domenica 25 novembre 2007

Georges Simenon - Il pazzo di Bergerac

Mentre la moglie è in Alsazia dalla sorella che sta per avere un bambino, il commissario Maigret accetta l’invito di un collega che si è ritirato a vivere in campagna. Ben presto però il viaggio verso la quiete di Villefranche-en-Dordogne si trasforma in un incubo: l’uomo della cuccetta sopra la sua tutto fa tranne che dormire, si agita senza tregua, geme, forse piange. Poi, all’improvviso, si butta giù dal treno e poi, nel buio, spara al commissario che d’istinto lo ha seguito. Quindi Maigret, ferito, viene scambiato da una folla inferocita per il pazzo che sta seminando la morte a Bergerac uccidendo donne e fanciulle. Paralizzato da una grave ferita alla spalla e armato solo della sua perspicacia (ma coadiuvato dal preziosissimo aiuto della moglie che lo ha prontamente raggiunto), Maigret si ritrova ad affrontare uno dei misteri più oscuri della sua carriera, convinto che il colpevole sia da rintracciare tra il commissario locale, il giudice, il procuratore e il dottore che assiste la sua ferita. Ma per farlo deve limitarsi a osservare la vita di paese dalla finestra del suo albergo: Maigret si ritrova a Bergerac, ma si deve immaginare Bergerac ancora prima di vederla. Una città dove tutti si conoscono e tutti sanno tutto di tutti, dove Maigret è avvertito come estraneo e invasivo perchè proveniente da Parigi (soprattutto per la sua volontà di investigare nella vita privata dei vari personaggi). Proprio qui sta il bello dei romanzi di Simenon (ed è la stessa ragione per cui oggi non vengono capiti): pur nella totale assenza di azione, all’interno di uno scenario immobile e asfittico, grande spazio viene riservato alla caratterizzazione psicologica dei personaggi e all’investigazione degli animi, in una realtà generalmente molto povera dal punto di vista umano (il procuratore che guarda foto pornografiche).

venerdì 23 novembre 2007

Steve Monroe - Chicago, 1946

Il corrotto poliziotto Gus Carson viene coinvolto in una sparatoria in un bordello e uccide un misterioso assassino che ha appena ucciso due uomini. Un duplice omicidio apparentemente incomprensibile, perché si scopre che le due vittime sono un avvocato e un giardiniere. Gus viene quindi espulso dalla polizia, e ingaggiato come detective privato da Arvis Hypoole, facoltoso uomo politico con l’ambizione di diventare sindaco: suo compito sarà scoprire i responsabili del rapimento del boss delle scommesse clandestine, Ed Jones, e mettere cosi a nudo l’inefficienza dell’amministrazione democratica in carica. Per questo dovrà trovare Ed Jones prima dell’Fbi, e questo significa il tempo di una settimana (il romanzo è diviso secondo i giorni della settimana), ma ben presto l’affare si complicherà e gli scenari che si apriranno sono altri: la possibilità di mettere le mani sul denaro delle scommesse clandestine, se non addirittura di ricattare la comunità nera perché essa voti per i repubblicani. C’è pure la possibilità che Hypoole abbia messo su tutto questa pantomima per nascondere una sua azione e liberarsi dei possibili testimoni. Un ottimo noir,  scritto secondo i canoni della migliore hard boiler school, quella di Chandler, MacDonald e Spillane, e per questo forse un po’ di maniera: una scrittura secca, decisa e avvolgente, oserei dire trascinante, con qualche dose di violenza in più per stare al passo coi tempi (il protagonista lascia dietro di sè, direttamente o indirettamente, una montagna di cadaveri). La novità sta nell’inserimento del ragionamento sulla guerra, sul ricordo dei volti dei compagni caduti sotto il fuoco giapponese che tornano a tormentare il protagonista e gli fanno vedere la vita in modo diverso. Ma Gus, come Marlowe, Archer e Hammer, non è uno stinco di santo (il romanzo inizia con una fellatio in un bordello…), anzi, è piuttosto un gaglioffo che riesce a barcamenarsi tra le situazioni peggiori con una buona dose di pelo sullo stomaco, pur con un suo codice morale. Tra malavitosi neri e mafiosi italiani, tipici del contesto di Chicago in cui è ambientato il romanzo, come al solito l’ostacolo peggiore è rappresentato dall’alta società, corrotta e con molti scheletri nell’armadio. Non manca nemmeno la figura della femme fatale, dalla natura ambigua di seduttrice irresistibile e perversa ingannatrice. Insomma, un noir manierista, realizzato con tutti gli elementi del caso. Piuttosto Monroe eccelle nei dialoghi, davvero tesissimi e pieni di humour nero e tagliente, purtroppo non sempre ottimamente resi dalla traduzione, che tavolta annaspa non riuscendo a cogliere il vero senso delle battute (per non parlare poi della traduzione delle World Series di baseball con il termine “mondiali”…).

venerdì 16 novembre 2007

Jerome K. Jerome - Tre uomini in barca

Un libro nato come una guida turistica e letteraria, che non è altro che la strampalata storia di tre amici (l’autore, Harris e Gorge) che decidono, non senza difficoltà di accordo, di intraprendere, insieme al fido cane Montmorency, un viaggio in barca lungo le rive del Tamigi (dei quattro, il cane è il più avveduto: infatti, quando viene messa ai voti la decisione di partire per la gita in barca, è l’unico che vota contro). Alla gita sul Tamigi si arriverà molto tardi: il resto è preparazione attraverso l’ozio. Ne nasce un libro esilarante, in cui la trama è solo il pretesto per una serie di irresistibili saggi di puro humour britannico, con piccole sventure e comiche avventure, curiosi aneddoti di costume e digressioni su quei luoghi. Dal folgorante inizio in cui l’autore, dopo la lettura di un testo di medicina, scopre di essere il ricettacolo di tutte le malattie possibili e immaginabili, tranne il “ginocchio della lavandaia”. O le peripezie dello zio Podger che, con l’aiuto dell’intera famiglia, ivi inclusa la domestica a ore, decide di appendere un quadro in salotto (mitica la scena della ricerca della sua giacca, su cui è seduto). L’avventura dell’amico con le forme di formaggio, o quella dello zio che viaggia per nave fino a Liverpool non potendo approfittare, per colpa del mal di mare, delle due sterline al giorno pagate in anticipo per i pranzi. I celebri aforismi (“Mi piace il lavoro, mi affascina. Potrei stare per ore seduto ad osservarlo”), le considerazioni sull’attendibilità delle previsioni del tempo (“la peggiore delle frodi”!), i consigli su come preparare il the e sbucciare le patate, i giusti metodi per imparare a navigare e raccontare frottole credibili quando si pesca (l’episodio dell’enorme esemplare di trota appeso alla parete di una locanda con un numero infinito di persone che ne attestano la paternità!). Il racconto degli incontri furtivi fra Enrico VIII e Anna Bolena, così invasivi da costringere i sudditi alla pirateria, o le notazioni sulle visite ai pub Harris di cui, come per quelle della regina Elisabetta I, sarebbe più utile lasciare targhe per ricordare quelli a cui non ha fatto visita. La camicia di Gorge finita nel Tamigi, o Harris che, dopo aver fatto perdere una folla di gente nel labirinto di Hampton Court, dichiara di non riuscire a sottrarsi all’impressione di essere divenuto, entro una certa misura, impopolare. Straordinario il capitolo che mette alla berlina la deprecabile ossessione inglese per le tombe e i cimiteri, con un guardiano scocciatore che vuole convincere il protagonista a visitare la celeberrima tomba della signora Thomas, vera e propria attrazione turistica del luogo, illustrando per tipo in climax ascendente tutte le gioie del luogo (fino ai teschi!), mentre il protagonista, pur disprezzando il culto delle tombe, gli contrappone la grandiosità del mausoleo funebre della propria famiglia. Un libro a torto accusato di essere inutile e che incredibilmente, ancora oggi, non viene capito. La realtà è che noi italiani sottovalutiamo la letteratura inglese (o, semplicemente, non la capiamo) e, di conseguenza, ci priviamo del gusto di scoprire autori come Jerome K. Jerome.

Alberto Ongaro - La versione spagnola

Massimo Senise, scrittore in crisi di ispirazione (un classico, sembra che gli scrittori non temano altro!), riceve nel suo attico romano un pacco da Madrid. Sono le copie della versione spagnola del suo ultimo romanzo, “La sconfitta”. La traduzione è di grande qualità e rispetta in tutto il testo originale ma, a un certo punto, Massimo trova una certa Marta che “camminava lungo la riva triste e senza peso come un’ombra”. Il punto è che lui quella Marta non l’avrebbe mai dovuta trovare, perché lui non ce l’aveva messa. Incuriosito e perplesso, continua a leggere e scopre altri interventi arbitrari della traduttrice, che messi insieme sembrano formare un messaggio destinato a lui, riferimenti alla sua vita molto puntuali, di cui solo chi lo conoscesse davvero bene potrebbe essere al corrente; ma, soprattutto, un’accusa esplicita: “Marta muore per colpa tua”. Il problema è che Massimo questa colpa non riesce proprio a riconoscerla, ed è costretto a ripercorrere tutta la sua vita, scandagliando ogni relazione, anche la più insignificante, con ogni donna in cui cerca di scorgere Marta. Ecco quindi che egli intraprende un viaggio nei ricordi fra i quali riemerge la  figura di una misteriosa bambina, comparsa una notte a Murano nel giardino di sua zia, che gli aveva chiesto di ributtarle un pupazzo lanciato, con parole strane sulla voglia che lui aveva di morire e sulla certezza invece sua di un futuro da grande donna. Si precipita dunque nel Veneto nei posti della sua infanzia, quindi vola a Madrid e di lì a Toledo, alla ricerca della misteriosa traduttrice, Magdalena Vegas Palacio, che sempre di più appare come l’oscura tessitrice di un complesso artificio per scatenare nello scrittore il senso di colpa. Alla fine il mistero sarà svelato, collegato a un suo racconto giovanile in cui figurava una Marta fallita nella vita dopo molte speranze suscitate in gioventù; ma la vita dello scrittore non sarà più la stessa, come non lo sarà di certo la sua arte. Massimo si accorge infatti di aver sacrificato alla propria arte le vite delle persone che ha conosciuto, e di trovarsi per questo in mezzo a un incubo, capace di parlare con i fantasmi che lui ha creato. E la voce di quella bambina continuerà a visitarlo come un’ossessione, a occhi aperti o di notte nei sogni. Alberto Ongaro, classe 1925, è narratore eccentrico, poco celebrato, lontano dalle mode. Le sue storie sono dense di invenzioni letterarie, la sua capacità di affabulazione ha ben pochi eguali in Italia. Come ne “La Taverna del Doge Loredan”, uno dei suoi romanzi più famosi, Ongaro mescola finzione e realtà, convinto che la realtà non è mai quella che viviamo, ma quella che immaginiamo. Tra suggestioni autobiografiche (dalla nativa Venezia, il protagonista si è trasferito da giovane in Sudamerica, diventando poi romanziere mentre girava per il mondo come giornalista) e personaggi ridotti all’osso ma abbastanza ben delineati, la trama è decisamente ben costruita e mette in scena l’avverarsi di coincidenze dietro cui sembra esistere una regia occulta e misteriosa. Con la consapevolezza che ogni libro, in fondo, è una ricerca e un’avventura che vive dentro di noi. Certo, il rischio è sempre quello di trovarci di fronte a un libro dalle problematiche essenzialmente “colte”. Assolutamente geniale la trovata del principe romano che cerca per tutta la sua vita di eseguire un’impossibile suonata per pianoforte di Mozart apparsa durante  una seduta spiritica.

Recensione pubblicata sul numero di febbraio 2008 della rivista “Pianuraoggi”

lunedì 12 novembre 2007

Michael Moorcock – La saga di Elric di Melniboné. Primo volume

Ristampa per uno dei personaggi più innovativi e originali dell’intera storia dell’heroic fantasy, il principe albino (e dagli occhi cremisi) Elric, una creatura rivoluzionaria per l’epoca in cui fu inventato. Invece che un barbaro forzuto o un cavaliere senza macchia e senza paura, Moorcock inventò un ambiguo e tormentato filosofo, un eroe tragico dominato da eventi che lui stesso crede di poter dominare. Prima pedina del Caos, poi ribelle contro di esso, l’azione di Elric non porta altro che la morte di tutti coloro che intrecciano il loro fato con il suo. Non c’è trascendenza nell’opera di Moorcock, bene e male sono solo etichette, forze impersonali e cieche che agiscono al di sopra dei destini umani. Un’opera assolutamente consigliata, scritta con uno stile personalissimo e barocco. Nel primo romanzo, Elric di Melniboné, Elric è l’ultimo Imperatore di Melniboné, un impero che ha dominato il mondo conosciuto per più di diecimila anni ed è in via di dissoluzione, in un mondo dove le terre restanti del mondo (i cosiddetti Regni Giovani) abitate dagli umani stanno rialzando la testa. I melniboneani sono una razza superiore, capaci di governare i draghi ma degenerati e dediti ad ogni vizio, senza pietà e annoiati da tutto. Elric è l’unico della razza melniboniana a non essere completamente amorale e a mantenere una parvenza di umanità, ma è debole e malaticcio, sempre costretto ad assumere pozioni magiche e droghe nei numerosi momenti in cui le forze lo abbandonano: anzi, con la sua profonda intelligenza mette in dubbio tutte le convinzioni e i costumi che sono stati propri della sua civiltà. Il suo filosofeggiare è però osteggiato dal popolo, e soprattutto da suo cugino Yrkoon, che è l’esempio tipico di melniboneano che vive solo per i piaceri e la distruzione. Inoltre, Elric ama anche la sorella di questi, Cymoril, la quale è però desiderata anche dal fratello. Yyrkoon trama per entrare in possesso della corona e, durante un attacco pirata ad Imrryr, capitale di Melnibonè, riesce a spingere Elric in mare, dando per certo il suo annegamento a causa della pesante corazza che indossa. Elric invece, evocando Straasha, signore degli elementali dell’acqua, si salva dalla morte, quindi ricorre ad Arioch, il signore del Caos, che nessuno mai è riuscito ad evocare. Comincia così un inseguimento nei confronti del cugino che porterà Elric in un’altra dimensione: catturato e destinato all’esecuzione, Yrkoon riesce infatti a fuggire trascinando con sé un manipolo di fedelissimi e soprattutto la sorella, e si trincera dietro la protezione di uno specchio magico che ruba i pensieri di chi lo guarda. Vinta la magia dello specchio e superate le resistenze, Elric trova Cymoril addormentata, vittima di un incantesimo, e insegue Yrkoon in un’altra dimensione alla ricerca delle leggendarie Spada Nere, Tempestosa e Luttuosa. Proprio qui, su incitamento di Arioch, Elric prende in mano Tempestosa, la spada senziente che nutre il corpo del suo padrone con le anime dei nemici uccisi, e grazie ad essa ha la meglio sul cugino che gli si sottomette. Ma, a sorpresa, gli affida il trono e la sorella fino al suo ritorno, decidendo di partire per i Regni Giovani alla ricerca di sé stesso e il senso della vita. Ed è proprio di una di queste peregrinazioni che tratta il secondo romanzo, Sui mari del Fato, che vede l’imperatore albino coinvolto in un viaggio oltre il tempo e lo spazio per aiutare l’equipaggio di una nave nel combattimento contro due mostri situati in un’altra dimensione, la cui sconfitta è essenziale per mantenere l’equilibro fra Legge e Chaos. Ed è qui che viene affrontato il tema del “multiuniverso”, la coesistenza su piani superiori ma sincronici di universi in contatto fra loro, che hanno la proprietà di interagire l’uno con l’altro, spesso distruggendosi, ma mai in permanenza. In questi universi i muovono personaggi in grado di esistere in tempi e spazi differenti, mutare il destino del continuum in cui abitano e spesso ripetendo, in un ciclo apparentemente inarrestabile, le stesse azioni e gli stessi drammi un numero infinito di volte. Questi personaggi sono in realtà uno solo: il Campione Eterno, destinato a lottare per l’eternità ora a favore della Legge, ora del Caos, per mantenere l’equilibrio, almeno fino a che non viene trovata Tanelorn, città in cui forse le anime del campione eterno possono trovare la pace. A bordo della nave, Elric incontra altre sue incarnazioni, nello specifico Erekose, Corum e Falcolunare: essi sono i Quattro che sono Uno, e unendosi riescono a debellare i due mostri. Nel viaggio di ritorno, Elric incontra Smiorgan il Calvo, Conte dell’Isola delle Città Purpuree, con cui aiuta una fanciulla contro un antico negromante melniboneano che la crede la reincarnazione del suo amore perduto, quindi un nobile avventuriero alla ricerca di un tesoro in un’antica città perduta. È qui che, assediati da nefandi uomini rettili, l’albino invoca Arioch e per ottenere il suo aiuto deve uccidere, contro la sua volontà, proprio il nobile che si è fidato di lui, guidato dalla sua Spada Nera che rivendica le vittime da sacrificare al dio del Caos (notare che all’epoca lo scrittore ha avuto dei problemi con l’eroina, e nel rapporto tra Elric e Tempestosa c’è molto della sua esperienza).

Valerio Evangelisti - Il castello di Eymerich

Castiglia, 1369. L’inquisitore aragonese Nicolas Eymerich, accompagnato dal collega tedesco Gallus di Neuhaus, si reca nel castello di Montiel, convocato da Pietro il Crudele, re di Castiglia, che è lì arroccato e sottoposto all’assedio del fratellastro Enrico di Trastamara, pretendente al trono. Nonostante le poderose truppe mercenarie di cui dispone Enrico, comandate da Bertrand de Guesclin, l’assalto finale risulta però impossibile e lo scontro è in una fase di stallo; il castello, infatti, pare in grado di difendersi da solo, quasi si trattasse di una colossale creatura vivente. Nel castello accadono fatti spaventosi: vi si aggira un fantasma alato, si odono misteriosi rumori dai sotterranei, avvengono delitti. Tutto l’edificio sembra vivere di vita propria. Al centro di questi enigmi pare esservi il rabbino Ha-Levi, ministro delle finanze di re Pietro il Crudele, il quale vive nei sotterranei del castello nei quali fa scavare sempre nuove gallerie, e sua figlia Myriam, innamorata dell’inquisitore. Le emozioni che gli suscita Miriam fanno temere Eymerich riguardo alla sua funzione di sondato della Chiesa, e provocano in lui reazioni ancor più violente. Allo stesso tempo, padre Gallus si fa sempre più insidioso nei suoi confronti: proprio i suoi modi di fare scatenano le ire di Eymerich, che fin dalla prima insinuazione del confratello inizia a maturare un odio sempre più profondo nei suoi confronti. In realtà, padre Gallus si dimostra crudele e intollerante. Eymerich deve risolvere non pochi problemi: il castello di Montiel appare subito nella sua inquietante veste, un ricettacolo di magie sataniche e di idiosincrasie tanto sociali quanto religiose. Eymerich scopre che alle torri del castello corrisponde l’immagine rovesciata dei claustrofobici sotterranei, e che esso è stato edificato sul progetto di alcuni maestri della cabala: la costruzione è viva, un Golem, a cui cinque benedettini indegni, tra cui Dalmau Moner, maestro di Eymerich, al fine di bloccare la magia giudaica alla base della costruzione, hanno contrapposto l’evocazione delle legioni infernali e si sono per questo coperti, anni prima, del grave peccato di demonolatria. Uno dei cinque frati predicatori è proprio Padre Gallus, che continua infatti a sottolineare la necessità di torturare i giudei, in special modo Myriam, confermando così le voci che lo hanno accusato in passato di depravazione e compiacimento durante le sessioni di tortura. La battaglia che deve condurre Eymerich è doppia: quella contro le forze sataniche e quella contro i suoi impulsi mortali per tornare ad essere se stesso e reprimere le sue umane passioni. A Myriam si sovrappone però l’immagine di un’altra donna, Leonor Lòpez de Cordoba (o Estrella, come si fa chiamare all’inizio), amante del re Pietro di Castiglia, e del suo fratellastro e pretendente al trono, Enrico di Trastamara. Così, anche in questo caso, come è tipico per i romanzi di Evangelisti, la donna si sdoppia e prende due valenze, nel caso specifico valenze angeliche. Myriam rivelerà infatti a Eymerich il manifestarsi in lei di un angelo, Metatron, e chiamerà Leonor Sandalphon, nome di un altro angelo (colui che governa la materia). I tre, per salvarsi dalla distruzione del castello trasformato in golem dai poteri di Metatron, si uniranno per poi sorvolare la shekinah, energia che, secondo i cabalisti, rappresenta l’incontro tra maschile e femminile. Sarà durante questo volo che Eymerich avrà un rapporto sessuale (!) con le due donne. Al suo risveglio, l’inquisitore riuscirà finalmente a riprendersi dal torpore che lo ha colto, mettendo fine all’incanto con il potere della sua ragione. Il romanzo viaggia su diversi piani, con un ufficiale delle SS che conduce strani esperimenti di rianimazione di cadaveri quasi fosse un novello dottor Frankenstein: ma anche in questo caso Metatron appare per entrare in una fanciulla ebrea e salvare il suo popolo…