venerdì 6 novembre 2020

Thea von Harbou - Metropolis

Sin da quando ero bambino e ascoltavo la colonna sonora del film di Giorgio Moroder, con Freddie Mercury e Bonnie Tyler, ho nutrito una passione insana per Metropolis. Non solo per il film, ma anche per il romanzo da cui è tratto. Non so quale accoglienza potrà ricevere oggi, visto che era scomparso da tempo e, quando un libro scompare, forse una ragione valida ci sarà (tutti i libri che ho contribuito a far ripubblicare sono stati un fallimento editoriale o quasi). Comunque ho scritto anche una prefazione. Eccola qui:

 

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All’origine dell’omonimo film di Fritz Lang del 1927 (di cui costituisce la sceneggiatura) e alla base di molti capolavori della fantascienza, da Blade Runner a Star Wars, Metropolis di Thea von Harbou è un romanzo futuristico (oggi lo definiremmo distopico) ambientato in una ciclopica città multilivello: i ricchi industriali la governano dai loro grattacieli, mentre gli operai che lavorano sono relegati nel sottosuolo. La tematica rispecchia uno dei temi caldi della Germania degli anni Venti, la lotta di classe e il futuro dell’umanità in un’era industrializzata, ma, a causa della sua componente ideologica e dell’ambiguo finale conciliatorio, fu definito “stupidissimo” da H.G. Wells, mentre Buñuel lo giudicò “un film retorico e intriso di romanticismo superato”; ancora oggi il dizionario di cinema Morandini definisce il romanzo della von Harbou (moglie di Lang) intriso di “melensaggine mistica da romanzo d’appendice”. In realtà, tutti sono sempre stati condizionati dai tagli operati dalla versione americana del film, che smarrirono la complessità di quella originale di Lang: essa è stata recuperata solo nel 2010 e ha in parte ribaltato l’idea diffusa che Metropolis fosse un film visivamente affascinante ma narrativamente confuso e raffazzonato.

Forse è vero che lo stile della von Harbou risenta troppo dell’enfasi e delle iperboli tipiche del romanticismo, ma è innegabile che il suo romanzo abbia giocato un ruolo chiave nella costruzione di un immaginario collettivo (ben aiutato in questo dalla trasposizione cinematografica).

La trama di Metropolis è il risultato dell’intreccio di tre storie dalla diversa ispirazione: una “romantica”, riguardante l’idillio tra il generoso Freder e la dolce Maria; una “sociale”, che ha per oggetto la lotta di classe tra industriali e operai; e una “orrorifica”, che vede un diabolico scienziato impegnato (per conto dell’oligarca della città Joh Fredersen) a dare la vita a un robot che ha le stesse fattezze di Maria e incita gli operai alla rivolta e alla distruzione delle macchine: questo porterà alla distruzione del sistema produttivo di Metropolis e all’inondazione nei livelli inferiori della città, proprio quelli degli operai.

L’eroe, Freder, figlio del capo della città, è una figura messianica chiamata a incarnare il ruolo di mediatore (“Il mediatore tra il cervello e le mani deve essere il cuore”) tra capitale e lavoro e a ricomporre la frattura di Babele: non a caso, la prima volta che appare, Freder è immerso nella musica, teso a raggiungere l’armonia che unisce il cielo e la terra (tema eminentemente romantico), prefigurazione della sua chiamata a unire l’individuo e la società. Lui, figlio di un oligarca destinato a diventare lui stesso oligarca, non solo si apre a un residuo di umanità e solidarietà (sconosciute al padre), ma finisce per caricarsi di particolari cristologici e incarnare l’atteso redentore.

Per questo il romanzo si apre a una serie di suggestioni bibliche e religiose (il mito della Torre di Babele raccontato da Maria agli operai, i sette peccati capitali, la morte con falce e clessidra, il monaco Desertus che guida la Setta dei Gotici flagellanti e cita l’Apocalisse, San Michele e l’angelo della morte Azrael, il genocidio dei figli, il robot che brucia sul rogo come una strega, il confronto finale che si svolge sulla sommità di una cattedrale gotica) e le contrappone ai simboli ancestrali di una religiosità pagana crudele e disumanizzata (Baal, Moloch, Lilith, Astarte), in un sincretismo eclettico che sembra suggerire il recupero della tradizione germanico-cristiana come via per superare le contraddizioni dello sviluppo capitalistico e del comunismo distruttivo. Non desta stupore che il nazismo (al quale la von Harbou aderì volontariamente) apprezzasse il messaggio conciliatore del film: il finale infatti annulla la rivolta classista ma anche la dimensione democratica e parlamentare visto che salva la struttura verticale del potere in nome della coesione sociale. Infatti, il cardine della società è che le due metà strutturali di Metropolis – la metà del controllo razionale del lavoro e la metà dell’esecuzione materiale del lavoro – costituiscono un unicum funzionante.

La stessa verticalità viene utilizzata dalla von Harbou nel disporre la città non in orizzontale ma in vari livelli verticali: a ogni livello viene associato non soltanto un corrispondente livello di potere, tale per cui più si scende in basso più il potere diminuisce, ma anche un diverso accesso alla vita sociale. Vale a dire che ha un livello urbano più basso si associa una peggiore qualità della vita: gli operai di Metropolis non possono avere nemmeno accesso alla luce solare.

Opera apocalittica sulla dittatura delle macchine, la divisione in classi e il desiderio di ribellione delle masse, Metropolis suona come una denuncia dello sfruttamento degli operai, non a caso descritti come una massa informe composta di automi, rappresentazione per eccellenza dell’alienazione dell’uomo a causa del lavoro. L’uomo esiste per controllare le macchine, descritte come la divinità di un tempio prive di cervello ma inesorabili e spietate nel distruggere la materia cerebrale degli uomini che sono loro assegnati.

Nel romanzo la scienza viene vista come sfida dell’intelligenza umana nei confronti di Dio: il grattacielo principale della città si chiama Nuova Torre di Babele mentre il grande ascensore che vi conduce è il Pater Noster, per cui la scienza diventa essa stessa nuova religione e fulcro di una società laica senza più valori certi di riferimento, destinata a crollare perché basata unicamente su circuiti ed energia e sulla volontà superomistica di un oligarca inflessibile e teso a oltrepassare ogni limite umano. La figura dello scienziato Rothwang, allo stesso tempo alchimista e mago, riprende la tradizione germanica del magico e del gotico (Hoffman, Frankenstein, Faust e il Golem), tanto che sulla porta della sua casa è tracciato pure un segno cabalistico (il pentacolo di Salomone). C’è però un’importante differenza: Rotwang non agisce per volontà di potenza ma per motivazione sentimentale. Infatti intende far rivivere l’amata Hel, “rubatagli” dall’oligarca Fredersen e morta di parto dopo aver dato alla luce il figlio Freder.

In questo quadro viene inserito il tema del doppio e della maschera, affidato alla doppia figura femminile: la donna angelicata cara ai poeti romantici rappresentata da Maria (in più occasioni definita “Madre” e “Vergine” e caricata di funzioni profetiche); e la donna diabolica rappresentata dall’automa con le fattezze di Maria (non a caso chiamata “Parodia” dal suo inventore) che rappresenta il lato oscuro e ferale del potere femminile, non nutritivo ma pericoloso simbolo erotico di seduzione e perdizione.
Non male per un melenso romanzo d’appendice.

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