domenica 23 maggio 2010

Carlos Ruiz Zafón - Il Palazzo della Mezzanotte

È bene chiarire subito che questo non è il nuovo libro di Zafón,ma un romanzo che risale al 1994 e vede la pubblicazione in lingua italiana solo adesso in seguito al successo de “L’ombra del vento” e “Il gioco dell’angelo”: anzi, fa parte di una “Trilogia della nebbia” che comprende anche “Il principe della nebbia” e l’inedito (in Italia) “Las luces de septiembre”: l’autore stesso, nella prefazione, afferma che, nonostante fosse dedicato principalmente a un pubblico di lettori giovani, la sua speranza all’epoca era quella di coinvolgere persone di ogni età, raccontando un genere di storia che lui avrebbe apprezzato da ragazzo. Dopo un prologo ambientato nella Calcutta del 1916, che vede una locomotiva in fiamme che conduce alla morte un carico di bambini innocenti e un giovane tenente inglese che sacrifica la vita per portare in salvo due gemelli neonati inseguiti da un tragico destino, la storia si svolge nel 1932, sempre a Calcutta: Ben, uno dei due bambini portati in salvo e cresciuto nell’orfanotrofio di St. Patrick, si accinge a lasciare la struttura e a salutare i suoi amici nella tradizionale riunione della Chowbar Society, un club sul modello di quelli per adulti (che ebbero origine proprio nelle colonie britanniche) composto da altri sei ragazzi come lui che, per le proprie riunioni, si incontrano alle rovine del Palazzo della mezzanotte. Nel corso della serata entra in scena Sheere, la gemella di Ben per lui fino a questo momento sconosciuta. È Aryami Bose, la nonna, che gli racconta della loro infanzia e dell’atto eroico del giovane tenente che nel 1916 li ha salvati da un treno in fiamme perdendo la vita: è sempre lei che dopo l’incidente del treno ha deciso di separarli per cercare di proteggerli da Jawahal, uno psicopatico che, per oscure ragioni, ha ucciso i loro genitori e ha promesso di uccidere anche Ben non appena fosse uscito dall’orfanotrofio. Aryami è intenzionata a scappare ma i due gemelli vogliono scoprire la verità sulla morte dei loro genitori e decidono, con l’aiuto dei loro amici, di affrontare Jawahlal e il loro destino. A parte qualche imperfezione e ingenuità (il direttore dell’orfanotrofio è più funzionale alla storia che ben inserito in essa), Zafón si contraddistingue per uno stile già maturo, capace di intervallare una narrazione in terza persona a intermezzi di riflessione personale (in questo caso è l’amico Ian che parla, a molti anni di distanza), e per la capacità di tratteggiare personaggi a tutto tondo, dotati di una propria personalità e carattere. Per chi già si fosse avventurato nella lettura del citato “Il principe della nebbia”, è facile scorgere molti punti di contatto: l’angosciante scontro finale con il cattivo, un demone multiforme capace di porre domande insinuanti, il rapporto tra fratelli, la sofferenza e la lotta tra il Bene e il Male, non semplici categorie manichee ma pulsioni interne all’animo di ogni essere umano (lo stesso protagonista, Ben, è un talento disordinato e volubile, pieno di luci e ombre). Per il resto, sono già ben visibili tutti quegli elementi che hanno reso famoso lo scrittore nel mondo: un’ambientazione affascinante e misteriosa, il piacere del racconto in quanto tale (i ragazzi si raccontano storie di fantasmi), la contrapposizione tra metafore forti (il fuoco dell’inferno e la neve), le apparizioni soprannaturali (i genitori morti e il treno infuocato con il suo carico di martiri).

Recensione pubblicata sul numero di luglio 2010 della rivista “Pianuraoggi”

venerdì 14 maggio 2010

Luther Blissett - Q

Famoso per essere stato scritto da un collettivo di “destabilizzatori del senso comune” dotatisi di uno pseudonimo (poi diventato Wu Ming) e per essere stato pubblicato da una casa editrice importante come Einaudi con una formula anti-copyright, questo romanzo si è rivelato per il sottoscritto una sincera e insperata sorpresa. Anzi, a essere sincero devo proprio riconoscere che Q è un libro pazzesco, veramente degno di attenzione e riflessione (il fatto che all’epoca girasse voce che l’autore fosse Umberto Eco è molto significativo). Una storia di eretici che cercano di sopravvivere tra Riforma e Controriforma, sicuro, ma c’è dell’altro. La vicenda comincia in piena rivolta armata dei contadini che sconvolse (seminando terrore, uccisioni e saccheggi) gli stati meridionali della Germania nel 1524-25 per l’abolizione della servitù della gleba e la distribuzione delle terre confiscate alla Chiesa dai principi tedeschi passati al luteranesimo. Leader della rivolta, Thomas Müntzer, contrario a ogni autorità terrena e per questo catturato e giustiziato dopo la disfatta di Frankenhausen del 1525, quando principi cattolici e luterani si unirono insieme per debellare il pericolo contadino. Il grido “Omnia sunt communia!” (tutte le cose sono di tutti) risuona però ancora sulle labbra degli sconfitti, soprattutto su quelle del protagonista, un uomo senza nome («Chi non ha un nome deve averne avuti almeno cento… e una storia che vale la pena di essere ascoltata») che racconta a Lodewijk Pruystinck detto Eloi (un protestante che gestisce una casa comune con i soldi che riesce ad avere da ricchi mercanti che appoggiano la sua causa) la sua vicenda di anabattista, testimone oculare e protagonista del tentativo (miseramente fallito) di creazione di una “Nuova Sion” nella città di Münster insieme al fornaio radicale Jean Matthys e il lenone e attore Jan di Leida, contro il vescovo Von Waldeck. La storia del nostro eroe è sempre ostacolata da un misterioso antagonista, Q, ossia “Qoèlet”, ignota spia del cardinale Carafa che provoca una dietro l’altra, attraverso sotterfugi e tradimenti, tutte le sconfitte del nostro appassionato riformatore religioso. Nelle Fiandre, quest’ultimo escogita il modo di derubare le filiali dei banchieri Fugger con false lettere di credito, quindi, scoperto, è costretto a riparare a Basilea: qui entra in contatto con il libraio Pietro Perna, che lo invita a essere suo socio nella diffusione clandestina de “Il Beneficio di Cristo” un’opera scritta dal monaco Benedetto Fontanini, molto vicino al circolo degli spirituali di Reginald Pole, che accetta la giustificazione per sola fede di stampo luterana e calvinista. Eccolo poi a Venezia, capitale della stampa e città ancora libera: gestisce un bordello ed entra in relazioni d’affari con la ricchissima famiglia sefardita dei Mendez; deciso a risolvere i conti con Q, lo attira in una trappola fingendosi predicatore anabattista con il nome di Tiziano. Il bello è che questo Tiziano è esistito davvero e ne sopravvive traccia nelle carte dell’Inquisizione: era un predicatore anabattista, che convertì persone di ogni rango muovendosi fra i possedimenti della Serenissima e le terre degli Estensi. Non solo, egli riuscì perfino a riunire un concilio a Venezia, cui parteciparono più di cento delegati, e pare che sia stato sul punto di “convertire” perfino papa Giulio III, come si evince da un’ambigua e mutilata testimonianza di uno dei suoi seguaci, il sacerdote Pietro Manelfi, il quale lo abbandonò per consegnarsi all’Inquisizione. In linea con il suo concept di  collettivo controculturale e combattente, Luther Blissett si inventa un protagonista rivoluzionario di professione, che passa di rivolta in rivolta e fugge ogni volta che la reazione lo raggiunge: fa questo per trent’anni, senza trovar un suo posto nel mondo (non lo trova nemmeno alla fine, esule a Istanbul), e intanto attraversa la rivoluzione in tutte le sue forme (dai successi alle degenerazioni). Ovviamente, anche lui invecchiando cambia e si fa più astuto: da giovane e appassionato idealista che predilige lo scontro frontale, si trasforma in un disincantato e scaltro nemico dell’oppressione che utilizza le stesse strategie del nemico (truffa, stampa clandestina, dissimulazione). Quello che però lo contraddistingue sempre è la ferrea convinzione di stare dalla parte giusta, l’idea che non è tanto importante vincere o perdere, quanto continuare a lottare. Nell’affrontare la lotta tra ordine e libertà, gli autori tengono sempre conto del miscuglio tra politica e religione, economia e controllo delle coscienze (i principi tedeschi contro l’imperatore, i mercanti contro i vescovi). La storia ufficiale fa sempre da sfondo alla vicenda (la convocazione di Lutero alla dieta imperiale di Worms e il suo rapimento da parte dell’Elettore di Sassonia, il sacco di Roma del 1527 con le armate lanzichenecche che occupano la città come punizione per l’alleanza di papa Clemente VII con Francesco I di Francia, e la successiva incoronazione di Carlo V per mano papale, il Concilio di Trento): è così che compaiono, come protagonisti, comprimari, comparse o burattinai che non vengono mai allo scoperto, personaggi come Carlostadio e Melantone con le loro dissertazioni sulla necessità di obbedire o meno a un principe ingiusto, Anton Fugger e potenti prelati come il sinistro e astuto Pietro Carafa, mente e regista dell’Inquisizione nonché futuro papa con il nome di Paolo IV. Tutto questo fa di Q un romanzo corale magniloquente, un affresco d’epoca raccontato tramite uno sguardo non convenzionale, perché i due io narranti della vicenda sono due personaggi senza nome e senza volto, che si materializzano nella storia e la raccontano (attraverso il loro diario o delle lettere). Opera postmoderna e frammentaria, che mescola piani temporali, stili e generi diversi (in primis romanzo storico ed epistolare, ma in alcuni punti addirittura teatrale), risente forse di una scrittura a più mani ma non per questo ne esce sminuita: anzi, questo metodo di scrittura è addirittura funzionale al racconto, magmatico e disomogeneo, dove tutto è filtrato e mescolato in un miscuglio rozzo ma freschissimo. A corredo del volume, un’appendice iconografica riunisce stampe dei protagonisti e delle città dell’epoca che ospitano la vicenda.

giovedì 13 maggio 2010

Victor Hugo - I miserabili

Mi ha accompagnato per quattro mesi e mezzo, mi ha esaltato e annoiato, commosso e indisposto. Tutto questo è stato per me l’opera più famosa di Victor Hugo, capace di scoraggiare i deboli di cuore ma in grado di dare belle soddisfazioni agli intrepidi che concedono ancora qualche possibilità ai feuilleton ottocenteschi (genere mai fino in fondo considerato e apprezzato). È bene precisare che si tratta di un romanzo colossale, nelle dimensioni e nei temi, suddiviso in cinque parti o “tomi”, a loro volta suddivisi in più libri e ancora in capitoli. Racconta la storia di Jean Valjean, un potatore di Faverolles che ha rotto una vetrina e rubato un tozzo di pane e che per questo (e ripetuti tentativi di fuga) è stata condannato a quasi vent’anni dl bagno penale: arrivato a Digne e rifiutato da tutti, trova ospitalità nella casa di monsignor Myriel, vescovo della città, definito “un giusto” (alla sua santa condotta d vita è dedicato l’intero primo libro dell’intero romanzo). L’esperienza del carcere ha radicato nell’animo del galeotto un cupo rancore contro la società e un sentimento di rivincita, tanto che egli fugge rubando l’argenteria del vescovo; arrestato dai gendarmi e condotto con la refurtiva dinanzi a Myriel, viene salvato dall’intervento del prelato che mente dicendo di aver donato lui l’argenteria a quel pover’uomo, e in più gli dona due candelabri d’argento, come segno dell’impegno di diventare un uomo migliore e finalmente onesto. Questo fatto (oltre al drammatico incontro con un piccolo savoiardo al quale ruba una moneta) agisce su Jean a livello profondo, rivelandogli l’esistenza della carità: lo troviamo anni dopo, a Montreuil-sur-Mer sotto il falso nome di Madelaine, industriale e proprietario di una vetreria grazie alla quale si è arricchito onestamente. La fabbrica offre lavoro a donne e uomini della zona, che Madeleine tratta bene e gratifica con un buono stipendio. È talmente amato dai suoi concittadini da essere nominato sindaco e da ricevere, per i suoi meriti nel campo del lavoro, la prestigiosa Legion d’onore. Tutto sembra cambiare quando a capo della polizia di Montreuil viene nominato l’ispettore Javert, che conosce Valjean dai tempi del bagno penale e da anni è sulle sue tracce per il furto al piccolo savoiardo (se fosse arrestato, l’ex galeotto rischierebbe una condanna a vita come recidivo): egli è un bizzarro e fanatico poliziotto, ferreo sostenitore dell’ordine e delle classi dominanti, ma soprattutto nemico dei miserabili e assertore della loro totale incapacità di riscatto o redenzione. Tra le operaie della fabbrica di Madelaine c’è anche una giovane donna, Fantine, madre di una bambina, Cosette, che per problemi di mantenimento economici ha abbandonato a una sordida coppia di locandieri prodittatori, i Thénardier: viene licenziata dalla fabbrica da alcuni zelanti perbenisti che non vogliono tollerare la sua maternità fuori dal matrimonio, ed è costretta a prostituirsi per guadagnare il denaro da inviare ai Thénardier. Proprio Javert la fa arrestare e per questo si scontra ferocemente con Madelaine: mentre il poliziotto denuncia il sindaco alla prefettura, quest’ultimo accorre al capezzale della povera donna e le promette di occuparsi della bambina. Deve però affrontare un problema ancora più grosso, perché viene a sapere che un vagabondo, arrestato per aver rubato in un frutteto, è stato scambiato per il ricercato Jean Valjean e rischia la prigione a vita: attraverso un monologo interiore di un’eccezionale profondità che porta un uomo ora onesto a interrogarsi se un disgraziato non si sia davvero meritato quella sorte per i suoi crimini e se non sia meglio mandare in prigione qualcun altro al proprio posto per poter continuare ad assicurare gioia e felicità alla città e alle persone bisognose che lo circondano, alla fine Madelaine non può imporre alla sua coscienza di tacere e permettere che un innocente paghi al suo posto, e si presenta ad Arras rivelando la sua identità. Più che le prove, ciò che convince i magistrati della sua colpa è l’aver chiamato Nepoleone “l’imperatore”: sono infatti gli anni più reazionari della restaurazione ed egli viene condannato e rinchiuso in carcere, dal quale però fugge nuovamente. Valjean raggiunge la locanda dei Thénardier, dove scopre che la piccola Cosette è vittima di maltrattamenti e la riscatta per millecinquecento franchi. Trasferitisi a Parigi e braccati dalla polizia, i due trovano rifugio presso un convento di monache, dove Valjean (fintosi padre della piccola) offre la propria manodopera come giardiniere. Dopo qualche anno, nel 1829, i due escono dal convento e (grazie ai sodi che Valjean ha messo in salvo da Montreuil) vanno a vivere da soli: l’uomo si fa chiamare Fauchelevent e si presenta come un possidente, Cosette è cresciuta ed diventata una bella ragazza. Di lei si innamora Marius Pontmercy, un giovane idealista figlio di ufficiale napoleonico che ha, a sua volta, abbracciato gli ideali democratici e repubblicani: questa è la ragione che lo porta a litigare con il nonno, Monsieur Gillenormand, vecchio aristocratico dalle idee ottusamente conservatrici, e da abbandonare la sua casa. Marius, che vive il ricordo del padre come una vera e propria religione, è disperatamente a caccia del benefattore del genitore, colui che gli salvò la vita sul campo di battaglia di Waterloo, lo stesso Thénardier che in realtà su quel campo di battaglia si stava aggirando per compiere i primi furti della sua grama esistenza a danno dei cadaveri. Proprio Thénardier ritrova, a Parigi, le tracce di Valjean e, con la sua degna moglie e alcuni delinquenti che si sono uniti a lui, lo fa prigioniero e lo ricatta nel suo alloggio, la topaia Gorbeau, dove vive lo stesso Marius. Il giovane pensa di aiutare il povero Fauchelevent denunciando il fatto all’ispettore Javert, che fa irruzione nel covo dei banditi: Valjean riesce comunque, ancora una volta, a scappare. L’ex galeotto, che vede Cosette come unica ragione di vita e ricompensa, odia Marius come un l’intruso (tanto che vorrebbe partire con la figlia per Londra), ma poi viene a patti con la propria coscienza e decide di cercarlo per condurlo da Cosette, che lui ha giurato di rendere felice. È il 5 giugno 1832: Marius si batte sulle barricate accanto ai repubblicani. Qui cade Gavroche, uno spiantato monello parigino, ed Éponine, che ha seguito Marius in quanto innamorata di lui: sono entrambi figli dei Thénardier, il primo abbandonato dall’infanzia, la seconda ingranaggio nei criminali piani del padre. Alla barricata, Valjean incontra Javert, sorpreso mentre spiava gli insorti e che deve essere giustiziato: finge di accettare il ruolo del carnefice e invece libera il poliziotto, il quale subisce con rancore e fastidio la generosità del vecchio nemico. Disperato di non aver fatto fino in fondo il proprio dovere e incapace di accettare l’idea che un miserabile possa essersi redento e di rispondere al male con il bene, Javert si uccide gettandosi nella Senna. Quando la barricata è travolta, Marius pare uno dei morti, ma Valjean se lo carica sulle spalle e si cala nelle fogne, nel ventre di Parigi. Una volta che Marius e Cosette si sono sposati (e Marius ha fatto pace con il nonno Gillenormand), Valjean rivela al giovane il suo passato di carcerato e il giovane, che non sa di dovergli la vita, si rivela il peggiore di tutti, miserabile tra i miserabili: lui, rivoluzionario, colui che ha combattuto per la rivoluzione e il popolo contro la tirannide, tratta un ex forzato come il peggiore dei criminali, dimostrandosi del tutto privo di umanità. Sarà Thenardier a svelare, suo malgrado, la grandezza morale di Valjean e a spingere i due giovani a riconciliarsi con lui sul letto di morte. Al di là della facili interpretazioni manichee, la grandezza di questo romanzo fatto di cadute e di risalite, di peccati e di redenzione (che si concretizzano compiutamente nel protagonista Jean Valjean), sta nell’aver delineato alcune figure indimenticabili, rese “miserabili” dalla società e quindi degne di compassione: l’intera vicenda è infatti una ricerca delle radici della criminalità, della prostituzione, del disagio minorile, mali sociali su cui la società francese deve saper riflettere e prendere provvedimenti illuminati. La società stessa non gode di particolare stima da parte di Hugo: quando Madelaine viene arrestato e si rivela essere l’ex forzato Valjean, i notabili della città sono soddisfatti di come sono andate le cose e, in nome di uno sterile perbenismo, accettano che l’economia cittadina vada in rovina senza la fabbrica di Madelaine. Nessuno sembra salvarsi nell’impietosa analisi dello scrittore, nemmeno i preti (perché, a fronte di un monsignor Myriel, c’è un personaggio come il curato di Montreuil che, credendo di fare cosa saggia, usa il denaro lasciato da Valjean per la degna sepoltura di Fantine per donarlo ai poveri, facendo seppellire la donna in una fossa comune), ma è stupefacente che in pieno Ottocento laico e tendenzialmente anticlericale, Hugo proponga l’amore per il prossimo come unica vera soluzione dei moti rivoluzionari. Suo particolare merito è l’essere riuscito ad aver dato vita a personaggi che facilmente avrebbero potuto scadere nel programmatico, a rendere umani dei “tipi” altrimenti ideologizzati e stereotipati; così come bisogna dargli atto di essere riuscito a dipingere il labirinto delle fogne di Parigi come vero e proprio “mondo alternativo”, specchio rovesciato della realtà e voragine sull’abisso. Piuttosto, secondo una logica sconsiderata, frammentaria e per certi versi indisponente, dopo un primo tomo veramente avvincente e denso (comprende all’incirca metà della trama), lo scrittore si dilunga, compie digressioni, si perde e si ritrova: è incredibile la ricostruzione della battaglia di Waterloo all’inizio del secondo tomo, meno memorabili sono invece la successiva dissertazione sui conventi con annessa polemica antimonastica e quella sui monelli vagabondi di cui era piena la Parigi del XIX secolo e che funge da introduzione all’ingresso di Gavroche. Molto spazio è dedicato alla descrizione degli eventi della rivoluzione e della Monarchia di Luglio, dove vengono sviscerate le ragioni della protesta popolare del 1832, e alla vita dei giovani insorti (Enjolras, Combeferre, Provaire, Feuilly, Courfeyrac, Bahorel, Bossuet, Joly e Grantaire): proprio nei discorsi e nelle aspirazioni di questi giovani rivoluzionari, Hugo è capace di anticipare molte delle illusioni e delle ideologie del XX secolo. Tutto questo rende l’opera una sorta di capolavoro imperfetto ma anche, forse, il romanzo della Francia del XIX secolo per antonomasia, un grande affresco corale di ampio respiro che abbraccia diverse epoche storiche e dipinge Parigi come protagonista aggiunto, una città sconnessa e irregolare, fatta di catapecchie e stradine, ben diversa da quella trionfale e spaziosa che conosciamo tutti e, per questo, teatro ideale per le gesta dei miserabili (memorabile la descrizione dei resti del monumento a forma di elefante in Piazza della Bastiglia, voluto da Napoleone ma ben presto abbandonato e qui abitato da Gavroche). Particolarmente efficace la tecnica del mettere sempre il lettore nella condizione di sapere già l’identità dei personaggi, un passo più in là dei fatti narrati, così da anticipare il senso di partecipazione alla vicenda e dilatare il coinvolgimento. A livello di scrittura e di puro piacere narrativo, però, sono sempre del parere che vinca nettamente Dumas…