
Allo stadio di Berlino, si disputa l’amichevole Germania-Inghilterra e per un migliaio di hooligans britannici è un pretesto per varcare la Manica e per concedersi un’indimenticabile trasferta fatta di sesso, droga e violenza. E così, al grido di “Due guerre e una Coppa Rimet”, gli hooligans attraversano la Manica sfasciando i traghetti, vomitano sulle turiste, fanno tappa ad Amsterdam impazzando nel quartiere a luci rosse, e tengono in scacco la polizia locale dando alle fiamme tre automobili. Ad aspettarli un reggimento di naziskin armati di tirapugni e mazze da baseball. In mezzo a tutto questo, il protagonista Tom, che vive quest’esperienza come un dovere, in nome di un codice virile da rispettare, ed Harry, che partecipa alla trasferta per superare la perdita di un amico morto sugli spalti ma che finisce imbarcato in avventure sessuali paradossali: prima con una prostituta thailandese, di cui si innamora inspiegabilmente, poi con una gnocca conosciuta sul traghetto che si rivela essere una ninfomane violenta. E in questo modo riesce a elaborare il lutto per la morte del suo migliore amico, aprendosi a una concezione meno ristretta del mondo. La cosa strana è la prospettiva di questi personaggi, che vedono nella trasferta della nazionale una specie di viaggio iniziatico, capace di trasformare la loro miserabile vita fatta di lavoro, frustrazioni e pestaggi, in un happening collettivo, capace di unire tutti, al di là delle differenze e degli odi locali (i protagonisti sono ultrà del Chelsea, e in patria odiano fino alla morte quasi tutti gli avversari). Perché, questa volta, in discussione c’è l’onore nazionale, una superiorità che va difesa a ogni costo: la razza guerriera degli inglesi deve far pagare ai tedeschi i gas asfissianti della prima guerra mondiale e i bombardamenti della seconda, oltre che inscenare una grandiosa replica dello sbarco in Normandia. Non per niente c’è un altro personaggio, il vecchio Bill, che allo sbarco in Normandia ha partecipato davvero, e che ripensa alla guerra e al dopoguerra, ai volti del dolore e della solidarietà, e decide di intraprendere un simbolico viaggio in Australia dove si è stabilito suo nipote. Il calcio è una guerra, è una metafora della vita, e le guerre sono tutte uguali (siano fatte con le armi o con un pallone). È l’essere inglesi il collante, la consapevolezza di essere diversi, più umani nonostante l’essere hooligan, perché i nazisti erano altri, erano loro a fare il male. E, inoltre, essere inglesi significa essere contro l’Europa, perché in Europa ci stanno i banchieri dell’Unione Europea, gli stessi che hanno dato origine al fascismo, o i subumani spagnoli e italiani. Gli inglesi sono isolani, non europei. È buffo leggere dell’hooligan che davanti alla casa di Anna Frank pensa che i nazisti gassavano gli ebrei, e che gli ebrei sono i tifosi dell’Ajax e del Tottenham, cioè coloro che lui odia. In fondo, un barlume di umanità. Un libro strano, di cui mi sfugge in fondo l’obiettivo (chi può credere alle tesi sostenute da chi scrive in prima persona, soprattutto considerando che alla fine la guerra si trasforma in un videogioco, quello a cui gioca Harry?), strutturato però con una certa inventiva. Certo, le parti di Bill che ricorda la guerra sono troppo lunghe, però ho apprezzato il fatto di aver evitato nella traduzione tutti i congiuntivi sostituendoli con l’imperfetto, rende molto bene il tono dei personaggi. Alla fine credo si tratti solo di una gigantesca presa in giro caricaturale.