
Le storie con gli automi meccanici mi hanno sempre affascinato sin dai tempi di Syberia (avventura grafica della Microids a firma di Benoit Sokal di parecchi anni fa), figuriamoci se poi ci si mette anche Zafón. Sì, perché Le luci di settembre non è solo l’ultimo ultimo capitolo della Trilogia della nebbia che ha già visto la pubblicazione de Il principe della nebbia e Il treno della mezzanotte, ma anche l’ultimo inedito dello scrittore spagnolo ancora inedito in Italia relativo alla sua produzione precedente all’Ombra del vento e al Gioco dell’angelo. Quindi prego chiunque di smetterla con le solite critiche precotte che puntualmente accompagnano ogni sua uscita e che vogliono ogni romanzo “inferiore” all’Ombra del vento contestando una logica editoriale che intende lucrare sul fenomeno di turno, senza alcuna discriminazione in base alla qualità delle opere. Le luci di settembre non è il nuovo romanzo di Zafón, così come non lo era Marina e non lo erano gli altri (succitati) due capitoli della trilogia: soprattutto, risale a un bel po’ di anni fa ed è stato concepito e scritto per un pubblico giovanile, anche se presenta molte delle caratteristiche che hanno fatto la fortuna dell’autore presso il grande pubblico (il mistero, il soprannaturale, il romanticismo, la tristezza che permea ogni pagina). In questo caso, la vicenda è ambientata nel 1937 e vede protagonista Simone Sauvelle, una donna che rimane vedova e che, non potendo più permettersi lo stesso tenore di vita a causa del suo semplice stipendio di insegnante, decide di scappare da Parigi assieme ai figli Irene e Dorian con destinazione un piccolo paese sulla costa della Normandia, dove trova impiego come governante presso Lazarus Jahn, celebre fabbricatore di giocattoli che vive nella faraonica residenza Cravenmoore con la moglie malata (che non si vede mai). Irene fa amicizia con la ciarliera cuoca Hannah, sua coetanea, che le presenta il cugino Ismael, bello, marinaio e tormentato quanto basta per farla innamorare. Lazarus si dimostra premuroso e gentile con Simone e i suoi figli ma l’improvvisa uccisione di consegna l’intera casa nelle mani di una terribile ombra che scatena una battaglia contro Simone da un lato e contro Irene e Ismael dall’altro, mentre Lazarus appare sempre più ambiguo. La prima parte gioca d’atmosfera, con la descrizione della magione di Cravenmoore e del lugubre bosco che la circonda (resi ancor più lugubri dagli automi costruiti dal padrone di casa), la seconda diventa un’avventurosa partita a scacchi con il male (così come negli altri due capitoli della trilogia). Non tutto funziona a livello di personaggi (Dorian è incompiuto e serve solo per esprimere il tormento interiore di un figlio geloso della madre), ma questa volta il cattivo della situazione, Lazarus, non è quel demonio in stile Cain e Corelli, bensì un personaggio misterioso e complesso che paga in prima persona le conseguenze delle sue scelte passate e delle sue paure. Zafón gioca con le sue classiche tematiche gotiche che i suoi fan conoscono bene (la casa labirinto, il patto con le tenebre disatteso e quindi punito come nel Gioco dell’angelo, gli automi senzienti e l’inventore che cerca di dare vita attraverso la meccanica, tema ripreso anche dal successivo Marina) e carica la vicenda con il ricorso al Doppelgänger (la copia spettrale di una persona vivente) e la leggenda sulle luci che verso il mese di settembre avvolgono l’isolotto del faro che si trova davanti alla casa di Simone e dei suoi figli e che riguarda una donna che ha tragicamente perso la vita per raggiungere il suo amato che si trovava proprio nel faro. L’invito, come sempre, è quello di lasciarsi spaventare e conquistare dal potere di questa narrazione immersiva e trascinante.