lunedì 29 giugno 2020

Alessandro Barbero - Caporetto

Titanico. Questo è l’unico aggettivo per definire questa poderosa trattazione della battaglia di Caporetto da parte di Alessandro Barbero, sempre attento alla storia militare. Una battaglia che nella memoria italiana resta ancora oggi un’umiliazione nazionale, una ferita aperta, un dato rivelatore di certi aspetti e problemi del nostro Paese. Non una sconfitta nata per caso ma effetto di una controffensiva austro-tedesca dopo undici battaglie di attacco sull’Isonzo da parte degli italiani; un’idea nata nell’alto comando austriaco già nella primavera del 2017 ma che inizialmente viene accantonata per la ritrosia tedesca (quello italiano era un fronte inutile), poi ripresa nell’ottobre dello stesso anno quando gli austriaci temevano di perdere il porto di Trieste. L’offensiva della Bainsizza aveva fatto avanzare il fronte italiano di ben otto chilometri, a fronte di 160.000 perdite, di cui 30.000 morti. Gli austriaci erano logori ma ben decisi a vender cara la pelle, avvertendo la necessità di assestare al nemico un colpo tremendo e sentendo la guerra contro l’Italia come una specie di missione nazionale e una questione d’onore. Analizzando corrispondenza e la memorialistica dell’epoca, incluse le testimonianze della commissione d’inchiesta, Barbero fa parlare direttamente i protagonisti della battaglia, non limitandosi all’Italia, ma includendo anche il punto di vista dei nostri nemici, che non si amano gli uni con gli altri. Gli efficienti e supponenti tedeschi guardano i loro alleati austriaci dall’alto in basso, li considerano disorganizzati, sciatti, balcanici e fatalisti. Perfino l’imperatore Carlo non sopporta i tedeschi, ma rivendica l’importanza della guerra contro quei traditori degli italiani. I tedeschi sono più avanti in tutto, nella tattica, nelle sperimentazioni offensive, negli armamenti, nella qualità degli ufficiali e dei sottufficiali, nell’addestramento dei reparti, e mandano in aiuto sei divisioni.

L’attacco fu preparato nei minimi dettagli, con un enorme dispiegamento di uomini e mezzi, e il risultato è una disfatta memorabile per l’esercito italiano. Non tanto nei numeri di morti e feriti (40.000), quanto nei 260.000 prigionieri (la decima battaglia dell’Isonzo aveva fatto 23.000 prigionieri austriaci), molto dei quali moriranno di fame e di tifo nei lager (in Austria la popolazione muore di fame), per non parlare dei 350.000 sbandati (e ci vorranno mesi per ritrovarli e riarmarli) e del mezzo milione di profughi civili; ma soprattutto Caporetto è una disfatta dal punto di vista della penetrazione nemica, 150 chilometri dall’Isonzo al Piave, una cosa davvero inusuale per la Prima Guerra Mondiale. Il comando italiano di Cadorna (che aveva diretto la guerra per due anni) diede la colpa ai soldati che si erano arresi e ritirati senza combattere e alla propaganda socialista: il governo bloccò il bollettino ma non fece in tempo a impedire che finisse nelle mani della stampa estera. In realtà gli studi degli ultimi anni hanno dimostrato che le truppe in prima linea hanno combattuto bene ma che non hanno potuto tenere la superiorità militare tedesca; piuttosto, si è dovuto registrare il crollo delle seconde linee, che di è trasformato in una catastrofe. L’attacco austro-tedesco fu una sorpresa? No, tutti sapevano tutto. Nella Prima Guerra Mondiale le notizie trapelano sempre nei particolari (i servizi segreti, i disertori, i traditori), tanto che dai primi giorni dell’ottobre del 1917 lo sapeva l’alto comando italiano e ne parlavano già i giornali. Sapevano tutto, ore e luoghi, e tutti sapevano che il punto di attacco era fragile sin dai tempi di Friedrich Engels, che nel 1859 aveva spiegato che in un’eventuale guerra fra Italia e Austria sull’Isonzo l’esercito italiano avrebbe potuto essere preso alle spalle proprio a Caporetto.

Forse proprio per questo l’alto comando italiano era così ottimista, come priva la dichiarazione di Badoglio secondo cui aveva «tanti cannoni da fracassarli prima che giungano alle nostre linee», o Cadorna che disse: «Vengano pure! Li prenderemo prigionieri e io li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere!». Le linee, che sembravano leggermente antiquate, crollarono in due ore. Carlo Emilio Gadda, all’epoca tenente degli alpini, scrive nel suo diario a proposito dei generali: «Asini, asini, buoi grassi, pezzi da grand hotel, avana, bagni; ma non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori; incapaci d’osservazione e d’analisi, ignoranti di cose psicologiche, inabili alla sintesi: scrivono nei loro manuali che il morale delle truppe è la prima cosa, e poi dimenticano le proprie conclusioni». Del generale Cavaciocchi scrive: «Il generale Cavaciocchi, che deve essere un perfetto asino, non ha mai fatto una visita al quartiere, non si è mai curato di girare per gli alloggiamenti dei soldati; eppure Giulio Cesare faceva ciò. Si dirà: “Non è suo compito”. E con ciò?”». E quando arriva la notizia di una grande vittoria tedesca sul fronte russo annota: «I tedeschi hanno evidentemente dei generali meno Cavaciocchi dei nostri». L’Italia è afflitta dalla retorica: per i generali è colpa dei politici parolai, ma anche l’esercito non è da meno, con grandi appelli pieni di stentorea prosopopea, quasi si fosse convinti che il peso delle dichiarazioni orali e delle circolari scritte bastasse ad assicurare la vittoria. Barbero ricorda che il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti, in visita al fronte pochi giorni prima di Caporetto, fa l’elogio dei pezzi d’artiglieria come «dei membri virili in erezione. Simboleggiano e sono l’improvvisazione geniale italiana di guerra, il genio improvvisatore italiano». Ma indicativa è anche la mania per i regolamenti rigorosissimi del colonnello Boccacci, soprannominato “Attila” (appassionato di fotografie pornografiche di bambine fatte con il laboratorio fotografico del corpo d’armata), che imponeva a tutti i soldati i posti di blocco il taglio dei capelli con la tosatrice meccanica, cosa avvertita da tutti come una vessazione mortificante.

La fotografia impietosa di un Paese esausto dal punto di vista demografico che non ha più persone in grado di fare gli ufficiali ma che continua a ostinarsi: gli ufficiali devono essere solo borghesi o piccolo borghesi, non operai o contadini, e vengono sbattuti al fronte subito, senza preparazione adeguata. Mancano i soldati (per fare numero ne vengono presi dai riforati e dai carcerati) ma soprattutto mancano i sottufficiali: i tedeschi invece hanno ottimi e preparatissimi sottufficiali (Rommell è tenente a Caporetto), capaci di prendere l’iniziativa, di impartire ordini e di sostituire gli ufficiali. L’esercito è contraddistinto da un classismo rigorosissimo, vengono fucilati uomini che hanno abbandonato le trincee per andare nelle retrovie senza ordini, il morale delle truppe è a terra, le brigate sono tenute senza fare nulla immerse nel fango, per poi essere spedite in fretta e furia al fronte per tappare i buchi. La disfatta genera una folla di sbandati che plaude alla fine della guerra, che esprime il disinteresse per le altre regioni del Paese, che dichiara “è finita la camorra” riferendosi all’esercito corrotto. Il pittore Ottone Rosai, futuro squadrista, si convince già durante la guerra che la cura per il popolo italiano sono il manganello e l’olio di ricino, trovando conferma in quel prigioniero italiano che, scrivendo dal lager di Mauthausen, è persuaso che il popolo italiano, per smettere di essere ridicolo, ha bisogno di cinquant’anni di bastone. Caporetto contribuirà a convincere gran parte degli intellettuali e della classe dirigente italiana di questa cosa. Poco importa che poi ci sia stato la resistenza del Piave, Vittorio Veneto e la vittoria: alla fine Caporetto è stata una battaglia perduta di una guerra vinta, e gli austro-tedeschi vennero sconfitto, alla fine, ma nonostante abbia vinto a guerra, l’Italia ne è uscita come se l’avesse persa, con la stessa miseria e gli stessi sconquassi politici degli sconfitti. Soprattutto, perché nella testa dei militari italiani si è già ben fissato il desiderio per l’uomo forte e il disprezzo nei confronti di politici e politicanti.

sabato 27 giugno 2020

Thomas Lavachery - Tor e gli gnomi


Delizioso questo libretto del belga Thomas Lavachery (anche autore delle illustrazioni) che racconta la favola di un bambino di otto-nove anni, Tor di Borgisvik, che non riesce a pescare nulla nel lago per colpa di un farfajoll, uno gnomo d’acqua dolce che si diverte a spaventare i pesci. Il padre e lo zio (due tipi che esclamano rispettivamente «Chiappe d’orso!» e «Faccia d’alce!») sanno cosa fare: far cadere nelle acque del lago i frammenti di una bottiglia di melassa contenente trifoglio nero, olio di foca, miele e burro rancido. Ovviamente il povero farfajoll emerge morente, attirando la rabbia dei paesani. Il povero Tor però lo salva di nascosto, assicurandosi l’amicizia del popolo degli gnomi e il loro soccorso quando, un anno dopo, si trova a mal partito con uno sciame di vespe. Oltre al tono favolistico, il libretto conquista grazie al messaggio di nobiltà d’animo da tenere sempre ma soprattutto a una visione non manichea delle creature del folklore. Lo gnomo di montagna che salva Tor dalle vespe rivendica infatti la sua natura natura e subdola: «Adoriamo giocare brutti scherzi e fare del male, ah ah ah! Passiamo il tempo a mandare in bestia gli umani… eccetto quando sono nostri amici».

domenica 21 giugno 2020

Antonio Scurati - M. Il figlio del secolo

Il duce vende sempre, come prova M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati (M sta per Mussolini), che ha venduto centinaia di migliaia di copie e ha addirittura vinto il Premio Strega. E questo nonostante le critiche feroci di Ernesto Galli della Loggia, secondo cui conterrebbe dieci mostruosi errori e incongruenze che riscriverebbero la storia. Il problema è sempre quello contestato a Saviano: è possibile romanzare il male e mettere pathos nella fiction con il rischio di creare falsi miti? A ben guardare la letteratura vorrebbe riflettere problematicamente proprio su questo, poi si può discutere se quella di Scurati sia letteratura. Il suo è un librone di oltre 800 pagine che, oltre a porsi come il primo capitolo di una trilogia, racconta la conquista del potere da parte di Mussolini dal 1919 al 1924 e racconta il fascismo dal di dentro, dal punto di vista dei carnefici, fin dalle prime fallimentari elezioni del Dopoguerra quando i Fasci di Combattimento si presentarono con una granata come simbolo. Scorrono una marea di personaggi di quegli anni, come Nicola Bombacci, Cesare Rossi, Amerigo Dùmini, Albino Volpi, Italo Balbo, Roberto Farinacci (autore della massima «Se non è sufficiente la scopa, si adoperi la mitragliatrice»). Per questo non è un romanzo storico in senso tradizionale ma storico-documentario, cioè un romanzo che mette in scena solo personaggi e fatti storici attraverso i documenti diretti (articoli de “Il Popolo d’Italia”, stralci de “L’Avanti”, testimonianze dirette). Scurati racconta il Mussolini grande istrione, attore e mentitore, ma non in chiave macchiettistica e caricaturale come troppo spesso è stato fatto: nella sua narrazione il duce è un uomo vuoto, capace di approfittare di ogni situazione per la sua mancanza di idee e di principi («Il programma di San Sepolcro? Soltanto un pezzo di carta») ma anche di lealtà e fedeltà (tradisce tutti, a cominciare da se stesso. Basti pensare che all’inizio era dannunziano ma poi fa un accordo con Giolitti per far sparare su D’Annunzio), tanto da dire di sé «Io sono l’uomo del “dopo”», cioè l’uomo che intuisce l’umore del popolo, che fiuta l’aria che tira e che cavalca l’onda. Lo ha fatto sempre, tanto che la virata totalitaria a conclusione del caso Matteotti sembra la naturale conseguenza di questo atteggiamento.

Scurati restituisce a Mussolini il genio politico che ne fa il prototipo di ogni leader populista («Si tratta solo di fomentare gli odi di fazione, di esasperare i risentimenti. Nulla, allora, sarà precluso. Non c’è più né sinistra né destra. Si devono solo alimentare certi stati d’animo che affiorano in questo crepuscolo della guerra»), non un genio del male venuto fuori dal nulla ma un personaggio perfettamente inquadrato in un contesto di persone deluse e disposte a rinunciare alle proprie prerogative democratiche in cambio di sicurezza (Gabriele D’Annunzio che definisce la classe politica del parlamento una “casta”, l’adesione al fascismo dei piccoli borghesi, dei commercianti e dei funzionari che si sentono impoveriti e minacciati dallo “straniero” socialista). Scurati racconta la violenza connaturata a quegli anni, le rivendicazioni di un Paese reduce dalla trincee, la delusione del Congresso di Versailles, il fascino maligno e brutale dello squadrismo guerriero, l’avventura di D’Annunzio a Fiume, le agitazioni del biennio rosso (le fabbriche occupate da operai armati, le leghe contadine che decidono quante e quali terre coltivare), la complicità di liberali e imprenditori, l’appoggio del re (che ritirò lo stato d’assedio che aveva già firmato), la miopia del partito socialista colto da una vera e propria “nevrosi” scissionista. Quel che è certo è che non esiste, per Scurati, un fascismo di alti ideali e poi di tradimento di quegli ideali, visto che la storia del fascismo è stata sempre all’insegna della violenza fin dal principio.

Dal punto di vista stilistico, Scurati alterna il documentario e la retorica d’epoca, con una strizzata d’occhio alla prosopopea dannunziana; di certo non si fa mancare nulla, dalle bestemmie alla poetica del “sangue e merda” come Thomas Prostata di Mai dire gol (lo scrittore pulp, molto pulp, pure troppo). Come nel caso dell’idea dell’olio di ricino di Italo Balbo: «Si afferra un indomito socialista, gli si caccia in bocca un imbuto, lo si costringe a bere un litro di lassativo. Poi lo si lega al cofano dell’auto e lo si porta in giro per il paese mentre scorreggia, sfiata, si caca addosso. Un rimedio a basso costo, senza spargimenti di sangue, senza minaccia di arresti. Impossibile non ridere. E poi il tragicomico ha altri vantaggi. Impedisce alla vittima di diventare in martire perché la vergogna scaccia il cordoglio: non si può dedicare un culto a un uomo che si caca addosso». Inoltre, insiste volutamente sul legame tra fascismo e sesso, con il sesso ambito di esercizio della violenza fascista. Spassosa però la “sindrome del cappello” che contraddistingue i rapporti di Mussolini e le donne: «No, nessuna donna potrà vantarsi di essere uscita soddisfatta dalla sua intimità. Non appena le ha possedute – cosa di per sé rapidissima – lui sente il bisogno prepotente di rimettere il cappello sulla testa».

sabato 20 giugno 2020

Ivan Canu e Benedetta Lelli - Il mondo di Tolkien

Non è un libro da un podcast sulla piattaforma Storytel in otto puntate, un documentario davvero completissimo su J.R.R. Tolkien con particolare riguardo a Lo Hobbit e ovviamente al Signore degli Anelli. Scritto da Ivan Canu e Benedetta Lelli, si intitola Il mondo di Tolkien e annovera la voce di moltissimi specialisti: il grande filologo Tom Shippey, i cattolici Andrea Monda, Paolo Gulisano e Saverio Simonelli, il curatore della prima edizione italiana del Signore degli Anelli Quirino Principe, presidente dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani Roberto Arduini, il traduttore Luca Manini, l’ecologista Patrick Curry, la scrittrice Licia Troisi e Wu Ming 4. Gli argomenti trattati sono la vita di Tolkien, la sua carriera universitaria, l’amicizia con C.S Lewis, gli Inklings, la passione per le lingue che lo portava a creare prima le lingue dei popoli e dei personaggi che poi le avrebbero parlate, i personaggi e i loro modelli di partenza (per approdare a esiti nuovi), la passione per le saghe nordiche, la geografia cesellata nel dettaglio della Terra di Mezzo, l’interpretazione dei personaggi femminili (che ci sono e sono molto complesse, alla faccia di chi parla di un autore misogino e maschilista), il ruolo di iniziatore del genere fantasy per centinaia di epigoni, la spinosa questione dell’appropriazione dell’autore da parte di determinate frange politiche (la destra in Italia, gli hippie negli Stati Uniti). Ma grande spazio viene dedicato anche ai grandi disegnatori alle prese con Il Signore degli Anelli, per esempio Alan Lee e John Howe, che con il loro lavoro hanno ispirato la saga cinematografica di Peter Jackson. Soprattutto, è un podcast che prende Tolkien seriamente, che è capace di “raccontarlo” ai profani e di rifletterci sopra in maniera seria anche per i più esigenti, senza disprezzare il fandom ma anzi combattendo la critica di “letteratura d’evasione” che viene irrimediabilmente rivolta a questo autore. Addirittura, si cita Nightfall in Middle-Earth dei Blind Guardian, riferimento per i concept album tolkieniani. Magari scoprirete che il 3 gennaio ricorre il Tolkien Toast, un brindisi al compleanno del professore; che il 25 marzo è il Tolkien Reading Day, durante il quale si leggono ad alta voce passi e brani delle sue opere; e che il 22 settembre invece è lo Hobbit Day, il giorno del compleanno di Bilbo e Frodo Baggins. C’è sempre una buona occasione per celebrare Tolkien, anche un podcast.

sabato 13 giugno 2020

Francesco Filippi - Mussolini ha fatto anche cose buone

Quante volte ogni giorno sentiamo ripetere il ritornello “Ah, quando c’era lui!” o “Se tornasse lui o uno come lui!”? Per non parlare del mitico “Quando c’era lui i treni arrivavano in orario!”? proprio da queste domande parte questo interessante libretto di Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, che si propone di smontare una serie di falsi miti e bufale sul fascismo che circolano soprattutto sul web e che si vedono diffuse continuamente da meme, frasi e slogan diffusi a mezzo social, «un racconto dell’oggi efficace e semplice, una prospettiva a cui tendere», che si regge sull’idea che ci sia bisogno di risolvere i problemi in maniera semplice e attraverso una verticalizzazione del potere che faccia piazza pulita della complessità del meccanismo democratico. L’aspetto fondamentale da sottolineare è che molti dei falsi miti sul fascismo furono creati dal fascismo stesso per diffondere un’immagine dell’Italia come paese moderno ed efficiente, e ancora oggi continuano a essere sbandierati per contrapporre a un presente negativo un passato benigno: «Mentre le fake news sul presente […] servono a indirizzare l’opinione del pubblico a cui sono rivolte, le false notizie sulla storia hanno lo scopo più profondo di rassicurare chi le accetta nei propri sentimenti, nelle proprie emozioni. Una balla sul passato è rassicurante, conferma sensazioni di cui altrimenti ci si vergognerebbe, fissando dei punti di riferimento tranquillizzanti, non importa se veri o falsi». Il lavoro di debunking di tali balle è quindi magari inutile ma necessario «per circoscrivere l’ambito di diffusione di notizie false che avvelenano la memoria e, attraverso di essa, la percezione del presente». Perché, se è vero che il fascismo come fenomeno storico è morto con Mussolini, bisogna tenere conto della lezione di Umberto Eco che definiva il fascismo non come una filosofia, cioè non come un modo di pensare le cose, ma come una retorica, cioè un modo di raccontare le cose, una semplice narrativa.

Il libro incomincia con l’affrontare le tanto decantate riforme del regime a livello sociale, partendo dalle pensioni, che comunemente sembra siano state al centro della riforma sociale del fascismo e che invece risalgono alla fine dell’Ottocento, o l’istituzione dell’INPS, all’epoca INFPS, ente che fu effettivamente creato come accorpamento di tutte le casse settoriali che esistevano nel Regno d’Italia ma che poi venne usato come bacino di consenso per dare lavoro ai molti (professionisti, precari, lavoratori a tempo determinato) che erano rimasti senza lavoro e «divenne un sogno per una buona fetta della piccola borghesia impiegatizia, zoccolo duro di consenso al fascismo». Anche l’IRI fu un ampliamento di un sistema di supporto pubblico alle imprese pensato prima della Prima Guerra Mondiale e, dopo essere stato come misura emergenziale, fu reso permanente, «un tassello importante nella costruzione del regime economico corporativo, la terza via tutta italiana tra capitalismo e socialismo che cercava di dirigere l’economia secondo gli interessi del fascismo al potere»: un progetto ambizioso, che non riuscì a causa della crisi economica del 1929 prima e delle sanzioni internazionali poi. Il corporativismo non funzionò nemmeno dal punto di vista sociale perché portò all’eliminazione della Camera dei Deputati a favore di una Camera delle corporazioni che venne lanciata tardi e male, senza contare che (come sempre accade in Italia) il corporativismo scivolò nel clientelismo.

E poi si arriva all’altro grande mito, quello del duce bonificatore: la bonifica dell’Agro Pontino ci fu, ma in misura molto minore a quella sbandierata dal regime stesso. Quella che passa alla storia come la “battaglia delle acque” prevedeva la bonifica di otto milioni di ettari di terra, poco più di un terzo di tutta la superficie coltivabile del Paese: dopo una decina d’anni, alla metà degli anni Trenta, e dopo i tanti soldi spesi, lo stesso regime perse interesse nell’opera e decise di dichiarare la battaglia vinta con quattro milioni di ettari di terreno bonificato, la metà di quanto proclamato. Di questi, la metà erano opere idrauliche in avanzato stato di completamento prima dell’avvento del fascismo, effetto della tanto vituperata Italia liberale. Dei restanti due milioni, un milione e 400.000 ettari erano progetti appena avviati o sulla carta. Inizialmente si pensava che l’impresa potesse reggersi su un intervento pubblico limitato nell’impegno economico e aperto all’intervento dei privati, ma poi si trasformò in un deciso intervento pubblico di assistenzialismo di enti amici (anche qui, come sempre accade in Italia). Anche il mito del duce costruttore che diede le case agli italiani, la tanto decantata edilizia popolare ha numeri esigui pompati dalla propaganda di regime che includono realizzazioni dell’Italia liberale. Diverso il discorso per quanto riguarda l’architettura fascista, che ben poco c’entrava con l’edilizia popolare e che invece era finalizzata alla costruzione di una narrazione urbana del fascismo. Quanto poi al mito della sicurezza e del calo dei reati durante il ventennio, è vero che dal 1926 i giornali hanno ben poche notizie riguardanti la cronaca nera ma è altrettanto vero che, in virtù delle leggi fascistissime, i prefetti furono obbligati a giurare fedeltà al fascismo e divennero organo del controllo del territorio con facoltà di censurare le notizie lesive dell’onore nazionale.

Parlare delle bufale sulla grandezza del Mussolini condottiero sarebbe impietoso: basterebbe citare le figuracce fatte durante la Guerra civile spagnola e le difficoltà incontrate nella guerra d’Etiopia (con una disparità di mezzi addirittura soverchiante in favore dell’Italia), o la brevissima campagna di Francia, portata avanti contro un nemico già sconfitto ma costata all’esercito italiano 1.258 morti in pochi giorni a fronte dei 20 francesi. Senza entrare nel piano tattico, con la decisione di partecipare all’invasione dell’Unione Sovietica contro lo stesso parere dei tedeschi e il piano di costruire enormi navi corazzate quando il resto del mondo costruiva portaerei nella convinzione che il futuro degli scontri navali si sarebbe risolto con l’utilizzo degli aeroplani. A quanti rimproverano a Mussolini solo l’alleanza con Hitler, bisognerebbe ricordare che l’applicazione nel 1938 delle leggi razziali in Italia non è un portato di quelle naziste di Norimberga del 1935-36 ma un provvedimento introiettato nella dimensione totalitaria italiana che si innesta sulla preesistente legislazione fascista sulle colonie del 1937, che imponeva che i figli di matrimoni misti fossero di razza contaminata.

Piuttosto, è interessante notare che le bufale si aggiornino a seconda dei tempi, segno di una precisa volontà di avvicinare e attualizzare una figura che è ormai lontana quasi un secolo attraverso dei punti di contatto con la nostra sensibilità: è il caso di quella secondo cui Mussolini sarebbe stato un grande amante degli animali, e che addirittura avrebbe dato pari diritti a uomini e animali. Un mito che non tiene conto del fatto che fu proprio Mussolini a mettere la tassa sui cosiddetti “animali da grembo”, i cagnolini, visti come animali improduttivi e bestie da effeminati. Per non parlare del caso del ruolo della donna, che secondo alcuni sotto il regime sarebbe stato paritario; effettivamente nei primi anni Venti il fascismo come movimento si fece voce delle suffragette italiane e si dichiarò a favore del suffragio universale femminile, ma una volta al governo si scontrò con la maggiorana di un paese che non aveva alcun interesse che le donne votassero. Nel dicembre del 1925 il fascismo estese il voto alle elezioni amministrative a una certa categoria di donne (mogli, madri e vedove di eroi di guerra, donne ricche e di un alto livello di istruzione scolastica), ma tre mesi dopo, nel febbraio 1926, con la riforma podestarile, abolì il voto amministrativo per tutti. Oltretutto, nel 1938 emanò una legge che proibiva alle aziende con più di dieci dipendenti di avere più del 10% di manodopera femminile, ed escluse sempre le donne dai ruolo di insegnamento dei licei classici, perno della riforma scolastica di Giovanni Gentile, relegando alla donna un ruolo esclusivamente ancillare e domestico.