venerdì 29 febbraio 2008

Léo Malet - Nebbia sul ponte di Tolbiac

L’investigatore Nestor Burma riceve la richiesta di aiuto da un ex calzolaio e ora rigattiere di nome Abel Benoit, che si scopre essere un suo vecchio amico anarchico, Albert Lenantais, uno degli ex componenti di un centro vegetaliano anarchico situato nel cuore del XIII Arrondissement, che Burma ha frequentato da giovane. Rimasto fedele anche in tarda età ai rigorosi costumi libertari, Lenantais viene misteriosamente accoltellato nella propria abitazione, ma prima di morire riesce a raggiungere, con un messaggio affidato a una misteriosa gitana di nome Bélita, l’antico compagno Burma, avvertendolo così del pericolo che incombe su altri vecchi frequentatori del vecchio sodalizio. Non è una semplice indagine: è qualcosa di personale, che Burma sente di dover risolvere come debito verso l’amico, nel quartiere in cui egli ha trascorso la sua adolescenza. Alla vicenda, che si sovrappone alla sparizione di un ispettore della polizia in pensione e di un impiegato della società dei frigoriferi, si aggiungono anche l’Esercito della Salvezza e la vendetta e la gelosia degli zingari. Diversissimo da George Simenon, Léo Malet ha creato un investigatore diverso da Maigret: Nestor Burma è un antieroe che affonda le sue radici nell’anarchismo e per questo politicamente scorretto («mi domando cosa sia mai stato rimproverato a Hitler» dice Burma riferendosi agli zingari). La sua è una scrittura da noir americano, piena di ironia nera e caratterizzata da una trama complicatissima, con una narrazione in prima persona e un senso tragico della sorte, oltre che un’amara riflessione sulla coerenza delle persone (gli idealisti vengono fregati, gli altri diventano ladri). Molto divertente il capitolo della zingara grassona che usa la frusta.

mercoledì 27 febbraio 2008

Jane Austen - Emma

La ricca, prestante e sagace Emma Woodhouse ha 21 anni (ovvero l’età in cui si diventa maggiorenni e di solito ci si sposa) e, grazie al fatto di averle tutte vinte e alla sua eccessiva considerazione di sé, si autoconvince di essere abilissima nell’organizzare matrimoni per aver i suoi meriti nel matrimonio della sua ex governante. Decide quindi di dedicarsi a una sua giovane protetta, Harriet, incoraggiandone intrighi matrimoniali con esiti a dir poco disastrosi: prima con il reverendo Elton, che si scopre invece innamorato di Emma, quindi del bel Frank Churchill, figliastro della sua ex governante. Quindi, quando si accorge di amare il signor Knightley, scopre che Harriet è innamorata di lui e pensa che i due si sposeranno a scapito della sua felicità. Il bello è che, fin dal principio, Emma impone all’amica di rifiutare il signor Martin (che alla fine Harriet comunque sposerà) perché agricoltore e troppo indegno di attenzioni. Pur di seguire le sue deliranti proiezioni, Emma cerca di innamorarsi di Frank Churchill, semplicemente perché molte persone dicono che insieme sono una coppia perfetta (!), poi crede sinceramente che egli sia follemente innamorato di lei ma cerca di favorire un suo interessamento per Harriet; ma, soprattutto, non si accorge della cosa più importante, che cioè egli è segretamente fidanzato con Jane Fairfax, nei cui confronti Emma ha una certa qual insofferenza («Il solo nome di Jane Fairfax mi dà la nausea… Auguro a Jane Fairfax ogni bene, però mi annoia a morte»). Un romanzo incredibilmente statico, incentrato sulla sua patologica protagonista e rinvigorito solo dalla presenza di personaggi come l’ipocondriaco signor Woodhouse e la loquace Miss  Bates. La Austen ha l’indubbio merito di una scrittura estremamente raffinata e di un’analisi penetrante della ristretta società del tempo, costretta entro inutili formalismi e una vita di società opprimente (le visite, i ricevimenti, i balli), addirittura agghiacciante nel giudicare le persone in base alla propria provenienza sociale (Harriet è povera e socialmente umile, ed Emma pensa necessiti di un buon partito che possa sollevarla di grado, ma non in maniera eccessiva). È abbastanza incredibile che Emma non conosca, se non solo nel finale, l’amore come sentimento in senso tradizionale, ma solo in termini di freddo calcolo, con la consapevolezza di non voler diventare come la zitella Miss Bates: con questo la Austen non fa altro che dimostrare che una donna ha un ruolo solo con il matrimonio (in questo senso si spiegano le invidie tra donne, nonostante l’affettazione da cui questo mondo è contraddistinto). Gli eventi della vita cambiano Emma e la sua intelligenza viene temperata dall’esperienza: il capitolo chiave del romanzo, dal punto di vista narrativo e drammatico, è infatti quello in cui la realtà prende coscienza dell’animo di Emma, nel momento in cui essa si rende conto della fallacia delle proprie previsioni e della proprie crudeltà gratuita (come ad esempio nei confronti di Miss Bates o nei pettegolezzi sul presunto adulterio di Jane Fairfax).

sabato 23 febbraio 2008

Aleksandr Sergeevič Puškin - La figlia del capitano e storia di Pugačëv

Grinëv, nobile diciassettenne, viene spedito dal rigoroso padre a prestare servizio militare non nella Guardia, a Pietroburgo (come pure gli spetterebbe), ma a Orenburg sugli Urali, e di lì mandato all’avamposto di Belogorsk sotto il comando del capitano Mironov; all’inizio del suo viaggio, da scioperato lazzarone un po’ ingenuo, Grinëv perde una consistente fortuna al gioco e nel mezzo della steppa viene sorprende una bufera che gli rende impossibile l’orientamento. È qui che, fortunatamente, incontra un vagabondo che lo guida in un villaggio vicino, dove trova riparo. Per ringraziarlo, Grinëv gli regala una pelliccia di lepre, nonostante le proteste del suo servo Savél’ič. Sarà questo fatto a salvargli la vita, come si appurerà in seguito. Alla fortezza di Bologorsk il giovane si innamora della timida Masha (Marja), figlia del capitano del forte, Mironov: intende sposarla, ma deve affrontare l’ostilità dei genitori e, soprattutto, la competizione di un rivale, Svabrin, che affronta in duello (venendo ferito a tradimento). L’intrigo amoroso viene drammaticamente interrotto dagli avvenimenti storici: siamo nel 1773, nella zona della rivolta di Pugačëv, il cosacco bandito che si fa passare per l’imperatore Pietro III, ucciso undici anni prima in una congiura di palazzo. Pugačëv conquista la fortezza, fa uccidere il capitano e sua moglie, ma risparmia Grinëv e la sua amata, avendo riconosciuto in lui il giovane che gli aveva regalato un pellicciotto di lepre. Anzi, lo fa fuggire e favoreggia il suo amore con la figlia del capitano, che nel frattempo è tenuta prigioniera da Svabrin. Una volta sconfitto Pugačëv, sotto previa denuncia dell’infame Svabrin, la singolare indulgenza che il ribelle ha riservato a Grinëv , sembra alle autorità un indizio di connivenza. Ma la dolce Masha riesce a parlare all’imperatrice Caterina che si convince dell’innocenza del giovane e lo fa liberare. Qui si interrompono le memorie di Grinëv che, trasmesse all’Autore sessant’anni più tardi, vengono pubblicate insieme all’informazione dell’atteso lieto fine. Un romanzo coinvolgente nel ritmo e a tratti ironico, capace di analizzare a fondo le radici e le degenerazioni del potere: basato sul conflitto tra opposti (Caterina II contro Pugačëv, Grinëv contro Svabrin), così come sul tema del doppio (Pugačëv stima Grinëv nonostante questo rimanga fedele all’impero zarista), sembra ambiguamente suggerire che la zarina e il cosacco ribelle altro non sono che le maschere di due poteri, uguali per natura e struttura. Non solo, essi compaiono in diversi momenti sotto mentite spoglie (Pugačëv come vagabondo nella steppa, la zarina nel giardino del suo palazzo) e quindi liberi dai loro apparati, determinando i felici esiti della storia. In quest’edizione, presente anche la Storia di Pugačëv, scritta dallo stesso Puškin a partire dalle sue ricerche su un ricco comparto di materiali documentari e archivistici.

venerdì 22 febbraio 2008

Anonimo - Sweeney Todd. Il diabolico barbiere di Fleet Street

Il recente film di Tim Burton ha riportato alla ribalta la figura del diabolico Sweeney Todd, il barbiere assassino già portato sullo schermo e sul palcoscenico innumerevoli volte, e ha permesso ora l’uscita la pubblicazione, per la prima volta in Italia, del romanzo ottocentesco originario da cui è tratto, classico della letteratura gotica. Attribuito da qualcuno a James Malcom Rymer, esso pare frutto collettivo e anonimo della bottega ottocentesca di Emily Lloyd, un edicolante che aveva creato una collana, detta “Penny Dreadful”, a bassissimo prezzo e tutta sangue ed emozioni trucide. E si capisce bene l’interesse di un regista come Burton per questo singolare personaggio, descritto come in possesso di una bocca grande come un forno, di mani enormi come quelle di una scimmia, e di una capigliatura paragonata a un folto cespuglio nel quale il barbiere porta dentro pettini e forbici. Abilissimo nel valutare il benessere dei clienti e il valore degli oggetti da loro posseduti, Todd utilizzava, tramite un meccanismo segreto, una sedia da barbiere molto particolare, di sua stessa invenzione, che poteva essere reclinata all’indietro e che, girando su sé stessa, precipitava le sue vittime contro il pavimento dello scantinato, causando ai malcapitati la rottura dell’osso del collo. Inoltre, siccome occorreva un modo per sbarazzarsi dei cadaveri, Sweeney Todd passava i resti delle sue vittime alla sua complice, la signora Lovett, che li usava come ripieno dei suoi acclamati e ricercati pasticci di carne. Proprio qui sta il grande scandalo del romanzo, che gli esseri uomini non hanno un disgusto naturale nel mangiare i loro simili, potente metafora di una società che mangia sé stessa. La cosa interessante di questi due efferati criminali è che, per tenere segreti i propri misfatti, provvedono con scrupolosità a tenere i loro aiutanti chiusi nei rispettivi negozi, senza mai permettergli di uscire e spettegolare, per poi eliminarli all’occorrenza (o farli sparire, come nel caso del garzone del barbiere, venduto al manicomio). Purtroppo per loro, commettono entrambi un errore: Todd uccide un marinaio che era venuto a cercare l’innamorata di un suo amico per consegnarle un filo di perle pegno del loro amore, mentre l’amico, che tutti credono morto, finisce a fare l’aiutante della signora Lovett. Naturalmente la sparizione del marinaio allerta i conoscenti e soprattutto la giovane innamorata che non esita a travestirsi da garzone pur di venire a conoscenza della verità. Contrariamente al film di Tim Burton, in cui il personaggio è mosso dal desiderio di vendetta, lo Sweeney Todd del romanzo rappresenta un unicum in tutta la letteratura vittoriana, perché mosso al delitto non da ragioni soprannaturali ma per sete di denaro, e per questo affatto rassicurante. Anzi, tutta la vicenda è curiosamente dominata dalla brama di denaro, come ben testimonia il personaggio del direttore del manicomio di cui si serve Todd, uno sgherro della peggior specie che non esita a rinchiudere persone sanissime solo per avere in cambio denaro o segreti che gli permettano di ricattare altre persone (sono riportate anche due commoventi storie di ragazze vendute al manicomio dalle rispettive famiglie perché in possesso di ingenti fortune). In definitiva, un romanzo ben scritto e congegnato, e soprattutto nient’affatto superficiale, capace di analizzare i problemi della Londra della rivoluzione industriale in maniera molto più efficace di parecchi sociologi.

domenica 17 febbraio 2008

J.K. Rowling - Harry Potter e il Calice di Fuoco

Harry Potter torna alla scuola di Hogwarts per il quarto anno di corso e incontra il nuovo insegnante di Difesa contro le Arti Oscure, il sinistro Alastor “Malocchio” Moody (il quale ha una gamba di legno, il naso tagliato e un occhio magico rotante!), che lo prende a benvolere. Quando il professor Silente indice il Torneo Tremaghi, competizione di magia che vede sfidarsi un campione per ciascuna delle tre scuole più prestigiose (Hogwarts, Durmstrang e Beauxbatons), il calice di fuoco che erutta i nomi dei partecipanti al trofeo dei concorrenti fa proprio il nome di Harry, troppo giovane per gareggiare. Oggetto di sospetti e invidie, il maghetto deve affrontare un drago sputafuoco, le profondità di un grande lago nero da cui i campioni devono recuperare persone a loro care e un labirinto pieno di creature magiche e di trappole. Infine, catapultato in un cimitero, assiste alla resurrezione di Voldemort e si batte con lui, venendo aiutato dalle anime delle persone uccise dal signore oscuro (tra le quali ci sono i suoi genitori). Per il quarto romanzo della serie, le dimensioni si fanno ciclopiche e le regole da produzione seriale sono ormai standardizzate: la saga è una mitologia consolidata, con i propri tormentoni, luoghi comuni e personaggi (torna anche l’antipatico elfo domestico Dobby), anche se la Rowling limita le componenti “leggere” per passare a toni decisamente più oscuri e indagare sulle questioni interne al Ministero della Magia (vengono introdotti i Mangiamorte, ovvero i servi di Voldemort). Come al solito, nulla è come appare (fino all’ultimo si pensa che il responsabile di tutto sia colpa del membro del Ministero Barty Crouch, ora misteriosamente scomparso ma che in passato non si è preoccupato di spedire suo figlio nella prigione di Azkaban). In parte cambiano anche i metodi di insegnamento, e le lezioni di magia appaiono meno carnevalesche: Moody scaglia maledizioni vere, Piton minaccia di comminare veleni reali per vagliare l’efficacia degli antidoti degli studenti. Ben espresso il desiderio del giovane protagonista di una famiglia (i Weasley) e di un padre (Sirius), unitamente alla preoccupazione destata dalle sorti di quest’ultimo (è pur sempre ricercato dai terribili Dissennatori di Azkaban). Non manca la riflessione morale sempre affidata a Silente (ognuno deve avere una seconda chance e non vergognarsi di ciò che è), anche se tutto il romanzo è dominato da una sorta di moralismo secondo cui le colpe dei genitori sono proprie anche dei figli. Molto spazio è concesso ai sentimenti del povero Harry, terrorizzato dalle prove e costretto anche a fare i conti con l’ostilità dell’amico Ron, che gli invidia la ricchezza e la fama (insomma tutte le cose di cui Harry farebbe volentieri a meno, in cambio di una famiglia). A completare il quadro, l’impicciona e infida giornalista Rita Skeeter, che non si preoccupa di rovinare Harry, Hermione e Hagrid pur di inventare uno scoop (si scopre che Hagrid è figlio di una gigantessa). Ecumenico il finale, con Silente che invita Sirius e Piton a rinunciare alla loro rivalità per fronteggiare il nemico comune, anche se la morte del campione di Hogwarts Cedric Diggory getta sul tutto ben più di un’ombra di tristezza. Di contro, l’autrice si inventa una Coppa del mondo di quidditch Irlanda-Bulgaria davanti a 100 mila maghi, rispolverando creature del folklore dei due paesi (leprecani da una parte, veele dall’altra) e regalando alcune finezze (il circolo di supporto alle streghe di Eastwick). Piazza invenzioni come la Passaporta (un oggetto che, se toccato, funge da trasporto), una specie di binocolo con replay incorporato, la burrobirra e RDN – Radio Streghe Network. Anzi, rispolvera pure un classico come il ballo della scuola, che connette con le prime tempeste ormonali dei suoi giovani protagonisti. Imbarazzante Hermione che scende in politica fondando il Fronte di liberazione degli elfi domestici.

giovedì 7 febbraio 2008

Georges Simenon - Firmato Picpus

«La gente vive una vita reale. Vive davvero il presente. Maigret, invece, vive tre, cinque, dieci vite alla volta; è contemporaneamente a Cannes, a Saint-Raphael, in boulevard des Batignolles e in rue Caulaincourt…». Credo che niente più di questa definizione si addica al commissario Maigret, dotato di una grandissima umanità e capace di intuire a pelle chi dice la verità e chi no, questa volta alle prese con un impiegato di banca, Mascouvin, che si autoaccusa di aver sottratto soldi al suo luogo di lavoro, e con un messaggio firmato da un misterioso Picpus che annuncia che verrà commesso un delitto alle cinque del pomeriggio ai danni di un’indovina. E un’indovina viene effettivamente uccisa con due coltellate al cuore. Facendo i rilievi del caso, però, chiuso nella cucina, Maigret trova un vecchietto con l’occhio spento e un’aria di non sapere perché si trovi lì, Octave Le Cloaguen, che è stato chiuso nella cucina dall’esterno. Proprio il ritratto di questo personaggio singolare è la cosa più appassionante del romanzo, uno che ha un dito mozzato, vive come un barbone nonostante sua beneficiario di una consistente rendita vitalizia ottenuta come segno di gratitudine per aver salvato una vita durante una traversata, ed è tiranneggiato dalla moglie e dalla figlia che gli impediscono di fumare e bere e lo segregano a doppia mandata in una minuscola camera. Tra una birra e un calvados, Maigret prende subito in simpatia questo poveraccio che suda di paura al solo pensiero della moglie e sembra invece sollevato davanti alla prospettiva di finire in cella; amarissimo il finale, in cui il commissario vorrebbe farla pagare alla signora Le Cloaguen (descritta come una terribile arpia sin dalla prima descrizione della sua mano ingioiellata), ma si deve arrendere davanti alla stupidità umana… Una vicenda che si regge sulla truffa e sul ricatto, e che rende molto bene la miseria e l’abiezione dell’animo umano, pronto a tutto, anche a svendersi, per denaro. A completare il quadro, la solita cornice di interpreti, dall’ispettore Janvier che cerca di essere come Maigret in tutto e per tutto (si mette perfino a fumare la pipa!), alla moglie del commissario, sempre pronta a raccogliere una telefonata del marito che gli annuncia che farà tardi ancora una volta.

mercoledì 6 febbraio 2008

Valerio Evangelisti - Picatrix. La scala per l’inferno

Questa volta Eymerich se la deve vedere con gli alieni e i dischi volanti. Provenienti da Marte, per giunta, secondo una profezia contenuta nel libro che dà il nome al romanzo, Picatrix, un testo apocrifo e demonizzato da Cristiani, Giudei e Saraceni ma attorno al quale ruota la vicenda. Il terribile inquisitore, come al solito mai troppo simpatico ed ecumenico (è convinto di dover liberare il mondo dai musulmani e si rimangia una promessa grazie ad astuti cavilli), è dunque impegnato in varie avventure tra Saragozza, Malaga, Granada e le Isole Felici (le odierne Canarie) per ricacciare misteriose e demoniache creature canine evocate per mezzo del già citato Picatrix. Ma, soprattutto, è disorientato perché si trova in mezzo a musulmani e non può esibire i simboli che gli danno la forza. Questa situazione è peggiorata dai suoi compagni di viaggio: l’ebreo convertito Alatzar, due studiosi saraceni, Alcatib e Ibn Haldun, quindi il rabbino Ha-Levi (personaggio del successivo Il castello di Eymerich). Contemporaneamente, nei capitoli intitolati Il viso della luna (ovvia la metafora femminile), Eymerich è occupato nell’interrogatorio di una donna, che si scopre essere il suo servo Alatzar, creduto maschio per tutta la narrazione: è Myriam, anch’esso personaggio del Castello, che scatena nell’inquisitore sentimenti contrastanti (attrazione fisica e repulsione razionale). Inoltre, come al solito, Evangelisti intreccia tre storie in epoche differenti: oltre a quella di Eymerich, ambienta nel XIV secolo (anche se, come visto, sono due le vicende di Eymerich), c’è una vicenda presente, ambientato nelle isole Canarie, e uno scenario futuro di avidità e sopraffazione, ambientato in Africa. Gli uomini dell’Euroforce (di cui fa parte il maggiore Phil Tanner) e della Rache portano infatti avanti il piano Eyolf, progetto di cui neanche gli esecutori conoscono tutti gli elementi ma che comunque prevede una diaspora coatta dei popoli africani verso la capitale del macrostato africano del Buganda, con dei misteriosi “bambini di sabbia” che travolge qualsiasi cosa sulla loro strada. Capita però che il re fantoccio sostenuto dalle potenze occidentali si riveli una specie di adepto di misteriose divinità ancestrali (collegate naturalmente a Marte) che vuole ripristinare gli antichi culti e le vecchie divisioni sociali della società tribale africana. La  parte presente, invece, vede protagonista l’imbranato scienziato americano Marcus Frullifer, esiliato per le sue originali teorie sulla fisica a La Palma, dove viene coinvolto da due donne spagnole, l’affascinante giornalista Victoria e la dottoressa Manuela (a cui si aggiunge un collega dello studioso, l’ubriaco e farneticante finlandese Arto Korhonen). I quattro si trovano di fronte ad una singolare insidia: lo strano comportamento dei pazienti di un ospedale psichiatrico di cui Manuela è direttrice. I pazienti della clinica, infatti, si comportano come cani, latrano e abbaiano, mentre uno tra loro si agita in maniera diversa, e ha il braccio mozzato che sta ricrescendo. Con un’indiscussa dose di genialità e delle ambizioni smisurate, Evangelisti si sbizzarrisce con complicate e raffinate teorie sugli ufo come emanazione di onde elettriche e magnetiche, cercando un valido supporto storico-scientifico che cita addirittura Galvani e Volta. Ma spesso la narrazione fatica a coinvolgere e scivola nella noia e nell’eccessivamente lungo (mortale a questo proposito la parte che descrive il conflitto tra le due opposte fazioni musulmane ai tempi di Eymerich), per non parlare della parte ambientata nel futuro, davvero debole per la sua stessa natura apocalittica e terzomondista (quasi no-global, direi). Praticamente inesistente, poi, l’identificazione con qualunque tipo di personaggio: alla fin fine, l’unico ad appassionare è pur sempre il terribile Eymerich, spietato con i deboli e persecutore dei potenti.

venerdì 1 febbraio 2008

Bram Stoker - Il gioiello delle sette stelle

Purtroppo è vero che l’età porta consiglio perchè non sono più riuscito a farmi piacere questo libro che avevo letto e apprezzato una decina di anni fa ai tempi del liceo. L’inizio è quanto di più ordinario possa esistere: una notte, in quel di Londra, il giovane avvocato Malcom Ross viene urgentemente convocato a casa del dottor Trelawney, egittologo e ricco collezionista di reperti, ritrovato recentemente privo di sensi, in una pozza di sangue nella sua camera. A lanciare l’allarme è la figlia di lui, Margaret, di cui Ross è perdutamente innamorato. accanto al dottore c’è un antico gioiello, adorno di sette gemme, e una mano femminile imbalsamata con sette (!) dita, mozzata all’altezza del polso. Pur nell’impossibilità di fornire una spiegazione scientifica ragionevole, Ross, Margaret, la domestica e qualche altro eroico collaboratore cercano di allestire un’improvvisata squadra di sorveglianza. Gli attentati alla vita del dottore si susseguono in una atmosfera soprannaturale, con la comparsa di un ulteriore personaggio misterioso, un certo Corbek, collega del dottore, e proprio Margaret sembra essere la più esposta ai sospetti dopo ogni aggressione a suo padre (ma l’indomito Malcolm Ross nega tutto). Finché Trelawney si sveglia, e si scopre che nella sua casa si trova il sarcofago di Tera, una regina egizia di quaranta secoli prima in rotta di collisione con la casta sacerdotale del tempo e capace di grandi prodigi. Naturalmente, la misteriosa Tera possiede la non indifferente capacità di reincarnarsi dove più le aggrada, e pian piano si scopre che il suo viso è uguale a quello di Margaret… ecco quindi che l’allegra combriccola cerca di realizzare “il grande esperimento”, di riportare cioè in vita la regina egizia. Scontato il finale rosa, con Margaret e Malcolm Ross che si sposano.  Stoker (scrittore irlandese famoso per essere l’autore del celeberrimo e ben più riuscito Dracula) fornisce una sua personale variante della solita vicenda della risurrezione della mummia, e ce la mette davvero tutta nel tentativo di creare un’atmosfera oscura e inquietante, tra maledizioni egizie, coincidenze lunari, gentili e oneste fanciulle in trance pronti a squartare i genitori, e gatti imbalsamati che tornano in vita. Ma il risultato complessivo non è granché. La cosa più interessante è la lettura del diario dell’esploratore olandese posto esattamente alla metà del libro, e il fatto che i protagonisti si preoccupino soprattutto di comprendere le ragioni della “povera” regina Tera. Che vita d’inferno, questi mostri…