giovedì 10 gennaio 2008

Gianluca Vialli (con Gabriele Marcotti) - The Italian Job

Ho sempre apprezzato Vialli, come uomo più che come calciatore, molto colto, pacato e raffinato, distante dalle polemiche più becere. Ho accettato di buon grado l’idea di leggere questo suo tomo che, per fortuna, non è una biografia della sua vita di calciatore, ma una sorta di analisi sul mondo del calcio visto dal di dentro, prendendo spunto naturalmente da episodi della sua carriera e con molte divagazioni (molto belle le pagine che ricordano il suo rapporto con Mantovani, presidente della Sampdoria, e di un calcio che non c’è più). Devo però dire che la copertina originale, con lo stemma inglese su maglia azzurra e i tre leoni inglesi coi colori della bandiera italiana, fa ben altro effetto… Un libro che spiega molto bene, e con dovizia di particolari e riflessioni intelligenti, le diversità tra il tanto esaltato calcio italiano e il tanto vituperato calcio inglese: una realtà, quest’ultima, che magari non è la migliore dal punto di vista tecnico, ma che mantiene un’atmosfera e un ambiente davvero unici. Un calcio che non si identifica nel colpo di tacco di Totti, ma che ha il suo apice nelle rimonte esasperate, nell’idea del dare tutto quello che hai. Vialli questo mondo lo conosce molto bene, avendo militato nel Chelsea ed essendosi poi ritrovato ad allenarlo, catapultato in una nuova dimensione. Forse non tutti sanno che un manager inglese, oltre che fare l’allenatore, deve occuparsi del calciomercato, negoziare i rinnovi contrattuali, incontrare con i politici locali e i rappresentanti delle comunità. È chiaro che Vialli si è trovato per primo a contatto con tutto questo, ma anche con un mondo totalmente diverso, tatticamente e atleticamente, addirittura quasi primitivo (in fondo, l’Italia è pur sempre il top, sembra ammettere il buon Gianluca), in cui la tattica non va oltre il solito 4-4-2 e c’è meno preparazione atletica, meno lungimiranza nel crescere i giovani e una totale inadeguatezza organizzativa nella formazione degli allenatori (ma non si capisce bene, secondo questo ragionamento, quale sia la ragione per cui gli inglesi sono all’avanguardia nelle accademie…). Contemporaneamente, però, non si può non provare fascino per un mondo in cui le squadre già salve si impegnano allo spasimo per non fare un favore all’avversario, in cui il valore della sportività non si è trasformata in cinismo come invece accade quotidianamente in Italia (secondo il meccanismo dei favori, oggi a me e domani a te). Un mondo in cui i tifosi continuano a sostenere la propria squadra anche se è già retrocessa, e non scompaiono e non contestano come fanno invece dalle nostre parti (dove i tifosi sono manipolati dalle società che li usano per i loro scopi contrattuali o pubblicitari). La notazione più intelligente (e credo sia la prima volta che viene posta) è che, mentre i tifosi italiani pretendono la vittoria e accettano che la loro squadra fallisca a patto di aver vinto uno scudetto che ha mandato in bancarotta la società (come troppo spesso è successo), gli inglesi hanno una diversa esigenza, cioè che la loro società sopravviva, che abbia i bilanci in regola. Questo, con tutto quel sottostrato di interessi economici e di potere che portano il calcio italiano a essere colluso con la finanza e la politica: ecco perché in Inghilterra le società falliscono, mentre in Italia sopravvivono grazie all’intervento dei politici (il famigerato e scandaloso lodo Petrucci, che evita ai nuovi proprietari di pagare i debiti). In questo excursus, Vialli (ma non so fino a che punto sia tutta farina del suo sacco, e quanto sia da addebitare al giornalista Marcotti) si avvale della consulenza di grandi allenatori del calcio inglese, tipo sir Alex Ferguson, Arsène Wenger, José Mourinho, Sven-Goran-Eriksson (ok, questo non è proprio grandissimo…), più massicci interventi dei simpaticissimi (?) Marcello Lippi e Fabio Capello. Alla fine, grazie anche a queste preziose testimonianze, compaiono i molti punti di contatto tra le due differenti realtà, quella inglese e quella italiana, perché i problemi del calcio di oggi sono sempre quelli (la disaffezione del pubblico che se ne sta a casa a seguire le partite alla televisione, i procuratori sciacalli, i media invadenti). Vialli ce la mette davvero tutta per sviscerare tutti gli aspetti di un mondo veramente complicato, riuscendo talvolta a risultare ammirevole, e non manca di lanciare sue proposte per risolvere determinati problemi (prima fra tutte, l’introduzione dei Supporters Trust, ovvero dei gruppi di tifosi, nella gestione delle società); meno convincente invece risulta quando cerca di fare il sociologo, cita Machiavelli e propone un’interpretazione italiota di Dante che quando trova Beatrice pianta in asso Virgilio come farebbe l’italiano medio (piuttosto avvilente come prospettiva). Certo, anche per Vialli deve essere difficile giudicare un Paese come il nostro, in cui scoppia uno scandalo dietro l’altro e non c’è mai la volontà di risolvere i problemi del calcio. Forse in qualcosa dovremmo imparare dai tanto vituperati inglesi.

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