
Ogni volta che esce un nuovo romanzo di Umberto Eco mi diverto a leggere le ragioni addotte dai vari giornali per spiegare perché l’ultima fatica del grande semiologo è migliore del Nome della Rosa, sperando di scovare le ragioni di un credito così incondizionato (quando in realtà ci si sarebbe dovuti accorgere che il nostro è in fase calante già da molto tempo). Ovviamente, fare meglio del Nome della Rosa è impossibile e, allo stato delle cose, lo è anche cercare di avvicinarcisi (nonostante la sontuosa veste editoriale del prodotto, con molte stampe provenienti dalla collezione privata dell’autore). Come giù nel Pendolo di Foucault, Eco affronta la costruzione del falso attraverso il verosimile e il subdolo, insieme alla necessità di costruire un nemico per costruirsi un’identità che in realtà non si ha: questa volta racconta la storia di un falsario (e pluriomicida), Simone Simonini, vissuto tra il 1830 e il 1897 e unico personaggio inventato del romanzo (mentre tutti gli altri sono storicamente accertati), che è responsabile di molti falsi storici. Educato al mestiere di falsario da un notaio che gli spiega «io non produco dei falsi, bensì nuove copie di un documento autentico che è andato perduto o che, per banale accidente, non è stato mai prodotto, ma che avrebbe potuto e dovuto esserlo», il bigotto e misogino Simonini collabora con la polizia come informatore contro i giovani carbonari piemontesi, quindi come spia del governo nel Regno delle Due Sicilie occupato da Garibaldi per trovare (e fabbricare) documenti che provino la cattiva amministrazione di quelle terre da parte dell’entourage repubblicano dell’Eroe dei Due Mondi, in modo da giustificare un intervento piemontesi; purtroppo il rapporto da lui prodotto, teso a screditare Garibaldi e i soldati garibaldini, gli ebrei e soprattutto i massoni inglesi finanziatori dell’intera operazione, irrita il governo piemontese. Quando poi, per far scomparire dei documenti compromettenti sui finanziamenti dell’impresa, fa saltare in aria il bastimento sul quale viaggia Ippolito Nievo, il governo piemontese lo allontana definitivamente con destinazione Parigi, dove Simonini sopravvive come creatore di falsi testamenti e rivenditore di ostie consacrate, aiuta la polizia a eliminare un circolo di dinamitardi anarcoidi e antinapoleonici (creando il complotto per poi denunciarlo) e vive il periodo della Comune. Tra le altre cose, grazie a un abile gioco tra vari servizi segreti, produce i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un complotto ordito nella fantasia del suo autore in rituali appuntamenti nel cimitero di Praga (da cui il titolo del romanzo) durante i quali i rabbini decidono come organizzare il mondo; infine, partecipa direttamente all’affare Dreyfus (ufficiale ebreo alsaziano in servizio presso lo stato maggiore e arrestato per spionaggio in seguito al rinvenimento di una lettera anonima diretta all’addetto militare tedesco a Parigi e quindi condannato alla deportazione a vita nell’Isola del Diavolo) e come dinamitardo in una serie di attentati alla metropolitana, finendo per vantarsi di essere stato quasi un anticipatore del nazismo («prendi delle brigate per addestrare e indottrinare, e ogni persona col naso adunco e i capelli ricci che incontri, al muro»). Quello di Simonini (che si chiama così in memoria di San Simonino, «un bimbo martire che nel lontano Quattrocento, in quel di Trento, fu rapito dagli ebrei che lo hanno ucciso e poi fatto a pezzi, sempre per usarne il sangue nei loro riti») è un antisemitismo ideologico, dal momento che egli di ebreo non ne ha mai conosciuto uno di persona (anzi, quando incontra Sigmund Freud, ammette che non lo l’avrebbe mai detto se non l’avesse saputo): un comportamento frutto di un’educazione retriva (lo spaventoso ebreo Mordechai dei racconti di suo nonno) e di un pensiero cattolico che ha ormai abbracciato la teoria del complotto per spiegare la deriva moderna e ha unito l’antisemitismo con le idee della Rivoluzione Francese (cioè gli ebrei diventano i capri espiatori principali di una congiura giacobina che vede complottare insieme templari, framassoni e Illuminati di Baviera). Sono i cattolici a uscirci un po’ con le ossa rotte dal romanzo: non è un caso che, tra le “imprese” di Simonini, oltre ai rapporti con l’abate satanista Boullan, ci sia la creazione a tavolino del caso di Léo Taxil, massone e anticlericale fintamente convertito al cristianesimo, difensore oltranzista dell’ultracattolicità e inventore di una finta sacerdotessa pentita della massoneria, Diana Vaughan (in realtà una squilibrata americana), le cui confessioni, che descrivevano riti satanici praticati dai massoni, del tutto inventate da Taxil stesso, vennero pubblicate a puntate, riscuotendo un grandissimo successo (senza che nessuno vedesse mai sul serio Diana Vaughan) anche presso le gerarchie ecclesiastiche tanto che Taxil fu ricevuto in udienza pubblica da Leone XIII (in seguito Taxil ammise candidamente tutto facendosi beffe della credulità dei cattolici). Lungi da me l’intenzione di buttarla sul piano dei valori espressi (certo che leggere il modo in cui Teresa di Lisieux, una delle maggiori sante della Chiesa cattolica, viene sbeffeggiata per come scrisse che Diana Vaughan era la Giovanna d’Arco dei tempi moderni, fa male, così come la dichiarazione dello psichiatra Du Murier secondo il quale «una mistica è un’isterica che ha incontrato il suo confessore prima del suo medico»): Eco rivendica la bontà del suo modus operandi, basato sull’accostamento di idee contraddittorie che da sole dovrebbero far emergere l’assurdità dell’antisemitismo e in genere del complottiamo come unica spiegazione per i mali del mondo e della società. Vorrei però osservare che lo scrittore ha altresì molto elegantemente affermato, in una presentazione del libro su Corriere TV, che le sue tesi sono talmente contraddittorie che “ci voleva proprio un coglione per prenderle sul serio”, con allusione nemmeno troppo nascosta alla povera Lucetta Scaraffia, rea di aver trovato “ambiguo” il romanzo sulle colonne de "L’Osservatore Romano" (che, sempre per il democraticissimo e sghignazzante Eco, “è meglio stesse zitto rispetto a quanto scritto nei secoli scorsi”). Scaraffia che, da parte sua, ha semplicemente rivolto delle critiche legittime, giudicandolo “noioso, farraginoso, di difficilissima lettura. […] Del feuilleton non ha la trama avvincente, i personaggi appassionanti, l’intreccio abile da cui non ci si riesce a staccare”. Parole sante. Di tutte le varie apparizioni pubbliche e comparsate televisive di Eco per la promozione del libro, a destare qualche perplessità è la totale assenza di ragionamenti sulla validità letteraria del romanzo: nonostante la presenza di numerosi storici, tutti impegnatissimi a dimostrare la pericolosità dell’antisemitismo e la bravura di Eco nell’affrontare l’origine di un tema funesto come quello dei Protocolli (per non parlare dell’abbinamento del tema del Risorgimento proprio in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia), temo ci si sia dimenticati di presentare l’opera per quello che è, un’opera di narrativa. Che, in quanto tale, non funziona troppo bene, zavorrata da una costruzione tronfia e senza guizzi: della genialità della costruzione di un romanzo come Il nome della rosa, grondante erudizione ma vincente in quanto leggibile a più livelli, qui non v’è traccia. Tanto più che, trattandosi di un romanzo a tesi, è impossibile ogni meccanismo di identificazione con qualsiasi personaggio che non sia Simonini (costruito per essere odiato). La stessa tematica psicologica del doppio (l’intero romanzo è strutturato come una sorta di finto diario tenuto da due parti di una personalità schizoide, Simonini stesso e l’abate Dalla Piccola) è stiracchiata e banalizzata. Peccato, perché un’idea geniale c’è, e precisamente quella che, per avere successo, in qualsiasi epoca, tutti i dossier spionistici devono contenere materiale già conosciuto, tanto che Simonini parte dai romanzi d’appendice di Dumas e Eugène Sue e da alcuni cliché esistenti nella società («la gente divora vicende di terra e di mare o storie criminali per semplice diletto, poi dimentica facilmente quel che ha appreso e, quando le si racconta come vero qualcosa che ha letto in un romanzo, avverte solo vagamente che ne aveva già sentito parlare, e trova conferma dalle sue credenze»). Irritante, infine, l’insistenza sulla cucina e sulla sua esaltazione in tutte le sue forme: come a dire che, di fronte al relativismo imperante, l’unica cosa che conta è la pancia?