lunedì 31 gennaio 2011

Bridie Clark - Pretty Cozza

Le versioni italiane dei titoli stranieri stanno diventando qualcosa di sempre più imbarazzante, se è vero che “Because She Can” era diventato “Quella stronza del mio capo” mentre questo “The Overnight Socialite” è arrivato nelle librerie con un titolo che oltrepassa ogni limite di fantasia (“Pretty cozza”), con l’aggravante di una copertina indecente che qui sopra potete ammirare in tutta la sua sfavillante bruttezza. Avevo apprezzato il debutto di Bridie Clark, giovane e brillante scrittrice che era stata in genere di sollevarsi dalla media della letteratura chick lit (senza arrivare ai vertici toccati dalla Kinsella) con un libro scontato finché si vuole ma abbastanza divertente e supportato da una scrittura di qualità. Devo dire invece di essere rimasto abbondantemente deluso da questo suo nuovo romanzo, ennesima variazione sul tema di “My Fair Lady” (istruito e ricco uomo di società trasforma brutto anatroccolo in una donna affascinante e di classe): lui è Wyatt Hayes IV, scapolo d’oro, uomo di mondo e antropologo annoiato, reduce dalla rottura con la sua fidanzata storica Cornelia; lei Lucy Jo Ellis, goffa ragazza di provincia con il sogno di diventare stilista, appena licenziata dopo aver rovinato il party della sua datrice di lavoro designer cadendo rovinosamente sulla passerella per servire lo champagne. Palcoscenico obbligato, la ricca società newyorkese. I due si incontrano di notte sotto una pioggia torrenziale: Wyatt scommette con un amico che prenderà una ragazza qualunque e, in tre mesi, la trasformerà nella donna più invidiata e ricercata dell’intera città, una vera socialite, dimostrando che chiunque, con i giusti strumenti, può diventare un faro sociale (per quanto sia possibile chiamare “faro sociale” una persona che presenzia alle feste, fa la pr o detta tendenza in fatto di moda, ma tant’è…). Inoltre, il genio, decide anche di immortalare la sua impresa scrivendo un libro sull’impresa, “Filogenesi comportamentale: da femmina beta a femmina alfa in soli tre mesi”, che ovviamente riceve l’interesse del suo vecchio professore e mentore dell’università. Sulle prime, la povera Lucy rifiuta inorridita, ma poi, vista la crisi economica e occupazionale, con la prospettiva di avere spianata la strada per il success, comincia un duro tirocinio fatto di palestra, corsi di dizione e buone maniere (si sa, è importante saperci fare, soprattutto scendere dalla macchina nel modo giusto). Perfino il suo nome cambia, trasformandosi in quello misterioso di Lucia Haverford Ellis, ricca ereditiera sulla piazza di New York (infestata da ragazze in carriera spinte a tutto dalle loro madri pur di farsi una posizione in società e farsi sposare da buoni partiti). Qualcuno ha dubbi che Wyatt e Lucy si innamoreranno? Nemmeno per sogno, tanto più che c’è anche tutta una serie di ostacoli da superare, primo fra tutti l’ex fidanzata Cornelia (una che, dopo aver sentito da un dermatologo parigino che passare troppo tempo al computer fa invecchiare precocemente la pelle, assume una ragazza che navighi in rete al posto suo), disposta a tutto pur di riconquistare Wyatt e di denigrare quella che ai suoi occhi è un’orribile parvenu. Immancabile la parentesi moralista e puritana derivata dal successo (un classico del genere): per diventare quello che è, Lucy deve fare i conti con l’ingombrante madre Rita, di professione manicure. Al di là della trama, trita e ritrita, quello che non convincono sono i personaggi, insopportabili fantocci privi non dico di spessore ma di qualsivoglia simpatia, e i dialoghi, veramente banali e ordinari. Affrettato il finale.

giovedì 27 gennaio 2011

Stieg Larsson - Uomini che odiano le donne

Il mio snobismo di fondo mi aveva sempre tenuto alla larga da Stieg Larsson, fenomeno editoriale con oltre 8 milioni di copie vendute nel mondo e morto ancor prima di vedere pubblicato questo suo libro d’esordio, il primo della trilogia Millennium. Non che abbia mai disprezzato uno che è riuscito a inchiodare l’attenzione di milioni di persone come Sutter Cane (lo scrittore del film Il seme della follia di John Carpenter che faceva impazzire i suoi lettori), a essere eletto eponimo di una nuova schiera di giallisti scandinavi che hanno invaso il mercato e in grado di rilanciare (da solo) il turismo svedese e in particolare della città di Stoccolma, grazie a tour tematici sui luoghi emblematici della suddetta trilogia. Il problema era, piuttosto, quello di trovare il coraggio di affrontare un volume di quasi 700 pagine per poi scoprire di avere a che fare con il solito bestseller sopravvalutato. Alla fine dell’impresa, senza arrivare agli eccessi un Antonio D’Orrico (che lo giudica l’erede dei grandi feuilleton del passato) o di un Carlo Fruttero (che pensa sia stato scritto direttamente dal computer), mi sono dovuto ricredere, anche se non tutto è così memorabile come si sarebbe portati a pensare. La storia segue le disavventure di un giornalista della rivista Millennium (da cui il titolo della trilogia), Mikael Blomkvist, che viene condannato a tre mesi di carcere per diffamazione nei confronti di un importante uomo d’affari svedese e che viene  contattato da Henrik Vanger, vecchio patriarca dell’industria che ogni anno per il suo compleanno riceve in regalo una misteriosa cornice di fiori, per scoprire chi quarant’anni prima avrebbe ucciso la sua amata nipote Harriet: dopo molte esitazioni Mikael si mette al lavoro sull’isola di Hedestad (di proprietà della famiglia) e incrocia il suo destino con quello di Lisbeth Salander, hacker sociopatica vittima di un passato di violenze (si tatua sul corpo un tatuaggio per ogni sopruso subito) e già assoldata dalla famiglia Vanger per scoprire se il giornalista in questione fosse corrotto o avesse punti deboli. Il romanzo procede parallelemente fin dall’inizio e ci illustra le disavventure di Lisbeth con il suo nuovo tutore depravato che la violenta, ma è dalla cooperazione con Mikael che si arriverà alla risoluzione del caso e alla scoperta dei molti scheletri nascosti nell’armadio della famiglia Vanger, legati a una serie di efferati delitti pseudorituali che hanno riguardato una serie di donne nell’arco di qualche decennio. La trama gialla non è particolarmente viva o originale e si limita a riesumare il tradizionale mistero della camera chiusa (in questo caso corrispondente ai confini dell’isola), con l’immancabile serial killer logorroico che disserta tranquillamente e filosoficamente sull’arte dell’omicidio; per il resto, gran parte del romanzo è dedicato alla vicenda della rivista Mellennium, sul punto di chiudere per mancanza di inserzionisti e rilevata dal gruppo Vanger, fino al pirotecnico finale in cui il giornalista buono si vendica (anche e soprattutto grazie a mezzi non leciti) mentre l’oscuro uomo d’affari viene smascherato e punito. Lo stile di Larsson non fa certamente gridare al miracolo (ma qui non so fino a che punto entri in campo la traduzione italiana) ed è piatto come quello di ogni giornalista economico che si rispetti (Larsson era, per l’appunto, un giornalista economico), però ha un suo perché e finisce per dare al tutto un’aura grigia e depressiva che è davvero intonata al panorama di squallore da lui evocato. La sua umanità è fredda e desolata, fatta di problemi familiari e matrimoni falliti (Mikael ha un’ex moglie e un’ex figlia che non vede mai, Lisbeth una madre demente che la scambia per sua sorella) e condizionata da una sessualità disordinata e occasionale (Mikael va a letto indiscriminatamente con la sua direttrice sposata, con una piacente signora che fa parte della famiglia Vanger e, per la gioia dei lettori, con la problematica Lisbeth); la sua società è distorta e malata e nasconde i peggiori crimini (stupri, nazismo, antisemitismo, perversioni di ogni tipo) dietro la patina della rispettabilità borghese e della socialdemocrazia. Larsson ha avuto gioco facile nell’evocare il passato hitleriano della Svezia (era un esperto di organizzazioni di estrema destra e neonaziste tanto da aver fondato una rivista sull’argomento), ma è stato abile a mettere a nudo le ipocrisie di un Paese che a parole spende più soldi per la tutela delle donne e poi ha il maggior numero di reati e violenze ai loro danni; funziona meno, invece, quando con tono tribunalizio invoca la necessità che i media vigilino sulla correttezza delle operazioni finanziarie. Resta comunque opinabile che su un libro del genere si debbano perdere le notti…

sabato 15 gennaio 2011

Clive Staples Lewis - Il viaggio del veliero

Per quanto in occasione dell’uscita del film tratto da “Il viaggio del veliero” Liam Neeson si sia sforzato di chiarire che il leone Aslan (da lui doppiato nella serie cinematografica) non è Cristo ma che ha qualcosa di Maometto, di Buddha e di tutti i grandi profeti e delle guide spirituali che il mondo ha conosciuto, ovviamente nel nome del politicamente corretto e dell’imperante sincretismo New Age, è inutile girarci tanto intorno: l’impronta fortemente morale di C. S. Lewis rimane ovviamente anche in questo quarto capitolo della saga delle Cronache di Narnia, più che mai caricato di valenze pedagogiche rivolte all’infanzia e incentrato sull’importanza della fede cristiana. Protagonisti questa volta sono i due figli più piccoli della famiglia Pevensie, Edmund e Lucy, che vengono mandati in vacanza a casa del loro odioso e saccente cugino Eustachio: improvvisamente, vengono trasportati in un viaggio fantastico, a bordo del veliero dipinto in un quadro che di colpo si materializza. Qui trovano il loro amico Caspian, re di Narnia, che ha deciso di affrontare con la nave Lady Alba (in originale Dawn Treader) le onde dell’oceano per andare a cercare sette signori amici di suo padre che si sono spinte nella parte più remota del mondo: il viaggio li porterà a toccare diverse isole e ad affrontare schiavisti, serpenti marini, strane creature invisibili e la materializzazione dei loro incubi. La struttura del romanzo è piuttosto lineare (non bisogna dimenticare che è destinato ai bambini) e prevede una serie di avventure in successione (devo dire che, come nel caso del precedente Il Principe Caspian, il film ha mostrato una sceneggiatura più complessa e abile nell’intrecciare i temi), ma questo non impedisce a Lewis di disseminare il racconto di tante simbologie e messaggi che ne rendono adatta la lettura anche agli adulti: Edmund e Lucy si trovano a fare i conti con i primi turbamenti dell’adolescenza in grado di far vacillare la loro purezza (Edmund viene tentato nella cupidigia e nell’orgoglio nella rivalità con Caspian, Lucy invece nell’invidia per la sorella e nel giudizio per la maldicenza delle compagne di scuola), ma a cambiare profondamente è l’indisponente e sgarbato Eustachio, l’unico bambino di cui Lewis parla anche dei genitori, riferendosi a loro come a genitori moderni, che si fanno chiamare dal figlio per nome (e non mamma e papà) e lo mandano in una scuola altrettanto all’avanguardia, dove tuttavia finisce per non avere alcun amico. All’inizio Eustachio è ottusamente chiuso verso tutte le meraviglie che gli si presentano ed è pieno di livore verso i suoi cugini (lui stesso dice di odiarli), quindi cambia profondamente in seguito a una sua prodigiosa trasformazione in drago dopo essersi impadronito di un tesoro abbandonato: solo Aslan può trasformarlo dopo averlo guardato negli occhi e messo a nudo nei suoi sentimenti, in una scena parecchio debitrice all’episodio evangelico della guarigione del cieco presso la piscina di Siloe, che porta il bambino a spogliarsi della scorza del drago per rinascere come nuova creatura, restituita alla sua umanità. Da parte sua, Caspian è posseduto da uno spirito avventuroso senza precedenti e decide di spingersi fino alla terra di Aslan, dove l’acqua del mare non è più salata ma serve anche da nutrimento, ma il sovrano è costretto a rinunciare: è il piccolo topo Ricipì, eroico e incapace di giudizio (è l’unico a trattare gentilmente Eustachio quando è trasformato in drago), ad acquistare la barca per l’ultimo viaggio nel paese di Aslan, dove avrà il compito di attendere i suoi amici. Tuttavia Caspian non torna dal grande viaggio a mani vuote: nel corso dell’impresa conosce e si innamora della figlia di re Ramando, che in seguito sposa. Potrei risultare monotono, ma tra le varie edizioni uscite in concomitanza all’uscita del film, raccomando di sceglierne una qualsiasi che abbia le illustrazioni di Pauline Baynes: si va sempre sul sicuro, e senza non è la stessa cosa.

sabato 1 gennaio 2011

Albert Savine e François Bournand - Robespierre

È sempre difficile parlare della Rivoluzione Francese, se si considera che è un momento cardine per l’evoluzione della storia della società occidentale e, insieme, uno dei periodi di massima follia dell’intera storia umana: in un breve lasso temporale, l’ossessione per la legalità e l’uguaglianza dei diritti si trasformò nel suo contrario, dando inizio a insensati spargimenti di sangue sulla base di un sospetto o, peggio ancora, di una convenienza (alla faccia di chi ancora parla di momento fulgido o luminoso). Tutto questo è ben rappresentato dal personaggio imprescindibile della Rivoluzione, il suo protagonista assoluto, Massimiliano Robespierre, libertario intellettuale illuminista trasformatosi in sanguinario repressore dei nemici della Rivoluzione stessa, capace di personare schiere di persone alla ghigliottina con l’accusa di attività controrivoluzionarie. A lui è dedicata questa agile biografia di Albert Savine e François Bournand (chissà perchè François nella copertina italiana diventa S.), il cui pregio sta nel non aver cercato di tratteggiare Robespierre con taglio ideologico e militante, caricandolo di meriti o di colpe, ma nell’aver lasciato parlare le descrizioni, i rapporti e le testimonianze di quanti ci hanno avuto, direttamente o indirettamente, a che fare. A cominciare dai rapporti con la famiglia del falegname (e simpatizzante giacobino) Duplay che accolse in casa Robespierre per non lasciarlo più andare via (la moglie cercò più volte di fargli sposare una delle figlie), circondandolo di mediocrità borghese e di tutta una serie di attenzioni e lusinghe che risultarono vincenti (per questa ragione Massilimiliano litigò con la sorella Carlotta, fautrice di una sua vita indipendente e libera da una così appiccicosa compagnia). Originario di Arras e dotato sin da giovane di un carattere detestabile e di una smisurata ambizione, divenne avvocato (è curioso che tutti i protagonisti della Rivoluzione Francese fossero avvocati) tutto dedito al lavoro ma, al contempo, fu membro della Società Anacreontica dei Rosati, «meno che un’Accademia letteraria e più che una riunione di buontemponi». Ben presto scoprì la politica e, dopo essere stato tra i rappresentati del Terzo Stato agli Stati Generali, fu deputato alla Convenzione Nazionale nel gruppo della Montagna, minoritario e diviso tra Giacobini e Cordiglieri, ma unito per l’abbattimento del gruppo dei repubblicani di “massima” e dei liberali con sfumature oligarchiche, i Girondini. Demagogo populista contrario a ogni affievolimento o tentativo moderato (non per niente fu soprannominato “l’Incorruttibile”), si fece apostolo delle idee egualitarie e la sua tattica rimase sempre quella di denunciare un complotto ai suoi danni e di passare per martire della libertà. Impeccabile (quasi a livelli maniacali) nel vestire e nell’acconciatura, con una voce rauca nei toni bassi, falsa negli acuti e simile a quella di una iena negli scatti di collera, era nervosissimo e preda di tic ai muscoli del viso. Suoi amici e degni compagni furono Couthon e Saint-Just, che ne condivisero anche il destino: insieme contribuirono a spingere le sezioni rivoluzionarie parigine all’insurrezione, conclusasi con la proscrizione dei capi girondini; quindi, entrato nel Comitato di Salute Pubblica, vi esercitarono un potere crescente fino a esautorare la Convenzione stessa e instaurare la dittatura giacobina, con l’eliminazione degli estremisti di Hébert e gli indulgenti Danton e Desmoulins (che pure era stato suo amico di gioventù). Robespierre tentò quindi di realizzare il suo ideale democratico con un governo popolare che voleva fondato sulla virtù, ma che l’emergenza economica e bellica spinsero a gestire con il Terrore. L’istituzione del culto dell’Essere Supremo e la legge sui sospetti provocarono la saldatura delle opposizioni, che si palesò quando, dopo quattro settimane di assenza, alla Convenzione Robespierre attaccò, senza fare i nomi, i suoi nemici rei di aver agito ingiustamente ed ecceduto nei loro poteri, e suggerì che il Comitato di Salute Pubblica e quello della Sicurezza generale fossero rinnovati. La parte più cospicua del libro è dedicata proprio alla costruzione delle trame politiche che si celarono dietro la caduta del tiranno, ordite da personaggi che ne avevano tutto l’interesse come Fouchè, Barras e Tallien, e alla caotica caduta del 9 Termidoro quando, messi in stato d’accusa dalla Convenzione, Robespierre e i suoi partigiani si rifugiarono all’Hôtel de Ville scortate dalle truppe della Comune di Parigi, per essere arrestati e ghigliottinati il giorno dopo tra le acclamazioni della folla. Segno che, forse, il popolo non aveva presso troppo a cuore le virtuose premure del suo tiranno.