
I delitti di Cogne, Erba e Garlasco insegnano che esistono fatti di cronaca in grado di attirare la morbosa attenzione dei lettori e del pubblico televisivo: la gente vuole sapere e chiede spiegazioni, i mezzi d’informazione puntano sul sensazionalismo, vivisezionando gli ambienti e la vita privata delle persone coinvolte. Tutto questo è sempre esistito, quasi fosse nella stessa natura dell’uomo, e ce lo prova questo libro di Kate Summerscale, la quale, con un paziente lavoro di ricerca e analisi ha ricostruito un oscuro fatto di sangue accaduto nell’Inghilterra del 1860, la barbara uccisione di un bambino di tre anni nella sua stessa casa, un edificio georgiano dello Wiltshire. L’episodio apparve subito scioccante proprio perché verificatosi in casa, ovvero il luogo simbolo dell’epoca vittoriana, il tempio sacro della famiglia e del focolare domestico. Gli ingredienti del giallo ci sono tutti (i genitori che dormono nella stanza accanto, i fratelli e la servitù al piano di sopra, la bambinaia nella stessa camera del piccolo con la sorellina, il cane che abbaia) e appare chiaro che l’omicidio non può essersi consumato che fra le mura domestiche. Polizia e magistratura raccolsero e divulgarono centinaia di particolari sulla casa, che finirono in pasto alla stampa, e persino il corpo della vittima fu esposto scarnificato alla curiosità del pubblico. Per la prima volta si mandò a chiamare un investigatore vero, Jonathan Whicher, che venne da Londra da una squadra speciale appena costituitasi a Scotland Yard, e che costituirà il modello per molti eroi da libro giallo ispirati alla sua figura e alle sue indagini (Arthur Conan Doyle, Charles Dickens, Henry James e soprattutto Wilkie Collins con il suo “The Moonstone”, che al fatto di Road Hill House deve ben più di qualche suggestione). L’intera Inghilterra divenne preda di una vera e propria febbre investigativa, con gente che inondava i giornali delle più disparate teorie, compresa quella secondo cui dagli occhi della vittima si sarebbe potuti risalire al volto dell’assassino dal momento che l’immagine dell’ultimo oggetto visto primo di morire sarebbe rimasto stampato sulla retina e si sarebbe potuto sviluppare in camera oscura (la stessa teoria ripresa da Dario Argento nel film “Quattro mosche di velluto grigio”). Proprio in questi anni la figura del detective si ammantava di un alone mistico e rappresentava la voce della scienza e della ragione, la forza di chi riusciva a dare forma al caos e far parlare le prove leggendo i gesti e le espressioni del volto. Purtroppo, però, Whicher si trovò a dover fronteggiare l’ostilità della polizia locale, in possesso di una diversa teoria e accusata dal detective di una condotta disastrosa nelle indagini; inoltre, egli non fu assistito da alcun professionista nel vedere sostenuta la propria accusa. Agli occhi dell’opinione pubblica, egli finì per violare il santuario della classe media, la casa, distruggendone la privacy, svelando l’atmosfera corrotta di una famiglia sprezzante e potente che sembrava celare al suo interno molti misteri e legami malati, trasgressioni erotiche e intrighi (un padre che aveva tradito la moglie malata con la governante e poi l’aveva subito sposata), tanto che dopo il delitto di Road Hill House la figura dell’investigatore si fece più cupa e sospetta agli occhi della gente. L’autrice si avvale di verbali, investigazioni, interrogatori, articoli dell’epoca, e realizza una ricostruzione dettagliata e minuziosa del sistema poliziesco, della vita familiare e sociale del periodo, con il corredo di ben ventitré pagine di note, cartine, vignette e fotografie dell’epoca. E, pur nelle incertezze di un caso solo apparentemente risolto e che riserva anche un’insospettabile appendice australiana, dimostra come il povero Whicher (che ne ebbe la carriera distrutta) avesse capito la verità. Straordinario poi è il fatto che la colpevole, alla fine, si sia rivelata alla giustizia su suggerimento di un sacerdote in confessione, suscitando un dibattito in seno alla chiesa anglicana tra i tradizionalisti e i riformatori sull’adozione di pratiche “romanizzanti” (e quindi troppo cattolici) come la confessione.