirà che in questo regno ci sono un’infinità di intrighi politici e tutti cercano di uccidersi a vicenda, e in più lei dovrà cercare di sopravvivere e di venire a capo del suo matrimonio. Il libro è ben scritto, ha una trama molto dinamica (anche se con qualche lungaggine di troppo) ed è a tutti gli effetti un romanzo di formazione con una protagonista adolescente (cosa che ne fa uno young adult) che ha un’evoluzione all’interno della trama: parte goffa, insicura e con poca personalità, ha gli occhiali (è miope), sternutisce sempre e si morsica le cuciture dei guanti, ma è curiosa e intraprendente. Ha due poteri, la capacità di percepire la memoria degli oggetti semplicemente toccandoli e quella di viaggiare attraverso gli specchi; questi due poteri non sono mai abusati ma sempre dosati nella giusta maniera, forse per essere ripresi nei successivi capitoli della saga quando la nostra Ofelia sarà cresciuta come personaggio e li padroneggerà in pieno. Gli altri personaggi sono abbastanza monodimensionali, ma quello che veramente convince è la costruzione del mondo, che rispecchia perfettamente una realtà in cui tutti mentono e indossano delle maschere: Città-cielo è un vero e proprio labirinto sospeso che si organizza in verticale (ci si muove con degli ascensori) con delle porte magiche che fanno sbucare in punti diversi e addirittura dei microclimi particolari. È la città delle illusioni che permettono lo stravolgimento degli spazi o in un infinito gioco di specchi (ma, paradossalmente, in questo mondo di inganni gli specchi rifiutano chi tenta di attraversarli interpretando un ruolo diverso dal proprio): Ofelia non si può fidare di niente e di nessuno, neanche di quello che vede. Inoltre, questo mondo magico ci viene mostrato un po’ per volta e non spiegato, cosa che aumenta l’immersività visto che il lettore scopre le cose insieme a Ofelia. Molto bella l’idea delle clessidre usate come “viaggi vacanza” per ricompensare i servitori e farli viaggiare attraverso delle vere e proprie illusioni.

lunedì 30 dicembre 2019

Stuart Turton - Le sette morti di Evelyn Hardcastle

«Nulla di meglio di una maschera per rivelare la vera natura di chi la porta»: proprio sul concetto di maschera ragiona questo Le sette morti di Evelyn Hardcastle, giallo con elementi mystery che mescola Edgare Wallace, Cluedo, Downton Abbey e Black Mirror e immerge il lettore in una storia molto originale e perfettamente congegnata. Tutto parte dal protagonista Aiden Bishop, che si sveglia in un bosco, non ha memoria di sé, crede di assistere a un omicidio, vede una ragazza che scappa, cerca una via di fuga e approda a una casa enorme e abbandonata a se stessa. La tenuta è quella di Blackheat, e nella casa sono radunati numerosi personaggi, invitati a una festa in maschera in onore del ritorno a casa della figlia degli Hardcastle, Evelyn, dopo essersi trasferita a Parigi. Curiosamente, 19 anni prima, nello stesso giorno si è tenuta la stessa festa, durante la quale è morto il figlio minore degli Hardcastle, Thomas, fatto che ha fatto deflagrare le relazioni all’interno della famiglia e ha segnato in particolar modo Evelyn. A poco a poco Aiden comincia a capire di essere finito in un gioco più grande di lui, fatto di intrighi e scoperte: scopre di non poter fuggire da Blackheath e di avere otto giorni per scoprire il segreto della morte di Evelyn, che ogni sera alle undici muore per un colpo di pistola al ventre cadendo nel laghetto della tenuta. Se all’inizio scopre di essere nel corpo di un medico, Aiden ogni giorno si sposta in un corpo diverso appartenente agli ospiti della casa, vivendo dunque in prima persona gli accadimenti dello stesso giorno fino a quando non sprofonda nel sonno: questi personaggi non sono semplici burattini che lui può muovere a piacimento, ma veri e propri personaggi mossi da emozioni, pulsioni e traumi sempre più difficili da gestire, che condizionano Aiden secondo il loro modo di pensare, la loro personalità e i loro difetti fisici. Il campionario umano è molto ben assortito: ci sono il banchiere, l’agente di polizia, il giocatore d’azzardo, il medico spacciatore, lo stupratore seriale. Arbitro di questo gioco è un personaggio parecchio inquietante, vestito da medico della peste, che non svela il proprio volto; ad affiancare la sua presenza costante ci sono la misteriosa domestica Anna, il cui nome non compare né tra gli invitati né nel personale di servizio, e il lacchè, infallibile cecchino che minaccia di uccidere spietatamente ognuna delle incarnazioni del protagonista. Ovviamente, la narrazione in prima persona permette una totale identificazione con il protagonista da parte del lettore, che ne condivide lo smarrimento, e la questione delle varie incarnazioni è perfetta per rivivere la giornata dai diversi punti di vista e ricostruire il background e le motivazioni di ognuno, in una complessa rete di ricatti, verità e menzogne (e ne vengono dette molte). All’inizio non si capisce nulla ma, stando al gioco, si viene a capo di un vero e proprio mosaico di dettagli e indizi disseminati lungo il testo, cosa che spinge a una rilettura per poter apprezzare molti particolari che, soprattutto all’inizio, si sono inevitabilmente persi. Certo, qualcuno potrebbe avere problemi a non accettare la natura irrazionale dell’indagine (anche se la ricostruzione dell’enigma è del tutto razionale), ma Stuart Turton è capace di utilizzare il giallo per parlare di colpa, peccato, redenzione e perdono. Un romanzo da non sottovalutare.

lunedì 23 dicembre 2019

Friedrich Reck-Malleczewen - Il re degli anabattisti

Nuova edizione Fede & Cultura per quello che è a suo modo un classico, Il re degli anabattisti di Friedrich Reck-Malleczewen, aristocratico prussiano cattolico morto nel campo di concentramento di Dachau, che racconta una vicenda che costituisce parte cospicua anche del fortunato romanzo Q di Luther Blissett: la presa di Münster da parte degli anabattisti nel 1534-35 e il loro tentativo di rinnovamento (o sovvertimento) sociale prima della capitolazione davanti alle truppe del vescovo-principe von Waldeck. Da un lato Münster, città della Vestfalia caratterizzata fin dall’inizio della Riforma da un protestantesimo combattivo e lontano dai compromessi di Lutero; dall’altro l’anabattismo, che non solo predica la necessità di un nuovo battesimo da adulti ma che rappresenta un’opposizione interna al protestantesimo di Lutero (i contadini di Thomas Müntzer avevano cercato di opporsi al sistema feudale e per questo erano stati ferocemente repressi dai principi). Come sempre accade in questo caso, partendo dalla volontà di tornare alla purezza della religione cristiana e da pubbliche dichiarazioni di “reciproca tolleranza” e di “libertà di religione”, costoro tentarono di tornare allo stato edenico attraverso un rinnovamento sociale basato sulle Scritture dell’Antico Testamento: suddivisero la città in parti, cambiarono nome alle strade, proibirono la proprietà privata ed elessero un profeta, Jan Matthys, alla cui morte succedette Jan Bockelson di Leida, uno capace di ammazzare dichiarando: «La porta della misericordia è sbarrata». In breve Bockelson divenne il re di Münster, la nuova Sion in terra, ormai ricettacolo di tutti i criminali dell’impero e contraddistinta dal sangue e dalla follia: una comunione dei beni che diventa comunitarismo se non proprio comunismo («Un cristiano non deve possedere denaro e il suo argento o il suo oro appartengono all’uno come all’altro»), lussuria sfrenata, abusi di ogni tipo, chiese devastate e imbrattate, conventi saccheggiati, poligamia obbligatoria (pena la morte se le donne rifiutavano), isteria collettiva, propaganda, eliminazione delle “bocche inutili”, esecuzioni sommarie e quotidiane per punire il peccato sulla base di un semplice sospetto. Il tutto, ovviamente, condito e legittimato da citazioni bibliche e presunti comandi ricevuti direttamente da Dio: in un’occasione si pensa addirittura di uccidere il vescovo von Waldeck come Oloferne inviando nel suo accampamento una specie di Giuditta con una camicia intrisa di veleno. La cosa più grottesca è proprio il ruolo di Bockelson, autentico “re giullare”, e del suo sgherro Knipperdolling dai «tratti paranoici del santone», cui si deve la decisione (dovuta a una visione) di abbattere i campanili, simbolo dell’illecita superiorità della Chiesa cattolica, affinché tutto ciò che era elevato fosse umiliato. Reck-Malleczewen ricostruisce questa pagina nerissima della Riforma protestante e la legge in chiave controrivoluzionaria, ovvero come il primo grande esperimento di trasformazione violenta della società compiuto in Occidente, direttamente connessa all’esperienza della Germania nazista, di cui lo stesso Reck-Malleczewen era strenuo oppositore. In questo senso si capiscono le sue parole quando parla di «una diabolica intossicazione tedesca, un evento nel corso del quale dagli antri segreti di quest’anima ambigua evasero tutti i diavoli, gli spiriti e i satanassi che fino ad allora si era osato fissare soltanto sulle devote tavole gotiche». L’autore affronta l’episodio di Münster in chiave di «follia collettiva» ed «emblematica psicosi», interrogandosi come abbia potuto verificarsi «proprio in questo angolo della Germania settentrionale, tra una borghesia apparentemente compassata». Quindi individua la chiave di tutto nel Rinascimento, periodo che «ha comportato per la Germania l’introduzione violenta di uno stile di vita straniero» e che ha segnato lo slittamento da una società incentrata su Dio a una basata sul denaro, corrispondente alla rottura dell’unità dei cristiani e dell’impero: il crollo delle «idee più antiche e sacre» ha lasciato spazio al più sfrenato individualismo, spingendo l’uomo nordico «ad accettare l’idea che un capitale che genera interessi fosse un elemento chiave nel corso della storia». In questo modo l’etica svuotata di senso di matrice calvinista diventa virtù fine a se stessa, per arrivare fino a Robespierre «che alla fine, paradossalmente, distrugge la stessa vita per amore della virtù». Addirittura, secondo Reck-Malleczewen, Bockelson nemmeno ci credeva a quel che predicava ed era pronto a tradire la causa «se questo gli avesse consentito di ottenere la pace con l’impero e una vantaggiosa uscita di scena» e soprattutto avesse avuto alle spalle qualche potenza più forte, esattamente come Napoleone perseguitò i giacobini e richiamò l’antica nobiltà emigrata. Certo, spesso l’estrazione aristocratica dell’autore («la canaglia detesterà sempre ciò che non può entrare nel suo cranio scimmiesco»), specie quando si scaglia contro l’affermazione dell’uomo-massa o denuncia della rottura dell’unità dei cristiani e dell’impero in nome di «quel delirio avvelenato» che è l’«uguaglianza di tutti gli uomini», principio che darà origine agli enciclopedisti dell’Illuminismo, alla Rivoluzione francese e a quella bolscevica («Buona notte, amato mondo antico e religioso; buona notte, anti-co Sacro Impero; buona notte, mondo dei cercatori di Dio e dei costruttori di cattedrali… buona notte, buona notte»). Dal punto di vista stilistico, invece, siamo di fronte a un testo modernissimo, che mescola discorso diretto e indiretto, prima e terza persona, frasi profetiche e visioni, scene di violenza e prove documentali; addirittura si interroga su come evolveranno le cose e si rivolge agli stessi rivoltosi, rammentando loro le imprese compiute. In questo modo catapulta il lettore in uno scenario quasi pulp: basti la narrazione in prima persona della fame a Münster, con la gente costretta a mangiare le rilegature in pelle dei libri, gli stivali e le candele, e a cuocere lo sterco di vacca e le proprie feci; o la descrizione della messa orgiastica con il re, le sue regali mogli e l’intera comunità che presentano all’altare offerte sacrificali consistenti in ratti morti, teste putrefatte di gatti e zoccoli di cavalli uccisi. Niente di più distante da un saggio classico e accademico.

sabato 14 dicembre 2019

Tom Gauld - Mooncop

Anche la solitudine può essere poetica, come prova Mooncop, deliziosa graphic novel scritta e disegnata da Tom Gauld in bianco, nero, blu e azzurro che immagina una luna colonizzata e abbandonata dall’uomo. Il satellite è ormai semideserto, in un vero e proprio fallimento dell’immaginario fantascientifico, come a suggerire la negazione di un futuro che (per noi) non è ancora arrivato; tutti tornano sulla Terra e vengono sostituiti da automi intelligenti, quasi una metafora dei piccoli paesini di provincia che si svuotano e scompaiono. È un volume molto malinconico, fatto di poche cose, sfumature e piccole disavventure che fanno sorridere e sognare: il protagonista è un poliziotto che si aggira per la superficie lunare deserta al fine di far rispettare la legge: la sua ronda consiste in una ragazzina da riportare a casa, una signora anziana che è stata tra le prime a trasferirsi sulla luna e che ora è alla ricerca del cane, l’automa senile di Neil Armstrong che vaga attorno al Museo locale. Tutto è pervaso di un’ironia sottile e gentile, basti pensare al poliziotto che ha il 100% di crimini risolti (0 su 0) e all’inserviente del negozio di ciambelle eletta impiegata del mese. Il tratto è essenziale, gli elementi sono ridotti all’osso: tutti (compreso il cane e il bar) sono dotati di casco, e la Terra assume valenza poetica prendendo il posto della luna nel nostro immaginario celeste.

martedì 10 dicembre 2019

Franco Cardini - I Templari

Grande medievista, storico delle crociate ed esperto di rapporti tra cristianesimo e islam, Franco Cardini è uno dei più accreditati studiosi che possono spiegare chi e cosa fossero i cavalieri Templari, troppe volte dipinti come soggetti ambigui, apostoli di una fede segreta attorno a cui si è costruito un mito che li vorrebbe ancora vivi e in possesso di segreti talmente sconvolgenti da cambiare, se rivelati, la storia stessa del mondo (basti pensare al successo di bestseller come Il Codice Da Vinci o, molto più semplicemente, a programmi come Voyager). In questo agile libretto Cardini spazza via ogni ambiguità: nati dopo la conquista di Gerusalemme della Prima Crociata (1099) con il nome di pauperes milites Christi, i Templari furono un ordine monastico-cavalleresco che seppe unire i tradizionali voti di povertà, castità e obbedienza all’uso delle armi, andando a costituire quella che in gergo canonico si chiama “milizia”. Rappresentavano un’evoluzione del semplice concetto di miles sancti Petri coniato da papa Gregorio VII, cioè non più un monachesimo che fugge il mondo e abbraccia il “martirio incruento” della penitenza, bensì “il restare nel mondo per agire in esso usando gli strumenti mondani per un fine che tale non era considerato”. Anche se in breve si affermarono come una potenza economica di prim’ordine, il compito principale dei Templari era quello di combattere e proteggere i pellegrini sulle vie che portavano a Gerusalemme, Santiago de Compostela e altri punti focali della cristianità. Diedero prova di sagacia militare e diplomatica e si mescolarono alle vicende politiche della Terrasanta. Con la cacciata dei cristiani da quest’ultima, i Templari persero il loro ruolo storico e caddero in disgrazia: la loro avventura terminò quando si attirarono le invidie del re di Francia Filippo IV il Bello, desideroso di impossessarsi del loro patrimonio e di ridurre, allo stesso tempo, il potere della Chiesa. Egli li fece arrestare e confessare svariate eresie con tortura: non pago, fece anche bruciare l’ultimo gran maestro, Giacomo di Molay, attirando, secondo la leggenda, la maledizione di questi su di sé e su tutta la sua stirpe per intere generazioni. Era il 1312, e l’avventura dei Templari finì. I membri dell’Ordine furono lasciti liberi, alcuni tornarono allo stato laicale sposandosi, altri scelsero di entrare nell’ordine gemello di San Giovanni (gli Ospitalieri) e negli ordini monastici o mendicanti, altri si dedicarono invece a forme di libera attività (un templare finì corsaro, un altro divenne addirittura capo della guardia di un emiro di Tunisi). Da storico, Cardini sottolinea molto decisamente che qui finisce la vicenda dal punto di vista storico: laddove ci sia stata una sopravvivenza occulta dell’Ordine è bene chiarire che si tratta di effetti del fenomeno conosciuto come “templarismo”, impostosi tra Sei e Settecento e legato a un uso distorto della storia, specie da quando Andrew Michael Ramsay, uno scozzese fedele alla dinastia Stuart esule in Francia, si inventò di sana pianta una diaspora dei Templari in tutta Europa e una loro connessione con la massoneria e il segreto del Graal. Da questo momento in molti hanno contribuito ad aggiungere equivoco a equivoco, falsificazione a falsificazione, confusione a confusione, fra teorie cospirazioniste del complotto ed elucubrazioni sul governo universale dei Superiori Sconosciuti, dalla Santa Vehme al Thal di Zacharias Werner, dalla Sinarchia alla Loggia Luminosa del Vril. Si è venuta così a creare una paccottiglia fantaculturale che fa tendenza e trova costantemente un grosso pubblico, fino a raggiungere un livello massmediale che sfrutta la passione per l’esoterismo di persone che preferiscono raccontarsi delle mediocri fiabe piuttosto che affrontare la lettura di un buon libro.

Dario Calimani - T.S. Eliot. Le geometrie del disordine

Da quando, ormai quasi vent’anni fa, l’ho portato all’esame di Letteratura inglese all’università, T.S. Eliot mi è rimasto dentro. Ogni tanto riaffiorano in me versi della Waste Land come “Madame Sosostris, la famosa chiaroveggente, aveva un brutto raffreddore”, “Temi la morte per acqua!”, “Giag giag a sozze orecchie”, “In the room the women come and go / Talking of Michelangelo” e “You! hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère!”. Quest’estate a Londra mi sono pure imbattuto nella sua casa, a High Street Kensington, e mi è venuta voglia di riaffrontarlo, riprendendo in mano il libro di testo del mio professore Dario Calimani, ahimè fuori catalogo, che presenta Eliot come un modernista pur «con la delusione e il rimpianto del classicista a cui sono venuti a mancare i valori su cui ha fondato la sua esistenza», e spiega quindi come per lui il Modernismo «è una rivoluzione formale applicata a un contenuto percepito come degradazione e involuzione». Chiariamo subito che si tratta di un testo universitario, quindi abbastanza complesso, documentato e pieno di note bibliografiche e riferimenti testuali, ma è una grandissima lettura. Vista l’ideologia reazionaria, se non dichiaratamente fascista, e l’antisemitismo di questo genio del Novecento, Calimani parte dal dilemma posto dalla poesia di Eliot al critico, se cioè si debba giudicare la sua poesia dal messaggio oppure indipendentemente da esso, e la risposta non può che essere una riflessione critica sul conflitto di questi due ambiti, con un continuo riesame di sé e dei propri valori. Chiaro che questo esercizio si concentri soprattutto sulla Waste Land, il capolavoro di Eliot, summa della sua poetica fatta di citazioni e allusioni testuali, da Dante a Shakespeare a Milton, al punto che ogni verso è o contiene la citazione da opere precedenti; una poetica che si basa sulla sola autorità del linguaggio e gioca sempre su contrasti e ossimori che si negano vicendevolmente e creano un preciso effetto poetico spiazzante, facendo volutamente smarrire il lettore. Il testo eliotiano rompe il rapporto classico tra soggetto e l’oggetto della percezione, quindi fa perdere al soggetto la chiave di decodifica della realtà e all’autore il rapporto con il proprio testo; allo stesso tempo il lettore dipende da un testo che «non ripone alcuna fiducia in lui e nella razionalità della sua natura umana».

Eliot «delinea una visione spaziale della letteratura per la quale le opere del passato e quelle del presente costituiscono un ordine simultaneo nella coscienza dell’artista che scrive, un ordine che esula dalla tradizione temporale». Nella Waste Land si assiste a una moltiplicazione dei tempi (presente, passato, futuro, ma anche tempo mitico), tutti schiacciati per giustapposizione (tecnica della sincronicità), con la conseguente scomparsa del tempo e la sua sostituzione con lo spazio (già anticipata dalla vita misurata in cucchiaini da caffè di Prufrock): il tempo viene spazializzato e fatto a pezzi, spesso incorniciato pittoricamente e incastonato con una finzione nell’altra, espediente che sembra corrispondere alla tecnica di costruzione narrativa ma che in realtà serve solo ad annullare l’orizzontalità temporale e le barriere verticali che separano storia, mito e finzione letteraria. Anche tutte le immagini forti e ricorrenti della Waste Land sono poste in giustapposizione tra loro: la profezia, spesso mancata (l’indovino Tiresia, la chiaroveggente Madame Sosostris, la Sibilla decrepita prigioniera in un’ampolla), la fenicità (Phlebas il fenicio, Didone, la Cartagine di Agostino, le guerre puniche), l’amore tradito, la metamorfosi, la morte per acqua. La forma abbandona le strutture tradizionali e diventa metafora del decadimento spirituale e sociopolitico: «Con la sua forma chiusa, il testo si autolegittima ironicamente e, insieme, si fissa in un sistema spaziale che, annullato ogni collegamento sequenziale e deterministico, nega ogni valore all’esperienza dell’uomo nella storia e ogni senso alla storia stessa. Al tempo della storia, con le irreparabili tragedie del suo passato e le angosce del suo futuro, subentra la spazialità di un ordine mitico che promette la serenità dell’inazione e l’immobilità di un percorso ciclico, rassicurante perché sempre dogmaticamente uguale a se stesso. […] Abolita la sintassi tradizionale, […] il testo ricorre a una sintassi spaziale che, nell’esulare da modelli di riferimento esterni, dichiara la propria autoreferenzialità, dando così espressione alla paura del tempo e alla più completa sfiducia nella storia. Il testo, così come lo spirito dell’autore, cerca pacificazione nella sicurezza di un modello, stabile e immutabile, che di fatto trae il proprio fondamento dalla frana dello storicismo e dalle rovine letterarie della civiltà». La struttura mitica può dunque dare forma, ordine e significato al caos e all’anarchia della storia contemporanea. È un caso esemplare di traduzione dell’ideologia dell’autore in un preciso stile che prende il sopravvento su tutto: in questo senso si devono intendere le “geometrie del disordine” del titolo.

Ovvio che l’attenzione di Calimani sia rivolta a The Love Song of J. Alfred Prufrock, che poi love song non è (ma forse, «oltre che il canto a cui egli non sa dar voce, il canto che egli non sa ispirare»), «che avvia una complessa strategia di modelli forali, digressivi, mitici, teatrali e di distanziamento, attraverso i quali l’io ostenta la propria incertezza, in un gioco che rivela disagio e volontà di fuga da sé e dalla realtà circostante»; un testo che uccide l’azione ed è un’ironica negazione del percorso in avanti, e in cui «lo stile nega sempre più apertamente possibilità di accesso alla presenza umana». Ma è la Waste Land a recitare ovviamente la parte del leone nella seconda parte del volume: in essa perfino il mito di riferimento (i cavalieri della Tavola Rotonda, la leggenda del Re Pescatore che rivitalizza la terra arida) è deteriorato e svuotato di significato, visto lo svilimento generale dei valori della nostra società, mentre il rapporto conflittuale tra fertilità (femminile) e aridità (maschile), verticalità e caduta, addizione e sottrazione, è ottenuto mediante il grande spettro di registri verbali che si scontrano tra loro innestando l’ironia (lo stile basso che distrugge le figure mitiche, lo stile cavalleresco che nobilita ironicamente realtà meschine). Il testo è composto di frammenti, di frammenti di immagini, di spazio, di tempo, di frammenti di frammenti («Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine»); la spazializzazione applicata al tempo riguarda anche l’immagine del corpo, che viene a sua volta frammentato (abbiamo piedi, abbiamo occhi, ma mai un corpo), e delle ossa (sempre scaricate come rifiuti). Riguarda però anche il percorso di tutto il poema lungo le strade di Londra verso la foce del Tamigi, in un gioco di materializzazione e reificazione di persone che perdono la loro umanità e si fanno semplice spazio. Spesso l’ambiente prende vita e acquista umanità per compensare un’umanità che non c’è (il boudoir della Lady che diventa come la reggia di Didone, mentre la Lady, Lil, viene giustapposta alla Filomela del mito che è stata stuprata), in una retorica di umanizzazione/rivitalizzazione del non umano e di una disumanizzazione/devitalizzazione dell’umano (l’uomo-taxi): «Al mito, che oppone e sostituisce la natura animale a quella umana, corrisponde la riproduzione artistica, che oppone e sostituisce la natura morta alla natura viva».

Il testo eliotiano rinuncia a ogni principio di consequenzialità logico-temporale: «la realtà spaziale creata dalla giustapposizione dei tempi è la struttura più propria di un testo che afferma la frammentazione come unico principio strutturante e unificante». Tutto questo fa sì che un frammento di testo non dia senso a un altro frammento di testo, dal momento che ogni frammento rappresenta virtualmente il suo inizio e la sua fine. Quello che resta è la complessità e la globalità del testo, sempre aperto e mai concluso, che pone sempre maggiori domande e offre tante verità quanti sono i suoi fruitori, chiedendo proprio ai suoi fruitori «di far violenza all’immortale fissità dell’arte per continuare, malgrado essa, beffardamente, a vivere».

venerdì 6 dicembre 2019

Philip Roth - Il complotto contro l'America

I romanzi di Philip Roth vertono tutti sul rapporto, complesso e conflittuale, tra la cultura ebraica e la società americana, una doppia identità difficile da accettare ma feconda dal punto di vista narrativo. Non fa eccezione questo Il complotto contro l’America, ucronia che parte dalla tradizionale domanda “what if”: cosa sarebbe accaduto se alle elezioni presidenziali del 1940 avesse vinto non Roosevelt ma il simpatizzante fascista e antisemita Charles Lindbergh, l’eroe dell’aria, il primo ad aver compiuto la trasvolata oceanica? Niente di nuovo, in fondo, basti pensare a La svastica sul sole di Philip K. Dick o Fatherland di Robert Harris, che immaginano entrambi un futuro in cui i nazisti hanno vinto la guerra. Qui il nuovo presidente, giocando sulla paura degli americani per una nuova guerra, dichiara la neutralità del Paese e, di fatto, si allea a Hitler. Non si tratta di un’ucronia fantascientifica “di genere”: Roth gioca con quello che già sappiamo, mescolando realtà e finzione, paura e paranoia, ricostruendo un fascismo americano fatto di personaggi e organizzazioni politiche, reali e possibili. Soprattutto, mescola macrostoria, storia personale e storia familiare: se negli altri romanzi Roth ha sempre un alter ego, qui invece si chiama proprio Philip Roth, cioè mette se stesso nell’ucronia e parla della sua infanzia (la collezione di francobolli che cominciano ad avere la svastica) in una famiglia ebraica, oscillando tra il punto di vista ingenuo di se stesso bambino che prende coscienza della propria diversità e quello dell’adulto che nel frattempo ha capito tutto quello che è successo. L’antisemitismo viene raccontato nella sua evoluzione e nel suo crescendo, dalle prime paure ai pogrom veri e propri, passando per l’accettazione di compromessi scomodi (la visita di von Ribbentrop alla Casa Bianca) e le deportazioni “morbide”, il cui esito non può che essere uno solo: l’istituzione di una dittatura armata che, in base a una serie di menzogne create ad arte, elimina i diritti civili e qualsiasi voce di dissidenza, fino al congestionato finale in cui la macrostoria prende il sopravvento per il precipitare della situazione e il ruolo eroico svolto dal sindaco Fiorello LaGuardia. Potremmo dunque pensare di trovarci di fronte a un ampio saggio travestito da romanzo, ma la grandezza di Roth sta nel raccontare l’antisemitismo a partire da un punto di vista familiare, a partire dalla gita a Washington con la perdita della prenotazione in albergo, con i diversi esiti e la progressiva disgregazione della famiglia Roth (il cugino Alvin si arruola con gli inglesi e perde una gamba, mentre il fratello Sandy si lascia assorbire dalla cultura contadina americana e mangia maiale); oltre a ragionare su lato oscuro di un’America che resta razzista e intollerante, capace di trovare una propria personale via al fascismo, Roth contrappone una cultura ebraica perdente, quella democratica e rooseveltiana della famiglia Roth, a quella vincente e compromessa con il potere incarnata dal rabbino Bengelsdorf (marito della zia di Philip), che sostiene il nuovo presidente e convince gli ebrei che va tutto bene. Ancora più interessante il fatto che la maggiore opposizione a Lindbergh nel romanzo venga da un padre provocatore e arrogante che, nonostante abbia ragione, passa sempre dalla parte del torto. Una scrittura civile e identitaria, critica e problematica, capace di interrogare e mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità (anche quelle del protagonista, che fa spedire il suo vicino di casa che non sopporta nel Kentucky causando indirettamente la morte della madre, nonostante lui gli abbia salvato la vita). In chiusura, una panoramica storica sui veri personaggi apparsi nel romanzo. 

giovedì 5 dicembre 2019

Gilbert Keith Chesterton - San Francesco d'Assisi

Di G.K. Chesterton ho già tradotto anni fa San Tommaso d’Aquino, ma non ne ho mai parlato nel timore di averlo capito poco. Il mio problema con Chesterton è il suo stile provocatorio, la prosa contorta e la propensione alla divagazione parlando d’altro. Non fa eccezione questo San Francesco d’Assisi (riproposto da Fede & cultura e tradotto sempre dal sottoscritto), saggio dedicato a un santo fondamentale nel cammino di conversione al cattolicesimo dello stesso scrittore inglese ma soprattutto a un personaggio capace di esercitare una strana attrattiva sull’immaginazione dei vittoriani. Scrive proprio Chesterton nel saggio su San Tommaso: «C’è qualcosa nella storia di San Francesco che rispondeva a tutte le più nascoste e umane qualità inglesi: segreta tenerezza del cuore, poetica vaghezza della mente, amore del paesaggio e degli animali. San Francesco è stato il solo cattolico medievale che, per i propri meriti, è divenuto popolare in Inghilterra. La classe media ha trovato il suo vero missionario nel tipo che, fra tutti, essa maggiormente disprezzava: quello del mendicante italiano». Logico quindi che la figura del santo di Assisi riveste una duplice importanza, sia per l’autore che per la sua società di appartenenza.

Pur ripetendo che il suo lavoro è solo un’introduzione priva di pretese di esaustività, Chesterton si fa cantore di un San Francesco ispiratore dell’arte di Giotto, della poesia di Dante, della drammaturgia moderna, ma soprattutto di un santo controcorrente e antimoderno, destinato a una gloria eterna proprio perché non di moda: così l’autore inglese legge la decisione di Francesco di esporsi alla derisione cittadina e di mortificarsi per imitare Cristo, una persona reale, non un’idea. Allo stesso modo per il santo la religione non era una teoria ma «qualcosa di più simile a una storia d’amore», al punto da abbracciare una gioiosa follia e diventare uno specchio di Cristo. Anche il suo amore per la natura non era da intendersi come un panteismo sentimentale alla maniera romantica, ma solo un modo di amare il Creatore e la sua grandezza (esattamente come la sua amicizia esclusivamente spirituale con Santa Chiara). Comunque la si giri, non si può parlare di San Francesco senza parlare di Dio, e non si può parlare di lui solo in chiave razionale come hanno fatto molte (e pur valide) letture contemporanee.

Possiamo quindi perdonare a Chesterton le numerose pagine di polemica nei confronti del paganesimo naturalista che per secoli ha negato all’uomo la realtà ultraterrena e le cui conseguenze sono durate fino al periodo che va dal XII al XIII secolo, quando cioè, «da frammenti di feudalesimo, libertà e sopravvivenze del diritto romano» è nata la grande civiltà del Medioevo, epoca di «riforme senza rivoluzioni», dopo la purificazione dei secoli dell’espiazione cristiana. Da giornalista, Chesterton si scaglia contro il modo di fare storia in maniera giornalistica, cioè senza «raccontare la storia nella sua complessità»: per esempio, invita a considerare come le continue guerre tra città che caratterizzavano quel tempo erano nulla se paragonate agli scontri tra gli eserciti della contemporaneità, e che gli uomini del Medioevo erano chiamati a morire per le loro case, i loro luoghi di culto e i loro governanti e non «per gli echi di remote colonie riportati in anonimi giornali». Le guerre del Medioevo non paralizzavano la civiltà, come prova il fatto che quelle «bellicose città» hanno prodotto personaggi del calibro di Dante, Michelangelo, Ariosto, Tiziano, Leonardo e Colombo; senza considerare che «c’era più internazionalità nel mondo delle piccole repubbliche di allora di quanta non ce ne sia nei grandi blocchi nazionali impenetrabili e omogenei di oggi». Allo stesso modo, è importante spazzare via i pregiudizi che si hanno sul Medioevo, con l’Inquisizione, le Crociate e tutto il resto, come siamo portati a fare dalla leggenda nera diffusa dal protestantesimo.

È abbastanza chiaro che a Chesterton il paganesimo e la sua mitologia trasformata in allegoria non stanno simpatici, e infatti esalta l’immaginazione favolistica e infantile di San Francesco fatta «di pure fantasie su fiori, animali ed esseri inanimati» che lo portò a creare una nuova mitologia personale: i suoi Frate Sole e Sorella Allodola sono l’equivalente di Fratel Coniglietto e Comare Volpe dei Racconti dello Zio Tom. Il suo linguaggio ha reso più accessibile il divino all’uomo, ha attirato gli uomini ed è stato capace di inviare i servi di Dio per le strade del mondo. Chesterton insiste sulla sua immaginazione, il suo umorismo, la sua cortesia, la sua generosità, la sua umiltà, la sua visione teatrale di tutte le cose, la sua idea di martirio come fine di vita e mezzo per convertire il mondo, e ricostruisce la vicenda umana di Francesco in tutti i suoi momenti salienti (la partecipazione alla guerra, la prigionia, la malattia e la crisi, la ricostruzione della chiesa di San Damiano, l’incontro con il papa, il viaggio per incontrare il sultano, le divisioni nell’ordine francescano, le stimmate), fino a una complessa analisi sulla veridicità dei suoi miracoli, sulla loro storicità e sulla loro interpretazione.