martedì 18 febbraio 2020

Antonio Caprarica - La regina imperatrice

Prendi in mano La regina imperatrice di Antonio Caprarica e, con una copertina del genere, hai l’impressione di trovarti davanti a un romanzo d’amore stile Harmony a sfondo storico. Il sottotitolo Intrighi, delitti, passioni alla Corte di Victoria fa il resto. Niente di più errato: si tratta del più classico caso di copertina fuorviante che cerca di proporsi a un pubblico che probabilmente non apprezzerà. Infatti l’ultima opera dell’ex inviato Rai da Londra è un saggio storico camuffato da romanzo che mette in scena e fa interagire personaggi esistenti cucendo loro addosso impulsi, motivazioni e passioni, a volte inventando ma più spesso basandosi su un lavoro di ricerca documentale. Caprarica è sempre interessato a dimostrare di quanto sia complicata la vita dei reali e indugia sulla deboscia dell’erede al trono Bertie (il futuro Edoardo VII); oltretutto torna sul materiale già raccontato in libri precedenti (Il romanzo dei Windsor, Tanto sesso, siamo inglesi! e Royal Baby) e cerca di consegnarci l’affresco di un’età, quella vittoriana, che rappresenta il culmine della potenza britannica ma che è ancora un coacervo di contraddizioni: basti pensare che Londra, la capitale dell’impero, era popolata da un esercito di miserabili (70-80.000 prostitute tra lo Strand e Haymarket, secondo i calcoli di uno dei primi sociologi inglesi, Henry Mayhew, bambine comprese), e che la società era contraddistinta da un pesante antisemitismo (il miliardario ebreo Rotschild si vide rifiutare la nomina a Pari del Regno). A dominare su tutto c’è ovviamente Vittoria, regina per 63 anni e considerata la “nonna d’Europa” (nove figli e una quantità infinita di nipoti e pronipoti), curiosamente molto meno “vittoriana” dell’età a cui ha dato il nome: una donna passionale, capace di scegliersi un marito contro il parere della corte e di non farsi guidare da nessuno, in un’epoca (apparentemente) sessuofoba e (sicuramente) maschilista nella quale le donne venivano considerate poco più che uno strumento sessuale e che si vedevano riconosciuti gli stessi diritti dei. Anzi, Vittoria era molto moderna nel modo di affrontare i maschi: trattava da pari a pari con i primi ministri (il detestato Gladstone, l’amato Disraeli) e non si faceva mettere in soggezione da nessuno. Nel periodo preso in esame, dal 1870 al 1877, la troviamo però devastata dalla perdita del marito, l’amato Albert, a soli 42 anni: decide di scomparire dalla vita pubblica trovando conforto a Balmoral insieme al guardiacaccia John Brown e questo crea un enorme problema, come fa notare Gladstone (la regina è scomparsa e il regno è screditato per via del comportamento debosciato dell’erede al trono). Nel frattempo, il Paese è attraversato da fremiti repubblicani e socialisti (la Comune di Parigi è uno spettro sempre ben presente), soprattutto per la difficile situazione sociale. Ovviamente, esattamente come l’età che da lei prende il nome, anche Vittoria è un personaggio caratterizzato da molte ombre (e forse questo è l’aspetto più convincente del romanzo), come la poca attenzione per le riforme sociali al di là della pietà individuale e il paternalismo ma contemporaneamente il grande interesse per il trattamento degli animali (pretese che il Parlamento facesse una legge per limitare l’utilizzo come cavie nei laboratori). Era però anche una sovrana aggiornata e intraprendente: fu infatti la prima a sottoporsi all’uso dell’anestetico nel parto.

giovedì 13 febbraio 2020

Giulia Fornasier - Accetto la sfida

Di norma non parlo mai di libri nuovi sui quali ho lavorato, ma per questo faccio uno strappo alla regola, visto quanto ci tengo e quanto tempo ci ho dedicato, e non solo perché compaio nei ringraziamenti: Accetto la sfida (sottotitolo Fatti e misfatti di una donna in trincea tra fede, speranza e ostetricia) di Giulia Fornasier è un brillante “oggetto narrativo” (non lo chiamiamo romanzo) scritto a mo’ di diario, un po’ Bridget Jones e un po’ Costanza Miriano, che ha come protagonista Rebecca Rossetti, un’ostetrica (come la sua autrice) in perenne lotta con la propria esistenza, che tende a inclinare pericolosamente sempre verso il disastro (Una tipa da tripla d: donna, disastro, delirio). Da quando l’ho letto la prima volta, prima di essere sistemato, mi ha conquistato, non solo perché è scritto bene, ma perché è simpatico, frizzante e leggermente nevrotico, insomma racchiude tutti quegli elementi che sono tipici della letteratura femminile, che tanto mi piacciono e che sono del tutto insoliti nella produzione di Fede & Cultura. La nostra Rebecca passa in rassegna le sfighe e i casini della propria vita, i conflitti familiari (il rapporto con i genitori, soprattutto la madre), lo studio e la conquista di una qualifica professionale, i problemi nella ricerca di un lavoro in un Paese orribile come l’Italia, la faticosa ricerca dell’anima gemella (che sembra non arrivare mai o, forse, nemmeno esistere), insomma le piccole grandi battaglie di ogni giorno, quando anche le cose più banali (l’accensione di uno scooter, una ricarica del cellulare) sembrano girare alla rovescia. E non è un caso che a ognuno di questi temi sia dedicato un capitolo del libro, in una narrazione coerente e progressiva che riflette il percorso della crescita dall’adolescenza alla terribile “trentannità”, nella perenne condizione di single («senza azzardare troppo, se a cinque anni guardi la zia single ubriacarsi ai matrimoni, a venti ti ubriachi con la zia e a trenta sei la zia ubriaca: “Ehi zia! Come va?”. “Eh, tiro a Campari”»). Alla base c’è l’idea di dover fare i conti con la propria esistenza irrisolta, nella consapevolezza che non è possibile lasciarsi andare continuamente al vittimismo prendendo a pugni il frigorifero (magnifica scena da cui parte la narrazione), magari trovando una ragione a quello che è successo. Certo, il messaggio cristiano è evidente e qua e là ci sono citazioni bibliche o di un’enciclica di Giovanni Paolo II, ma il libro non è per nulla apologetico o sanfedista: piuttosto, il contenuto che passa non è proposto in maniera diretta e aggressiva, ma mediato attraverso la storia personale, espressioni in dialetto trevigiano e riferimenti ai cartoni animati della Disney (ma anche a Notting Hill, a Guerra e pace e ai romanzi di Jane Austen). Quella di Rebecca è una storia piena di avventure divertenti se non proprio buffe, dallo stage dal dentista ai viaggi in Africa e in Irlanda (quest’ultimo capace di ribaltare le vostre idee pittoresche e bucoliche sull’isola di smeraldo), il tutto condito dalle incredibili frasi delle ancor più incredibili amiche («È più facile trovare un dodo che un uomo decente», «Usa i periodi di merda per concimare il tuo futuro»). Un libro a cui ci si affeziona: se siete single ed è San Valentino, dovete farlo vostro.

martedì 4 febbraio 2020

John Bottle - La vacca di Liliana

Qualche tempo fa ho contribuito alla pubblicazione de Il giovane Blogger (e altre storielle sulle orme di Salinger) di John Bottle, notevolissima raccolta di racconti tra Il giovane Holden, la psichiatria, Don Chisciotte e la fede interista. Prima di questo esordio, Bottle aveva già pubblicato questo La vacca di Liliana (un giallo-porno in psichiatria), ebook breve breve scritto come pièce teatrale che si trova su Amazon e che funge da perfido e surreale atto di accusa nei confronti della psichiatria, della somministrazione e dello spaccio di farmaci compiuto in combutta con gli operatori farmaceutici, e allo stesso tempo una specie di riflessione meta-testuale sul ruolo dei pazienti (tra cui figurano Charles Bukowski, Cesare Pavese e Dino Campana), dei protagonisti (Enrico Mentana) e dello stesso autore, che interviene direttamente nel testo come artefice della vicenda. La vacca di Liliana del titolo è una gigantesca mucca di gomma semi-trasparente nello studio della psichiatra luminare (la Liliana del titolo) al cui interno ci sono due demoni, Graffiacane e Rubicante, che reggono uno schermo a cristalli liquidi.