mercoledì 22 giugno 2022

Roger Pater - Voci dall'Altrove

 

Robert Hugh Benson non è stato l’unico sacerdote a dilettarsi con le storie del soprannaturale tra il XIX e il XX secolo: il benedettino Roger Pater (al secolo Roger Hudleston) è una di quelle originali figure di sacerdoti scrittori che hanno popolato il cattolicesimo britannico di inizio Novecento e prova la diffusione delle storie di fantasmi nell’Inghilterra tardovittoriana. Uomo dalle molteplici doti (pare fosse in grado di risolvere in mezz’ora il cruciverba del “Times”), Pater immagina di avere a che fare con un anziano parente, Philip Rivers Pater, anche lui sacerdote e facoltoso signorotto di campagna, dotato di capacità extrasensoriali e “ricettore” di avventure soprannaturali. È lui il protagonista di questo Voci dall’Altrove, stranissimo esperimento di raccolta di racconti del soprannaturale secondo un punto di vista cattolico (in un Paese che aveva abbandonato la vecchia fede per passare alla Chiesa ufficiale, quella di Stato anglicana) per la prima volta proposta in italiano dalle Edizioni Gondolin: finora, a circolare erano stati solo tre racconti (De Profundis, Il lascito dell’astrologo e A Porta Inferi) in varie antologie della Mondadori, della Fanucci e della Newton Compton accanto alle storie di altri maestri del fantastico.


Si va da episodi come gli avvertimenti di morti di persone care (Avvertimenti) ai calici appartenuti a sacerdoti uccisi nella Rivoluzione francese che fanno rivivere le persecuzioni a chi celebra la messa (Il Calice della Persecuzione); dai luoghi che fanno rivivere messe celebrate da sacerdoti martirizzati (Il nascondiglio del prete) a una misteriosa confessione ricevuta in terra straniera da persone che dovrebbero essere morte (In Articulo Mortis). In De Profundis si racconta dell’apparizione di una suora defunta e impostora attorno alla quale si è sviluppato un culto privato non autorizzato in sfida alle autorità, mentre Di questi è il Regno dei Cieli racconta di una vera santa giovane che viene visitata dalla Vergine Maria fino alla morte prematura; Il lascito dell’astrologo verte su un bacile d’argento per l’acqua realizzato nientemeno che da Benvenuto Cellini e in possesso di una sfera di cristallo usata per evocare il demonio; A Porta Inferi riferisce di un curioso caso di possessione da parte di un efferato criminale che ha preso possesso del corpo e della volontà di un povero internato di manicomio. Ne Il tesoro delle Suore Turchine si parla di un cuscino miracoloso che guarisce dalla malattia grazie alla presenza al suo interno di reliquie di santi (tra i quali un avo del prete signorotto, Philip Rivers, martirizzato a Tyburn). Il guardiano è invece incentrato sulla storia di un uomo alla perenne ricerca della sua vocazione e del suo posto nel mondo, che gli risultano chiari solo dopo un’esperienza di morte apparente: aiutare gli indigenti dei bassifondi e i reietti della società, e per farlo si fa assumere come guardiano notturno. I passi sull’Aventino torna ancora il tema delle presenze soprannaturali, in questo caso legate a dei misteriosi passi nel Collegio Austriaco a due passi dalla Basilica di San Pietro a Roma, per l’appunto sul colle Aventino; Il capro espiatorio racconta di una terribile sciagura familiare di cui viene incolpato il figlio della vittima, il quale rinuncia a discolparsi. Nostra Signora della Rocca ci porta sulla costiera amalfitana dove sorge un monastero fondato da un eremita a cui appariva la Madonna: la statua della Vergine (capace di fare miracoli) è sparita ma, secondo la leggenda, verrà ritrovata da uno straniero. Ne La comunione dei santi si ragiona di terreno comune tra le varie confessioni cristiane e si torna alle voci soprannaturali che giungono improvvise: questa volta, per suggerire la predicazione e illuminare la conversione di un anziano quacchero.


La tecnica seguita da Pater è quasi sempre quella di una premessa incentrata sull’esplicazione di una teoria filosofica di cui poi il racconto del sacerdote anziano, basato su una sua esperienza personale, è una dimostrazione, e questo è uno di quei particolari che fanno sì che il testo appaia come datato, oltre a qualche legnosità e lungaggine. I fatti soprannaturali sono sempre tali, cioè non avviene alcuna rivelazione che li riporta su un piano reale e li motiva come conseguenza di un equivoco: anzi, simili fatti soprannaturali sono legati a oggetti, persone o luoghi del passato legati a qualche persecuzione del passato, ed è questo particolare a donare a Voci dall’Altrove un’unità maggiore rispetto ai racconti di Benson (La luce invisibile e Lo specchio di Shalott). Scritto da un prete con protagonisti preti, il volume è pieno di terminologia sacra preconciliare, per cui può fare la felicità gli amanti della liturgia tradizionale (quella in latino). A impreziosire l’opera, le bellissime illustrazioni di Domenico Vincenzo Venezia e una prefazione di inquadramento generale a firma di Luca Fumagalli.

mercoledì 1 giugno 2022

Julia Meloni - The St. Gallen Mafia

“Per molti cattolici l’elezione di papa Francesco è stata una sorpresa”: questa la frase che apre la Prefazione di questo libro dedicato alla famigerata Mafia di San Gallo, spettro che turba la mente di moltissimi tradizionalisti, tutto teso a dimostrare che l’elezione di Papa Francesco non è casuale, ma frutto di un lungo e meticoloso lavoro di erosione, distorsione e distruzione (della dottrina e della liturgia). Papa Francesco è stato messo lì per portare a termine una serie di obiettivi: da chi? Da un gruppo massonico di vescovi e cardinali che erano soliti trovarsi nella cittadina svizzera di San Gallo per contenere il conservatorismo di Wojtyła e Ratzinger ed eleggere un papa portatore delle loro istanze riformatrici e liberali. Ecco i nomi di alcuni dei congiurati (per la maggior parte già morti): Ivo Fürer (vescovo di San Gallo, Svizzera), Godfried Danneels (Bruxelles, Belgio), Karl Lehmann (Magonza, Germania), Audrys Juozas Bačkis (Vilnius, Lituania), Adrianus van Luyn (Rotterdam, Olanda), Walter Kasper (allora a Stoccarda, Germania). Ovviamente, altri vescovi e cardinali hanno in anni diversi partecipato ai lavori, ma il vero mastermind, l’antipapa, anzi, l’ante-papa come lui stesso si definì, è l’ex cardinale di Milan Carlo Maria Martini, con il suo sottoposto (e grande manovratore) Achille Silvestrini e il “kingmaker” Cormac Murphy-O’Connors, arcivescovo emerito di Westminster: purtroppo, al Conclave del 2005 Martini aveva il morbo di Parkinson, e quindi non poteva essere candidato dopo il lungo pontificato del malato Giovanni Paolo II (affetto anche lui dal Parkinson). Fallito il tentativo il tentativo di eleggere Bergoglio come successore di Giovanni Paolo II (2005) con una manovra tattica per veicolare i consensi su Ratzinger e impedire l’elezione di Camillo Ruini, il gruppo di pressione convince successivamente Benedetto XVI alle dimissioni e giunge infine ad eleggere Papa Francesco, il malefico Bergoglio, che nel 2013 aveva addirittura delle spie in Vaticano.


Con queste premesse, The Sankt Gallen Mafia. Exposing the Secret Reformist Group Within the Church si presenta come un libro imperdibile per tutti quelli (e sono tanti!) che passano la loro giornata a inveire contro la Chiesa modernista ed ecumenica, ma anche per chi fa della politica ecclesiastica la propria ragione di vita. L’autrice del libro, l’americana Julia Meloni, indica nella teologia di Karl Rahner l’origine e l’ispirazione del complotto e riprende dichiaratamente le tesi già proposte ne Il papa dittatore di Marcantonio Colonna, pseudonimo di Henry Sire, “storico” convinto che il Vaticano sia un’associazione a delinquere di stampo massonico e che la CIA abbia fatto crollare le Torri gemelle (il milieu culturale è quello dei reazionari ultracattolici anti-chiesa). Come tutti i complotti che si rispettano, anche quello della Mafia di San Gallo ha previsto un’organizzazione risoluta e una disciplina ferrea: in gioco c’era pur sempre il programma di riforme liberali come la decentralizzazione della Chiesa, la sinodalità permanente, la collegialità, il decentramento dogmatico, la liberalizzazione del preservativo, la comunione ai divorziati risposati, lo sdoganamento dell’omosessualità, il diaconato femminile, la riconciliazione del comunismo con il cristianesimo, la possibilità di votare per politici favorevoli all’aborto. In breve, un programma che ha cominciato a prendere corpo nell’enciclica di Papa Francesco Amoris Laetitia. Le altre cose verranno, in silenzio e con furbizia. Anche se è bene ricordare che (e il libro lo ricorda) c’era un conflitto tra Bergoglio e Martini, entrambi gesuiti, poiché quest’ultimo seguiva chiaramente la linea del famoso Pedro Arrupe, mentre l’argentino sarebbe stato più “moderato”. È proprio vero che non esiste il candidato perfetto, anche se il complotto va avanti inesorabile.


La Meloni attinge da una fitta pubblicistica (soprattutto di parte ultratradizionalista) e, con toni da thriller ecclesiastico, ricostruisce dichiarazioni, posizioni ed episodi degli ultimi 25 anni per dimostrare che la Chiesa cattolica è marcia dalla testa ai piedi, anzi, è una vera e propria Mafia. Si capisce chiaramente che alla Meloni non sta simpatico Papa Francesco che lava i piedi ai carcerati o l’idea della Chiesa ospedale da campo. Alla fine, resta il mistero di come una decina di cardinali (su un totale di 120) abbia potuto forzare un Conclave ed eleggere un papa, soprattutto tenendo conto che alcuni di questi cardinali non erano nemmeno presenti al Conclave del 2013 che ha eletto Bergoglio. Ma se ne ricava anche una consapevolezza: i colpevoli sono sempre gli altri, noi non siamo così, anzi abbiamo il compito di smascherare il complotto.

giovedì 26 maggio 2022

Taylor R. Marshall - Infiltration

Come è possibile che oggi i papi sostengano cose che i loro predecessori condannavano un secolo e mezzo fa? La ragione di ciò è semplice: malvagie cospirazioni sono riuscite a infiltrarsi nella Chiesa cattolica e a pervertirne la dottrina, la liturgia e la disciplina. Ad affermarlo è Taylor Marschall che, come tutti i convertiti dell’ultima ora, ha la verità in tasca e la deve insegnare al mondo. Infiltration. The Plot to Destroy the Church from Within non è un libro storico ma una visione di parte (ultra-tradizionalista) che presenta la storia come complotto dal buco della serratura e mira a scatenare il panico tra i fedeli facendo leva sulla loro emotività. Sebbene sostenga che le sue parole siano provate da documenti, l’autore interpreta e inserisce in continuazione le proprie opinioni personali, prendendo per vera ogni diceria e usando spesso la parola “voci” piuttosto che affermare fatti (ricorrendo a citazioni discutibili e lacunose). Gli obiettivi sono sempre gli stessi della narrazione ultra-tradizionalista: i massoni, i modernisti, i marxisti, Karl Rahner, Henri-Marie de Lubac, Jacques Maritain, Hans Küng, il Vaticano II, Bugnini (vero artefice del nuovo rito della messa), Giovanni XXIII, Paolo VI, l’occultamento del vero Terzo Segreto di Fatima, il cardinale Martini, l’inevitabile Mafia di San Gallo (che ha eletto papa Bergoglio), le dimissioni di Benedetto XVI, ilprode Carlo Maria Viganò, il famigerato Theodore McCarrick (che sarebbe un seguace della magia sessuale di Aleister Crowley). E poi via di P2, Sindona, Marcinkus, Calvi e Banco Ambrosiano, con tanto di omicidio di papa Luciani (ucciso dagli infiltrati all’interno della Chiesa, come dice il libro di David Yallop In nome di Dio). Quale soluzione può dunque esistere allo sfacelo, tra sedevacantisti, sedeprivazionisti e rassegnazionisti? Che i veri fedeli cattolici imitino l’arcivescovo Marcel Lefebvre e resistano agli insegnamenti e alle decisioni di Papa Francesco, del Vaticano II, della Messa del Novus Ordo, dell’ecumenismo e di qualsiasi altra cosa contraria a una visione ultra-tradizionalista del cattolicesimo. Non bisogna costruire ponti ma muri.


Marschall sembra non accettare che i papi siano uomini soggetti a degli errori e ne ha per tutti, anche per Pio XII che era troppo malato per opporsi ai germi di tutto quello che sarebbe venuto dopo. Lo stesso Giovanni Paolo II ne esce con le ossa rotte, colpevole di aver cambiato il Codice di Diritto Canonico, il Catechismo e il processo di canonizzazione dei santi, ma soprattutto di aver indetto la Giornata mondiale di preghiera per la pace di Assisi nel 1986, atto sacrilego che avrebbe scatenato l’ira divina e la punizione del terremoto del 1997 con il crollo del soffitto della basilica di Assisi. Al di là delle opinioni personali, più o meno legittime, il problema è che Marschall semplifica troppo le cose per farsi tornare sempre i conti: il modo in cui tratta il Concordato del 1929 tra lo Stato italiano e la Santa Sede (argomento complessissimo su cui si sono versati fiumi di inchiostro) è semplicistico e ridicolo, limitandosi a elencare i principi proposti da Mussolini a Pio XI prima della firma del Trattato e criticando poi il papa in modo infondato e poco caritatevole. Inoltre sostiene l’infiltrazione marxista nella Chiesa ma curiosamente non menziona mai Gramsci, il principale marxista italiano degli anni Venti che aveva legami con Lenin, che scrisse il libro di testo sull’egemonia culturale e la strategia per infiltrarsi nelle istituzioni occidentali. Inoltre cita Tolkien per giustificare le proprie posizioni liturgiche, riportando un aneddoto del nipote per dimostrare che era un autentico tradizionale contrario al Novus Ordo: peccato che sia l’unico caso citato, come se Tolkien fosse una insindacabile e definitiva autorità in materia e non un semplice narratore.


Detto questo, se la pensate come Marschall e condividete la sua visione di Chiesa di marca ultra-tradizionalista, questo libro fa per voi, anzi, vi farà letteralmente impazzire, perché troverete la conferma di tutte le vostre teorie. Io mi limito a coltivare il dubbio e a pensare che la realtà sia leggermente più complessa, come ogni bravo modernista.

venerdì 25 febbraio 2022

Andrzej Sapkowski - La spada del destino

 

Ed eccomi di nuovo ad affrontare la saga di The Witcher, tornata alla ribalta grazie alla serie tv targata Netflix (di cui però non ho ancora visto la seconda stagione), questa volta con il secondo capitolo La spada del destino («La spada del destino ha due lame. Una sei tu»), che è sempre una raccolta di racconti e di cui ho già parlato anni fa in maniera esauriente QUI. Rispetto al primo Il guardiano degli innocenti, è forse meno focalizzato sulla rielaborazione (e il sovvertimento) del patrimonio favolistico ma lo spirito è lo stesso, e Sapkowski dimostra di essere migliorato come autore, gestendo meglio personaggi e trame. L’ultimo racconto, Qualcosa di più, è stupendo: un crescendo in cui vediamo tutti i momenti della vita di Geralt nei quali lo strigo ha rifiutato l’idea di destino, mentre in fin di vita si rende conto di essere solo e abbandonato da tutti, dalle amanti e addirittura dalla madre, e di avere un nome e una provenienza che non sono nemmeno veri; eppure alla fine scopre di non essere solo davvero e non può negare di essere di fronte a quel “qualcosa in più” che era convinto non sarebbe mai arrivato.

sabato 15 gennaio 2022

Nicholas Blake - Il caso dell’abominevole pupazzo di neve

 
Non è una novità del panorama editoriale internazionale questo Il caso dell’abominevole pupazzo di neve, scritto da Nicholas Blake, pseudonimo del poeta Cecil Day-Lewis (1904-1972), padre del celeberrimo attore Daniel Day-Lewis e autore di una ventina di gialli con protagonista l’investigatore Nigel Strangeways. Credo sia la prima volta che un suo romanzo sia stato tradotto e pubblicato in Italia, tra l’altro con una copertina meravigliosa molto simile a quella de Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton (anche se i libri sono molto diversi). La vicenda è ambientata a Dower House, Easterham Manor (una cinquantina di chilometri da Londra), dove la famiglia Restorick (adulti e bambini) è riunita per l’approssimarsi delle festività natalizie. Nigel e la moglie vengono invitati nella dependance di Dower House dall’anziana proprietaria che vuol far indagare al nostro detective (presentato come un esperto di soprannaturale) su cosa è successo durante una seduta spirita nella Stanza del Vescovo (come ogni dimora inglese che si rispetti Dower House ha una leggenda di fantasmi): il gatto di casa è impazzito e si è addormentato improvvisamente. Il giorno successivo all’arrivo dei coniugi Strangeways, la sorella della padrona di casa, Elizabeth Restorick, viene trovata morta impiccata nella sua camera: il classico delitto della camera chiusa, il suicidio sembra ovvio. Nigel però dubita e comincia a indagare: ci sono dei personaggi collegati alla famiglia che danno molto da pensare (lo scrittore progressista, il fratello devoto, l’amica gelosa). La vittima era troppo disinibita per l’epoca (i primi anni della Seconda Guerra Mondiali), troppo libera di costumi e di mentalità, un passato di dipendenza dagli stupefacenti e un figlio avuto da chissà chi. A Dower House si è trasferito anche il suo medico psicologo/terapeuta/ipnotista che la stava seguendo negli ultimi mesi. Le indagini procedono nel pieno rispetto delle regole del genere con osservazioni e intuizioni fino all’identificazione del colpevole, che ovviamente è tra i personaggi principali della vicenda e viene smascherato dal classico monologo finale in cui l’investigatore spiega quanto è stato bravo a risolvere il caso. Non si tratta certamente di un capolavoro della letteratura poliziesca e non brilla certo per sottigliezza psicologica, e per giunta il protagonista è piuttosto canonico (Nigel Strangeways non è di certo Poirot, così come Nicholas Blake non è Agatha Christie), ma Il caso dell’abominevole pupazzo di neve è un giallo all’antica, che dà l’immagine dell’epoca nella quale è ambientato (c’è la guerra ma non è ancora iniziato il bombardamento dell’Inghilterra), in una dimensione che sembra aver cristallizzato il passato (e presente e passato sono intrecciati anche nel caso della famiglia Restorick). Simpatico vedere gli imbranati poliziotti che si trovano ad avere a che fare con un cadavere dopo essersi sempre occupati delle beghe di paese.

martedì 30 novembre 2021

Paolo Nardi - Leggiamo insieme Lo Hobbit

 

E così siamo arrivati al secondo libro. Dopo Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli, di cui è in lavorazione una seconda edizione riveduta e ampliata di 30 pagine con una nuova copertina, ecco arrivare nelle librerie (poche purtroppo) Leggiamo insieme Lo Hobbit, il fratello minore se vogliamo. Di seguito la mia introduzione che inquadra il volume, dedicato a un romanzo ingiustamente bistrattato come opera “per bambini” ma in realtà pieno di sorprese. Qui non c’entra la nuova traduzione di Ottavio Fatica, quindi potete anche darmi una possibilità.

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Sebbene sia spesso pubblicizzato come un libro per bambini e non sia minimamente paragonabile per ricchezza e complessità al Signore degli Anelli (che curiosamente nacque proprio come sequel su richiesta del suo editore), Lo Hobbit accompagna la mia vita sin dall’infanzia, cioè da quando mia mamma mi raccontava la storia di Bilbo Baggins e del drago Smaug: la storia del punto debole nella corazza di un drago che poi veniva colpito dalla freccia di un arciere ha sempre esercitato un fascino irresistibile sulla mia fantasia.
Certo, è un romanzo che apparentemente si presenta come una favola, a partire dalle storie che Tolkien raccontava ai figli, slegata dal suo legendarium che era andato elaborando sin dal 1917: tuttavia, scrivendo Il Signore degli Anelli, Tolkien stesso si accorse che il sequel metteva in luce diverse incongruenze presenti ne Lo Hobbit. Non a caso nel 1951, 14 anni dopo la pubblicazione avvenuta nel 1937, apportò alla seconda edizione alcune modifiche, tra cui la riscrittura del quinto capitolo, Indovinelli nell’oscurità, per fornire la versione “autentica” di come Bilbo si fosse imbattuto nell’Anello magico di Gollum. In origine, Gollum aveva messo in palio il prezioso oggetto per il vincitore della gara di indovinelli, invece ora Tolkien fece in modo che Bilbo lo trovasse per caso. Poi aggiunse un capitolo esplicativo, La cerca di Erebor, per spiegare il perché della missione dei nani e dell’aiuto di Gandalf nel quadro generale della Guerra dell’Anello, a partire dal primo incontro tra Gandalf e Thorin a Brea.
Gli venne addirittura in mente di riscrivere il romanzo con lo stile del Signore degli Anelli, ma abbandonò il progetto e in questo modo preservò il fascino dell’originale. Un po’ lo stesso problema davanti a cui si è trovato Peter Jackson quando si è trovato a dover realizzare la sua seconda trilogia dopo aver già raggiunto il successo con quella del Signore degli Anelli: in qualche modo il regista neozelandese ha tentato di fare quello che Tolkien non aveva potuto, cioè rendere tutto più epico e meno favolistico, ma soprattutto coerente con lo stile caratteristico degli altri film.
Lo Hobbit rimane una deliziosa favola caratterizzata da elementi tipici delle fiabe: i nani, il drago, un tesoro conteso da recuperare, fughe a rotta di collo, episodi di metamorfosi, foreste piene di pericoli e animali parlanti. La struttura è quella classica della Cerca (in questo caso la ricerca di un tesoro) e dell’archetipo letterario del viaggio dell’eroe che torna con degli oggetti magici (l’Anello) e una consapevolezza nuova. Lo dice espressamente lo stesso Tolkien all’inizio della sua narrazione: “Questa è la storia di come un Baggins ebbe un’avventura e si trovò a fare e dire cose del tutto imprevedibili. Può anche aver perso il rispetto del vicinato, ma guadagnò… be’, vedrete voi stessi se alla fine guadagnò qualcosa”. D’altra parte, il sottotitolo originale, There and Back Again, cioè Andata e ritorno (sempre ignorato dalle edizioni italiane che l’hanno trasformato prima in La riconquista del tesoro e poi in Un viaggio inaspettato), allude proprio a questo: alla crescita del personaggio e alla sua trasformazione, alla scoperta del ruolo che è chiamato ad assumere nonostante il suo conformismo e la sua scarsa propensione all’avventura.
Bilbo è l’esempio di come persone ordinarie siano capaci di realizzare grandi imprese e di diventare addirittura sagge, adattandosi alle situazioni e affrontandole con pazienza. Lo stregone Gandalf e i nani gli fanno intraprendere un’avventura che lo metterà a contatto con molte prove e difficoltà e lo porteranno a capire che nella vita c’è molto di più che agio e comodità. Ovviamente lo hobbit non è l’unico personaggio che cambia all’interno dell’avventura: si pensi al nano Thorin, che cede alla cupidigia e alla malattia del drago in un alternarsi di luci e ombre, caduta e redenzione.
Soprattutto, l’umorismo e le frequentissime intromissioni del narratore, il familiare “che lo crediate o no”, le ricapitolazioni introdotte dal “come ricorderete” e le parentesi destinate a far ridere il lettore, contribuiscono forse a rendere Lo Hobbit l’opera tecnicamente meglio scritta tra quelle di Tolkien, o almeno quella più coerente e uniforme, in possesso dello stesso registro dall’inizio alla fine. Anzi, Tolkien non riuscirà mai a essere più divertente di così: valga per tutti l’episodio di Ruggitoro Tuc, pro-prozio di Bilbo, che prese parte alla carica contro le schiere degli orchi e colpì staccando di netto la testa del re nemico con una mazza di legno, risolvendo così la battaglia e inventando allo stesso tempo il gioco del golf.
Ovviamente, come favola, manca la dimensione seria e tragica del suo fratello maggiore (Il Signore degli Anelli), così come il pathos di scene come quelle delle Miniere di Moria o del Passo di Cirith Ungol, ma non bisogna dimenticare che il romanzo termina con la drammatica morte di Thorin e la Battaglia dei Cinque Eserciti, cioè una guerra di carneficina a tutti gli effetti, elemento ben poco favolistico e “fanciullesco”. Inoltre mi sembra di poter ravvisare in nuce la stessa critica nei confronti del progresso scientifico incontrollato che è fonte di distruzione più di quanto lo sia di corruzione; anche la concezione di tempo individuale e tempo mitico ricorda la quella che troveremo nel Il Signore degli Anelli.
Piuttosto, se quest’ultimo romanzo è stato vittima di una serie di interpretazioni forzatamente allegoriche, simboliste e politiche che ne diminuiscono il valore e la portata, Lo Hobbit ha subito invece un’operazione di svilimento per la sua stessa natura di favola: perché infatti leggere e considerare quello che, a conti fatti, è solo un libro per bambini? Così facendo si dimentica che è la presenza del protagonista, un piccolo hobbit con il panciotto e i piedi pelosi, a costituire la novità il fascino di questa storia, gettando un ponte tra le antiche fiabe e il lettore di oggi e configurandosi in tutto e per tutto come un romanzo moderno.
Nel mare di letteratura critica internazionale non mancano comunque delle interessanti letture politico-economiche, che dipingono i personaggi positivi del romanzo come paladini del libero mercato contro le storture del capitalismo. C’è addirittura chi ha parlato di alleanza tra la classe medio-bassa (Bilbo) e i minatori della classe operaia (i nani) in modo da usurpare il potere del capitale parassita, che vive grazie al lavoro della povera gente, accumulando benessere senza avere la capacità di apprezzarne il valore (il drago).
Al di là della liceità di simili teorie, ritengo che così facendo si rischi di perdere il senso centrale dell’opera, che resta prima di tutto il racconto di un viaggio: in fondo, l’intenzione di Tolkien non era quella di realizzare un romanzo allegorico o a tesi. Bisognerebbe tenere presente che Tolkien non lavorava a partire da idee o da manifesti, ma da parole e nomi. Certo, nel Signore degli Anelli ci sono più di 600 nomi di “persone, animali e mostri” e quasi altrettanti toponimi, con l’aggiunta di circa duecento oggetti non classificabili ma ugualmente dotati di un nome, mentre ne Lo Hobbit sono presenti 40-50 nomi propri inseriti in maniera piuttosto noncurante. Un confronto tra le due opere, quindi, è improponibile, ma il modo di approcciarsi alla narrativa è lo stesso: un approccio filologico, che troppo spesso è stato trascurato o dimenticato.
In questa mia analisi, ho ripreso la struttura del mio precedente Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli, cioè quella capitolo per capitolo: nel caso de Lo Hobbit, ogni capitolo assume un ruolo narrativo ben preciso e si distingue per la diversa collocazione geografica e la presenza di nuovi personaggi e nuove creature. Questo rende i diversi capitoli dei piccoli universi a sé stanti, con le proprie prove e le proprie problematiche, pur collegati tra loro in una struttura per nulla casuale, come dimostrato da William Green nel suo fondamentale Lo Hobbit. Un viaggio verso la maturità: il romanzo è popolato di doppi, in una continua simmetria rovesciata di luoghi e situazioni, particolari che confermano la famosa dichiarazione di C.S. Lewis per cui, solo alla dodicesima rilettura in età adulta, Lo Hobbit avrebbe rivelato tutti i suoi livelli di lettura.
Inoltre, proprio come nel caso di Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli, questo libro non porta nulla di nuovo, anzi è del tutto derivativo: mi sono semplicemente avvalso di quanto detto dallo stesso Tolkien nelle sue Lettere e di una serie di mostri sacri di riferimento che nel corso degli anni hanno plasmato la mia lettura dell’opera di questo scrittore. Mi riferisco a Tom Shippey (Tolkien autore del secolo e La via per la Terra di Mezzo), Wu Ming 4 (Difendere la Terra di Mezzo), Brian Rosebury (Tolkien, un fenomeno culturale) e Andrea Monda (A proposito degli Hobbit), ma anche a raccolte come Lo Hobbit e la filosofia, In te c’è più di quanto tu creda e soprattutto C’era una volta… Lo Hobbit. Senza per questo dimenticare Lo Hobbit annotato di Douglas Anderson, l’edizione definitiva del romanzo grazie al consistente apparato di note esplicative.
L’edizione che ho preso a riferimento è quella Bompiani del 2012, che presenta la traduzione di Caterina Ciuferri, non quella storica Adelphi di Elena Jeronimidis Conte: ho preferito così perché, a parte la trasformazione di qualche toponimo (Bosco Atro è diventato Boscotetro e l’Archepietra è tradotta Arkengemma), i nomi sono stati rimessi al loro posto, soprattutto i troll che nella vecchia traduzione erano diventati dei misteriosi Uomini Neri, mentre sono stati fatti sparire i poco verosimili alimenti come la pizza e il mascarpone (quest’ultimo ha lasciato posto ai fiocchi di crema di latte). Anche il ritmo e lo stile, nella traduzione di Caterina Ciuferri, sono meno legati alla tradizione italiana e più vicini al modello anglosassone. Non me ne vogliano i sostenitori della vecchia edizione Adelphi, che aveva anche delle intuizioni notevoli: per esempio Forraspaccata, nome escogitato da Elena Jeronimidis Conte per rendere l’originale Rivendell, era a mio giudizio una variante molto più bella di Gran Burrone della traduzione del Signore degli Anelli di Vittoria Alliata (recentemente Ottavio Fatica ha proposto il più convincente Valforra).
Ho cercato di mettere in luce come, attraverso la fiaba e la capacità di riplasmare il patrimonio delle leggende nordiche, Tolkien cerchi di trasmettere valori etici importanti come la lealtà, l’onore, il coraggio, la clemenza, la generosità e l’umiltà, ma soprattutto l’apertura al diverso: il romanzo è permeato da una critica all’immobilismo, alla diffidenza e alla chiusura verso gli altri. È la stessa cosa che ritroviamo nelle parole dell’elfo Gildor a Frodo nel Signore degli Anelli: “Il mondo intero è tutt’intorno a voi: potete chiudervi dentro la Contea, ma non potete chiudere fuori il mondo per sempre”. Non ci si può nascondere dalle influenze del mondo esterno, pensare di vivere nel migliore dei mondi possibili e che l’orizzonte si esaurisca poco oltre il proprio giardino o con il fiumiciattolo dietro casa.
Solo mettendosi in gioco, andando al di là dei propri pregiudizi e delle proprie idee di vita comoda, e aprendosi ad altri universi valoriali diversi dai nostri, sarà possibile mettersi in viaggio e forse scoprirsi eroi, riuscendo a portare indietro qualcosa dal nostro viaggio e a ristorare il mondo.

sabato 13 novembre 2021

Paolo Mieli - L'arma della memoria

 

Historia magistra vitae è una frase che è bella da ricordare ma che non serve a nulla. Spesso i vincitori si fanno tornare i conti e aggiustano le cose a danno dei vinti e si ricostruisce il passato proprio e collettivo a proprio uso e consumo, semplificando e creando categorie, prime fra tutte quelle di “buoni” e “cattivi”. Invece un “onesto uso della memoria” comporterebbe un continuo mettere in dubbio ciò che già si sa del passato per andare al di là e scoprire ancora meglio le ragioni del presente. Ecco perché gli studi fatti durante l’obbligo scolastico decenni fa non sono più attuali, perché i libri di testo spesso datati ed edulcorati ed esemplificano fenomeni molto complessi. A spiegarlo è ancora una volta Paolo Mieli in questo L’arma della memoria, che è ancora una volta una raccolta di articoli e recensioni come per altro fanno in molti (ed è quindi inutile bollarla come un’operazione “di cassetta”) e per giunta è espressione di quello che viene dipinto come il principale intellettuale organico al sistema, che sulla televisione di Stato intende spostare gli equilibri della divulgazione storica a destra o a sinistra a seconda della convenienza. Curiosamente, questi suoi articoli sono uno dei modi più interessanti per parlare di storia e di ragionare come la ricerca storica evolva nel tempo, alla luce delle nuove scoperte e interpretazioni. A ben guardare, sin da subito Mieli è molto attento a rivendicare la serietà e l’importanza del mestiere dello storico contro le derive fin troppo comuni della nostra società: il complottismo, «cioè la pretesa di modificare i termini della discussione con l’inserimento di tesi suggestive ancorché indimostrabili» su una presunta Grande Cospirazione Mondiale, e il trasferimento del dibattito storiografico nelle aule di giustizia e nelle carte dei magistrati su fatti sui quali neanche gli storici di professione sono riusciti a fare luce in modo definitivo.

Mieli affronta quindi molti dei luoghi comuni che popolano il nostro immaginario in quanto frutto di revisioni del passato e creazione di miti intoccabili funzionali all’interesse del momento o per avvalorare le proprie tesi politiche o religiose, come l’idea che prima dell’avvento della modernità nel mondo si stesse tutti fermi: in realtà ci si muoveva continuamente, soprattutto nel Medioevo (sovrani, ecclesiastici, politici, dignitari, soldati, studenti, mercanti), mentre a paralizzare tutto furono le guerre napoleoniche a inizio Ottocento. La realtà è sempre più complessa di come la si vorrebbe raffigurare: valgano gli esempi degli ambigui rapporti tra Europa medievale e Impero bizantino fino alla sua caduta, il supposto conservatorismo di Metternich, l’11 settembre del 1683 (l’assedio di Vienna) quando i turchi commisero l’errore di pensare che il mondo cristiano fosse un’unità compatta e non divisa al suo interno. E bisogna anche diffidare delle “leggende nere”, valgano per tutte quella creata dai gesuiti del complotto giansenista per la distruzione della Chiesa a quella della decadenza e corruzione dei gesuiti stessi in seguito al loro scioglimento nel 1773, diffusa dai loro nemici illuministi: in realtà, i problemi erano di natura politica e trovano la loro origine dalla situazione del Sudamerica e dalla schiavizzazione degli indios. Neanche il Risorgimento è così caratterizzato da bianchi e neri: si prenda l’esempio dell’insubordinazione di Garibaldi che culminò in uno scontro sull’Aspromonte con l’esercito regio, oppure quello del tanto calunniato Regno delle Due Sicilie dei Borbone, che non fu così reazionario come è sempre stato dipinto: anzi, fu capace di inglobare istanze legittimiste e altre provenienti dal precedente regime murattiano, mantenendo (a differenza dei tanto celebrati Savoia) le riforme del decennio napoleonico. Allo stesso modo, non è vero che i liberali meridionali fossero affratellati dalla comune fede politica risorgimentale, così come non è vero che i cattolici erano tutti antiunitari.

Da sottolineare anche la storia del Trattato teologico-politico di Spinoza del 1670, un appassionato tentativo di esercitare la libertà di pensare propugnando un clima di tolleranza e del tentativo di bloccarlo da parte delle gerarchie religiose calviniste olandesi, che non potevano tollerare i dubbi sollevati sulle Sacre Scritture. Nel caso di Galileo, invece, bisognerebbe tenere conto che la questione è stata cambiata radicalmente, tanto che nell’immaginario collettivo lo scienziato è considerato solo un anticlericale che si scontra con «filosofi testardi» e «preti che vomitano fuoco», sminuendo di molto la ricchezza del personaggio, genio eclettico sia matematico che umanista. Inoltre, la sua opera fu dichiarata eretica nel 1616 ma due secoli dopo il problema dell’eliocentrismo si ripropose per il Sant’Uffizio con un’altra opera di Giuseppe Settele che provocò una prima crepa nella censura cattolica e fece cambiare idea in una lettura tradizionale delle Sacre Scritture ma non contraria alla fede. E si arrivò così a Leone XIII che stabilì, pur senza nominare Galileo, che Dio non insegnava fisica tramite Mosè, e quindi il Concilio Vaticano II con la riapertura del caso e la commissione di studio istituita da Giovanni Paolo II.

Una consistente parte del volume è dedicata agli ebrei, ai loro rapporti con l’Islam che prima in qualche modo garantì i loro diritti come dhimmi ma poi li espulse dalla Spagna musulmana; questione molto interessante è la tesi che presenta i rapporti degli ebrei con i re medievali che caratterizzò larga parte della storia degli ebrei europei che cercarono con questa “alleanza regia” di sfuggire ai potenti locali e all’ostilità nei loro confronti: solo uno Stato centralizzato poteva garantire e appoggiare i loro diritti, ritenendo che ci avrebbero pensato gli Stati a debellare l’antisemitismo. Con il risultato che nel corso dei secoli la fedeltà agli Stati e ai loro apparati e l’appoggio dato all’unificazione di Paesi come Italia e Germania fece sì che si coagulasse contro di loro un antisemitismo che otteneva l’assenso dell’opinione pubblica, perché gli ebrei venivano visti come i principali rappresentati dello Stato. Ma è singolare il capitolo sul comportamento di Hannah Arendt durante il processo Eichmann, al centro del suo famosissimo La banalità del male: la Arendt mancò dall’aula per buona parte del processo, mise in cattiva luce i poliziotti israeliani e i Consigli ebraici ed equiparò i sionisti ai nazisti, anche se alla fine fu favorevole alla pena di morte.

Interessantissima la questione della pluralità dei Rinascimenti non solo europei: per l’Italia e l’Europa, infatti, c’è chi fa iniziare il Rinascimento con Petrarca, con la caduta di Costantinopoli (1453) o con la scoperta dell’America (1492), ma altri Paesi e altre civiltà hanno avuto in altre epoche il loro Rinascimento, inteso come apertura verso la modernità, mentre oggi osserviamo come il Giappone, le “tigri asiatiche” e probabilmente anche la Cina «siano all’avanguardia della modernità, anche se apparentemente non hanno mai avuto un loro Rinascimento. Apparentemente, appunto». Una questione che si inserisce nel più complesso tema della storiografia globale e non eurocentrica: nonostante i proclami, gli storici hanno in qualche caso manifestato una maggiore attenzione al resto del mondo, ma hanno sempre ricondotto il tutto alle leggi ferree dell’eurocentrismo. 

Potrà non piacere, ma Mieli è il primo a denunciare l’egemonia che gli storici di sinistra hanno esercitato e tendono a esercitare sulla storia della Resistenza e dei rapporti dei partigiani con gli Alleati (l’uccisione del filosofo fascista Giovanni Gentile rientrerebbe in questo gioco molto pericoloso), ed è abilissimo nel districare gli attriti tra Mussolini e il re nella singolare diarchia che per vent’anni ha retto l’Italia. Allo stesso tempo sottolinea l’occasione non colta dal duce nei confronti dei Paesi anglosassoni, quando riuscì a godere di prestigio presso Churchill in ottica antisocialista e il suo modello corporativo fu visto favorevolmente da Roosevelt. Tra gli altri problemi affrontati, il terrificante microcosmo delle navi negriere con mortalità elevata anche per gli equipaggi, la trasversale riabilitazione di Attila, la bufala del carteggio Mussolini-Churchill.