
Un nuovo film sull’argomento è in uscita e da appassionato cultore affezionato quale mi reputo di essere (ho visitato per ben due volte il museo nello storico appartamento di Baker Street in quel di Londra) ho seri dubbi che uno Sherlock Holmes stile James Bond sia una buona medicina per ridare lustro a una delle creature più fulgide dell’intera storia letteraria. Bisognerebbe andare a recuperare questo primo romanzo delle sue avventure per capire che, al di là di qualche sporadico caso e, soprattutto, dell’immortale serie (l’unica autenticamente rigorosa e scrupolosa) interpretata dal grandissimo Jeremy Brett, le attualizzazioni per il cinema ipervitaminizzato (per non dire ipertrofico) di oggi sono del tutto fuorvianti. La struttura è quella che verrà replicata per i successivi Il segno di quattro e La valle della paura, ovvero una prima sezione che racconta del delitto (apparentemente incomprensibile e senza movente) e delle indagini di Sherlock Holmes, e una seconda parte dedicata completamente al lungo racconto della vicenda che ha portato all’omicidio: uno schema che offre all’autore la possibilità di inventarsi una storia nella storia e di tenere alta la tensione fino alla fine. In questo caso, protagonista del racconto è un sopravvissuto al deserto che è stato salvato insieme a una bambina (da lui adottata come figlia) da una carovana di mormoni diretti nello Utah: integratosi e diventato prospero, l’uomo si rifiuta di cedere la figlia ai mormoni poligami e per questo si attira la terribile ira punitiva dei Santi degli Ultimi Giorni, equiparati da Conan Doyle a dei pazzi assassini che non hanno niente da invidiare all’Inquisizione spagnola. Il romanzo non ha la grandezza del Segno dei quattro (a giudizio di chi scrive, il miglior Sherlock Holmes di sempre) o il fascino del Mastino dei Baskerville, ma è senz’altro meglio della Valle della paura e il personaggio di Sherlock Holmes c’è già tutto: un individuo stravagante, eccentrico, misogino, lunatico, dotato di un immenso bagaglio di conoscenze disparate (chimica, anatomia e letteratura criminale), dedito a un incessante lavoro cerebrale, capace di scrivere un trattato scientifico sul tabacco e di destare l’impressione che assuma qualche droga (anche se per il momento non si dice di più). Poco generoso con i professionisti del mestiere suoi predecessori (il Lecoq di Gaborieau e il Dupin di Edgar Allan Poe sono definiti, rispettivamente, “un cialtrone” e “un mediocre”), Holmes elabora una vera e propria teoria scientifica dell’investigazione basata sulla deduzione (osservazione, raccolta, classificazione e interpretazione dei dati): d’altronde, era l’era vittoriana e la filosofia positivista permeava la società (anzi, la stessa figura dell’investigatore ne è stata un prodotto, come dimostra l’accellente Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale). Narratore delle imprese del mitico detective, ovviamente, il fido dottor Watson, coinquilino per caso al celeberrimo 221B di Baker Street e memorabile protagonista della scena in cui Holmes, grazie a una semplice deduzione, gli spiega di aver capito che ha prestato servizio nell’esercito durante la guerra afghana: è proprio grazie a Watson che Conan Doyle riesce a portare noi spettatori al centro della storia e a raccontare l’altrimenti indecifrabile metodo holmesiano.