lunedì 2 marzo 2020

Luca Fumagalli - La società della Contea

Le recenti polemiche sulla nuova traduzione del Signore degli Anelli a firma di Ottavio Fatica dimostrano che il dibattito sulle posizioni politiche di Tolkien, o meglio, il tentativo di appropriarsi politicamente della sua opera sono quanto mai attuali. Nel corso dei decenni in molti hanno cercato di tirare il professore di Oxford per la giacchetta di tweed, adducendo spesso prove (secondo loro) indiscutibili: sostenitore dei franchisti durante la Guerra Civile spagnola, ecologista e ambientalista, retrivo conservatore se non proprio reazionario, antimodernista e anticapitalista, distributista sul modello di Chesterton e Belloc, precursore del sovranismo, addirittura liberale neocon fautore del libero mercato (come espresso da Hobbit Party di Jonathan Witt e Jay W. Richards). A cercare di ricostruire questo ambito di studio ci pensa l’amico Fumagalli con questo libretto La società della Contea. Appunti sulla filosofia politica di J.R.R. Tolkien, che muove sicuramente in una prospettiva cattolico-tomista (magari alla luce delle encicliche Immortale Dei e Aeterni Patris di Leone XIII) ma ha il pregio di essere aperto e attento all’effettiva realtà del dibattito internazionale, e quindi non si limita a riferirsi semplicemente ai soliti noti della critica italiana che hanno continuato a citarsi autoreferenzialmente tra di loro e hanno messo Tolkien sotto una campana di vetro di marca missina (per ragioni storiche, Il Signore degli Anelli è stato uno dei riferimenti culturali della destra).

Fumagalli non si limita certo all’aspetto sociopolitico ma ricostruisce la vicenda personale di Tolkien, la sua fede, la sua posizione critica ma rispettosa dell’aggiornamento teologico-dottrinale del Concilio Vaticano II, il suo concetto del matrimonio e del rapporto uomo-donna (che lo portarono a lanciare moniti anticipatori della liberazione sessuale del Sessantotto). Il cuore del libro è però la sua lettura del potere (rappresentato dall’Anello), che per Tolkien è una cosa sempre negativa e da evitare perfino per i santi perché negatrice del libero arbitrio: esercitando il potere fondato sull’Anello, si attua una coercizione che nega il libero arbitrio altrui e che per giunta si fonda su un potere malvagio. Ecco quindi che i saggi della Terra di Mezzo si rifiutano di usare l’Anello, lasciando al singolo la capacità di trovare dentro di sé una risposta ai grandi interrogativi del suo tempo, pur nella consapevolezza che non esistono parametri di riferimento, come evidenzia il citato Wu Ming 4: nel Signore degli Anelli «non [si] accenna né [si] allude ad alcun principio di autorità che possa fornire una pietra di paragone all’esperienza personale, […] limitandosi ad affermare che ogni volta ciascuno dovrà compiere il riconoscimento etico nel luogo e nella circostanza in cui si trova».

L’ambito più strettamente politico del libro è per forza quello legato alla Contea, letta come trasfigurazione fantastica di quell’Inghilterra rurale che Tolkien amava e che sentiva in qualche modo essere la sua vera patria («In realtà sono un Hobbit in tutto tranne che nella statura», ebbe a scrivere in una lettera). Certo, Fumagalli (che rifugge giustamente e tolkienianamente le allegorie) si guarda bene dal trattare la Contea come un’utopia o un manifesto: nonostante infatti essa abbia «parecchi elementi in comune con quelli dell’Inghilterra rurale che lo scrittore ebbe modo di conoscere e amare durante l’infanzia, prima che questa venisse distrutta dall’industrializzazione dilagante, per quanto dolce e invitante non è un’Arcadia ideale, un idillio agreste». Infatti, come per Tolkien non può esistere il concetto di Male assoluto, non può esistere il Bene assoluto, e per questo ne racconta anche le ombre, la meschinità e la piccineria dei suoi abitanti. Certo, la terra degli hobbit rappresenta uno strano mix di repubblica e aristocrazia, una comunità retta dall’autogoverno, uno stato di diritto «dove non esistono istituzioni che interferiscono con il diritto di proprietà delle persone» e si vive pacificamente in una “anarchica” assenza di leggi e polizia. Un aspetto che riflette la dichiarazione contenuta in una lettera indirizzata al figlio Christopher: «Le mie opinioni politiche tendono sempre più verso l’“anarchia” (intesa filosoficamente come abolizione del controllo, non come bombaroli barbuti) o verso la monarchia “non costituzionale». Senza dubbio Tolkien era contrario alla statolatria, al controllo dello Stato nei confronti dell’individuo, alla produzione industriale e alla meccanizzazione, a cui contrapponeva l’artigianato. Non era un sostenitore neppure della democrazia parlamentare né dell’impero britannico, e si opponeva all’arrivo di modelli di vita americani e alla massificazione dell’inglese come lingua predominante, e questo ha fatto pensare a qualcuno di leggere una sua adesione al distributismo come “terza via” alternativa al socialismo e al capitalismo, senza peraltro che ci sia mai stata la benché minima prova a sostegno di questa teoria.

Su tutto questo si innesta il concetto di “bene comune” (anche se è interessante notare come a usare questo termine nel Signore degli Anelli sia lo stregone Saruman), inteso in senso tomista e opposto «al cinismo e all’assurda complessità della modernità», riprendendo l’interpretazione di Joshua Hren in Middle Earth and the Return of the Common Good e alla luce di un «benefico dialogo tra autorità e libertà» che troverebbe il suo fondamento nel contesto feudale, nel quale «il potere è sminuzzato, diviso in un pluralità di istituti e realtà le une in concorrenze con le altre» (tesi già affrontata da Mingardi e Stagnaro in La verità su Tolkien. Perché non era fascista e neanche ambientalista). In questo senso, anche il sovrano ha l’incarico di ordinare tutte le cose in vista del bene comune, superando ogni tendenza assolutista: «per indirizzare correttamente gli sforzi dei sudditi verso un fine comune è necessaria un’autorità, qualcuno che non si faccia carico di una sintesi delle parti ma di una responsabilità verso il Bene» e garantisca il legame di mutua dipendenza («la Terra di Mezzo non è salvata dallo sforzo di volontà di un singolo deus ex machina, ma dall’impegno di una serie di personaggi che operano per il bene comune»). Per realizzare questo bene comune, a volte, è necessario disobbedire, come sottolineato dal tanto vituperato Wu Ming 4, con il quale Fumagalli sembra concordare.

A questo punto è però lecito chiedersi se non fosse il caso di osare di più, sviluppando maggiormente il ragionamento dello stesso Wu Ming 4 sulla liceità di opporsi al potere nel caso sia ingiusto come accade nel capitolo del Signore degli Anelli “Attraversando la Contea”, quando la disobbedienza all’autorità da atto individuale diventa azione collettiva e si assiste a un dibattito nel campo dei “buoni” e viene affermato un principio di fatto moderno: Tolkien non è Manzoni e non si limita ad aspettare supinamente che intervenga la Provvidenza ma sembra dire che è lecito opporsi a un potere ingiusto, pur nella decisione di usare il minor grado di violenza possibile. E ancora: è verosimile che, come scrive Fumagalli, l’esito della riflessione politica di Tolkien porti a un rimpianto del Sacro Romano Impero e della perduta società cristiana? In fondo, il fascino del Signore degli Anelli è proprio il fatto che parla a tutti, partendo dal punto di vista di un autore cristiano che racconta un mondo precristiano rivolgendosi a una società postcristiana, quasi un cristianesimo “a livello zero” capace di dire qualcosa a ognuno e di rispondere alle inquietudini della modernità.

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