Titanico.
Questo è l’unico aggettivo per definire questa poderosa trattazione della
battaglia di Caporetto da parte di Alessandro Barbero, sempre attento alla
storia militare. Una battaglia che nella memoria italiana resta ancora oggi un’umiliazione
nazionale, una ferita aperta, un dato rivelatore di certi aspetti e problemi
del nostro Paese. Non una sconfitta nata per caso ma effetto di una
controffensiva austro-tedesca dopo undici battaglie di attacco sull’Isonzo da
parte degli italiani; un’idea nata nell’alto comando austriaco già nella
primavera del 2017 ma che inizialmente viene accantonata per la ritrosia
tedesca (quello italiano era un fronte inutile), poi ripresa nell’ottobre dello
stesso anno quando gli austriaci temevano di perdere il porto di Trieste.
L’offensiva della Bainsizza aveva fatto avanzare il fronte italiano di ben otto
chilometri, a fronte di 160.000 perdite, di cui 30.000 morti. Gli austriaci
erano logori ma ben decisi a vender cara la pelle, avvertendo la necessità di
assestare al nemico un colpo tremendo e sentendo la guerra contro l’Italia come
una specie di missione nazionale e una questione d’onore. Analizzando corrispondenza
e la memorialistica dell’epoca, incluse le testimonianze della commissione d’inchiesta,
Barbero fa parlare direttamente i protagonisti della battaglia, non limitandosi
all’Italia, ma includendo anche il punto di vista dei nostri nemici, che non si
amano gli uni con gli altri. Gli efficienti e supponenti tedeschi guardano i
loro alleati austriaci dall’alto in basso, li considerano disorganizzati, sciatti,
balcanici e fatalisti. Perfino l’imperatore Carlo non sopporta i tedeschi, ma
rivendica l’importanza della guerra contro quei traditori degli italiani. I
tedeschi sono più avanti in tutto, nella tattica, nelle sperimentazioni
offensive, negli armamenti, nella qualità degli ufficiali e dei sottufficiali,
nell’addestramento dei reparti, e mandano in aiuto sei divisioni.
L’attacco fu preparato nei minimi dettagli, con un enorme dispiegamento di uomini e mezzi, e il risultato è una disfatta memorabile per l’esercito italiano. Non tanto nei numeri di morti e feriti (40.000), quanto nei 260.000 prigionieri (la decima battaglia dell’Isonzo aveva fatto 23.000 prigionieri austriaci), molto dei quali moriranno di fame e di tifo nei lager (in Austria la popolazione muore di fame), per non parlare dei 350.000 sbandati (e ci vorranno mesi per ritrovarli e riarmarli) e del mezzo milione di profughi civili; ma soprattutto Caporetto è una disfatta dal punto di vista della penetrazione nemica, 150 chilometri dall’Isonzo al Piave, una cosa davvero inusuale per la Prima Guerra Mondiale. Il comando italiano di Cadorna (che aveva diretto la guerra per due anni) diede la colpa ai soldati che si erano arresi e ritirati senza combattere e alla propaganda socialista: il governo bloccò il bollettino ma non fece in tempo a impedire che finisse nelle mani della stampa estera. In realtà gli studi degli ultimi anni hanno dimostrato che le truppe in prima linea hanno combattuto bene ma che non hanno potuto tenere la superiorità militare tedesca; piuttosto, si è dovuto registrare il crollo delle seconde linee, che di è trasformato in una catastrofe. L’attacco austro-tedesco fu una sorpresa? No, tutti sapevano tutto. Nella Prima Guerra Mondiale le notizie trapelano sempre nei particolari (i servizi segreti, i disertori, i traditori), tanto che dai primi giorni dell’ottobre del 1917 lo sapeva l’alto comando italiano e ne parlavano già i giornali. Sapevano tutto, ore e luoghi, e tutti sapevano che il punto di attacco era fragile sin dai tempi di Friedrich Engels, che nel 1859 aveva spiegato che in un’eventuale guerra fra Italia e Austria sull’Isonzo l’esercito italiano avrebbe potuto essere preso alle spalle proprio a Caporetto.
Forse proprio per questo l’alto comando italiano era così ottimista, come priva la dichiarazione di Badoglio secondo cui aveva «tanti cannoni da fracassarli prima che giungano alle nostre linee», o Cadorna che disse: «Vengano pure! Li prenderemo prigionieri e io li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere!». Le linee, che sembravano leggermente antiquate, crollarono in due ore. Carlo Emilio Gadda, all’epoca tenente degli alpini, scrive nel suo diario a proposito dei generali: «Asini, asini, buoi grassi, pezzi da grand hotel, avana, bagni; ma non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori; incapaci d’osservazione e d’analisi, ignoranti di cose psicologiche, inabili alla sintesi: scrivono nei loro manuali che il morale delle truppe è la prima cosa, e poi dimenticano le proprie conclusioni». Del generale Cavaciocchi scrive: «Il generale Cavaciocchi, che deve essere un perfetto asino, non ha mai fatto una visita al quartiere, non si è mai curato di girare per gli alloggiamenti dei soldati; eppure Giulio Cesare faceva ciò. Si dirà: “Non è suo compito”. E con ciò?”». E quando arriva la notizia di una grande vittoria tedesca sul fronte russo annota: «I tedeschi hanno evidentemente dei generali meno Cavaciocchi dei nostri». L’Italia è afflitta dalla retorica: per i generali è colpa dei politici parolai, ma anche l’esercito non è da meno, con grandi appelli pieni di stentorea prosopopea, quasi si fosse convinti che il peso delle dichiarazioni orali e delle circolari scritte bastasse ad assicurare la vittoria. Barbero ricorda che il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti, in visita al fronte pochi giorni prima di Caporetto, fa l’elogio dei pezzi d’artiglieria come «dei membri virili in erezione. Simboleggiano e sono l’improvvisazione geniale italiana di guerra, il genio improvvisatore italiano». Ma indicativa è anche la mania per i regolamenti rigorosissimi del colonnello Boccacci, soprannominato “Attila” (appassionato di fotografie pornografiche di bambine fatte con il laboratorio fotografico del corpo d’armata), che imponeva a tutti i soldati i posti di blocco il taglio dei capelli con la tosatrice meccanica, cosa avvertita da tutti come una vessazione mortificante.
La fotografia impietosa di un Paese esausto dal punto di vista demografico che non ha più persone in grado di fare gli ufficiali ma che continua a ostinarsi: gli ufficiali devono essere solo borghesi o piccolo borghesi, non operai o contadini, e vengono sbattuti al fronte subito, senza preparazione adeguata. Mancano i soldati (per fare numero ne vengono presi dai riforati e dai carcerati) ma soprattutto mancano i sottufficiali: i tedeschi invece hanno ottimi e preparatissimi sottufficiali (Rommell è tenente a Caporetto), capaci di prendere l’iniziativa, di impartire ordini e di sostituire gli ufficiali. L’esercito è contraddistinto da un classismo rigorosissimo, vengono fucilati uomini che hanno abbandonato le trincee per andare nelle retrovie senza ordini, il morale delle truppe è a terra, le brigate sono tenute senza fare nulla immerse nel fango, per poi essere spedite in fretta e furia al fronte per tappare i buchi. La disfatta genera una folla di sbandati che plaude alla fine della guerra, che esprime il disinteresse per le altre regioni del Paese, che dichiara “è finita la camorra” riferendosi all’esercito corrotto. Il pittore Ottone Rosai, futuro squadrista, si convince già durante la guerra che la cura per il popolo italiano sono il manganello e l’olio di ricino, trovando conferma in quel prigioniero italiano che, scrivendo dal lager di Mauthausen, è persuaso che il popolo italiano, per smettere di essere ridicolo, ha bisogno di cinquant’anni di bastone. Caporetto contribuirà a convincere gran parte degli intellettuali e della classe dirigente italiana di questa cosa. Poco importa che poi ci sia stato la resistenza del Piave, Vittorio Veneto e la vittoria: alla fine Caporetto è stata una battaglia perduta di una guerra vinta, e gli austro-tedeschi vennero sconfitto, alla fine, ma nonostante abbia vinto a guerra, l’Italia ne è uscita come se l’avesse persa, con la stessa miseria e gli stessi sconquassi politici degli sconfitti. Soprattutto, perché nella testa dei militari italiani si è già ben fissato il desiderio per l’uomo forte e il disprezzo nei confronti di politici e politicanti.
L’attacco fu preparato nei minimi dettagli, con un enorme dispiegamento di uomini e mezzi, e il risultato è una disfatta memorabile per l’esercito italiano. Non tanto nei numeri di morti e feriti (40.000), quanto nei 260.000 prigionieri (la decima battaglia dell’Isonzo aveva fatto 23.000 prigionieri austriaci), molto dei quali moriranno di fame e di tifo nei lager (in Austria la popolazione muore di fame), per non parlare dei 350.000 sbandati (e ci vorranno mesi per ritrovarli e riarmarli) e del mezzo milione di profughi civili; ma soprattutto Caporetto è una disfatta dal punto di vista della penetrazione nemica, 150 chilometri dall’Isonzo al Piave, una cosa davvero inusuale per la Prima Guerra Mondiale. Il comando italiano di Cadorna (che aveva diretto la guerra per due anni) diede la colpa ai soldati che si erano arresi e ritirati senza combattere e alla propaganda socialista: il governo bloccò il bollettino ma non fece in tempo a impedire che finisse nelle mani della stampa estera. In realtà gli studi degli ultimi anni hanno dimostrato che le truppe in prima linea hanno combattuto bene ma che non hanno potuto tenere la superiorità militare tedesca; piuttosto, si è dovuto registrare il crollo delle seconde linee, che di è trasformato in una catastrofe. L’attacco austro-tedesco fu una sorpresa? No, tutti sapevano tutto. Nella Prima Guerra Mondiale le notizie trapelano sempre nei particolari (i servizi segreti, i disertori, i traditori), tanto che dai primi giorni dell’ottobre del 1917 lo sapeva l’alto comando italiano e ne parlavano già i giornali. Sapevano tutto, ore e luoghi, e tutti sapevano che il punto di attacco era fragile sin dai tempi di Friedrich Engels, che nel 1859 aveva spiegato che in un’eventuale guerra fra Italia e Austria sull’Isonzo l’esercito italiano avrebbe potuto essere preso alle spalle proprio a Caporetto.
Forse proprio per questo l’alto comando italiano era così ottimista, come priva la dichiarazione di Badoglio secondo cui aveva «tanti cannoni da fracassarli prima che giungano alle nostre linee», o Cadorna che disse: «Vengano pure! Li prenderemo prigionieri e io li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere!». Le linee, che sembravano leggermente antiquate, crollarono in due ore. Carlo Emilio Gadda, all’epoca tenente degli alpini, scrive nel suo diario a proposito dei generali: «Asini, asini, buoi grassi, pezzi da grand hotel, avana, bagni; ma non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori; incapaci d’osservazione e d’analisi, ignoranti di cose psicologiche, inabili alla sintesi: scrivono nei loro manuali che il morale delle truppe è la prima cosa, e poi dimenticano le proprie conclusioni». Del generale Cavaciocchi scrive: «Il generale Cavaciocchi, che deve essere un perfetto asino, non ha mai fatto una visita al quartiere, non si è mai curato di girare per gli alloggiamenti dei soldati; eppure Giulio Cesare faceva ciò. Si dirà: “Non è suo compito”. E con ciò?”». E quando arriva la notizia di una grande vittoria tedesca sul fronte russo annota: «I tedeschi hanno evidentemente dei generali meno Cavaciocchi dei nostri». L’Italia è afflitta dalla retorica: per i generali è colpa dei politici parolai, ma anche l’esercito non è da meno, con grandi appelli pieni di stentorea prosopopea, quasi si fosse convinti che il peso delle dichiarazioni orali e delle circolari scritte bastasse ad assicurare la vittoria. Barbero ricorda che il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti, in visita al fronte pochi giorni prima di Caporetto, fa l’elogio dei pezzi d’artiglieria come «dei membri virili in erezione. Simboleggiano e sono l’improvvisazione geniale italiana di guerra, il genio improvvisatore italiano». Ma indicativa è anche la mania per i regolamenti rigorosissimi del colonnello Boccacci, soprannominato “Attila” (appassionato di fotografie pornografiche di bambine fatte con il laboratorio fotografico del corpo d’armata), che imponeva a tutti i soldati i posti di blocco il taglio dei capelli con la tosatrice meccanica, cosa avvertita da tutti come una vessazione mortificante.
La fotografia impietosa di un Paese esausto dal punto di vista demografico che non ha più persone in grado di fare gli ufficiali ma che continua a ostinarsi: gli ufficiali devono essere solo borghesi o piccolo borghesi, non operai o contadini, e vengono sbattuti al fronte subito, senza preparazione adeguata. Mancano i soldati (per fare numero ne vengono presi dai riforati e dai carcerati) ma soprattutto mancano i sottufficiali: i tedeschi invece hanno ottimi e preparatissimi sottufficiali (Rommell è tenente a Caporetto), capaci di prendere l’iniziativa, di impartire ordini e di sostituire gli ufficiali. L’esercito è contraddistinto da un classismo rigorosissimo, vengono fucilati uomini che hanno abbandonato le trincee per andare nelle retrovie senza ordini, il morale delle truppe è a terra, le brigate sono tenute senza fare nulla immerse nel fango, per poi essere spedite in fretta e furia al fronte per tappare i buchi. La disfatta genera una folla di sbandati che plaude alla fine della guerra, che esprime il disinteresse per le altre regioni del Paese, che dichiara “è finita la camorra” riferendosi all’esercito corrotto. Il pittore Ottone Rosai, futuro squadrista, si convince già durante la guerra che la cura per il popolo italiano sono il manganello e l’olio di ricino, trovando conferma in quel prigioniero italiano che, scrivendo dal lager di Mauthausen, è persuaso che il popolo italiano, per smettere di essere ridicolo, ha bisogno di cinquant’anni di bastone. Caporetto contribuirà a convincere gran parte degli intellettuali e della classe dirigente italiana di questa cosa. Poco importa che poi ci sia stato la resistenza del Piave, Vittorio Veneto e la vittoria: alla fine Caporetto è stata una battaglia perduta di una guerra vinta, e gli austro-tedeschi vennero sconfitto, alla fine, ma nonostante abbia vinto a guerra, l’Italia ne è uscita come se l’avesse persa, con la stessa miseria e gli stessi sconquassi politici degli sconfitti. Soprattutto, perché nella testa dei militari italiani si è già ben fissato il desiderio per l’uomo forte e il disprezzo nei confronti di politici e politicanti.